Roma (NEV), 24 novembre 2010 – Poter lasciare le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari cui essere sottoposti nel caso in cui non si possa esprimere il proprio volere direttamente al personale sanitario, è una logica conseguenza della pratica del consenso informato. Tale pratica, se onestamente e correttamente gestita, imposta una nuova relazione tra il medico ed il paziente mettendo in relazione due soggetti dotati di autonomia decisionale e vincolati da un rapporto di collaborazione e rispetto. Il cosiddetto “testamento biologico” è il mezzo con cui si può estendere la pratica del consenso informato nel caso di impossibilità di esprimersi da parte del paziente.
E’ il modo con cui si figura l’autonomia decisionale del paziente, della persona che ci può far pervenire la sua decisione oltre la sua capacità di esprimerla. Questa dovrebbe essere salutata come una grande opportunità. Eppure in Italia non c’è una legge che regoli la materia, anzi questa materia è stata fortemente ideologizzata fino a ridurre una questione complessa a schieramenti contrapposti. Chi è a favore del testamento biologico sarebbe contro la vita, portatore di una cultura di morte, sostenitore di pratiche eutanasiche, in realtà nelle direttive anticipate possono essere espressi sia la fine dei trattamenti che la loro continuazione, dipende dalle decisioni delle singole persone. In Italia, molti cittadini e cittadine si sono rivolti a comuni, chiese, ed associazioni che hanno organizzato raccolte di volontà anticipate. A Milano, Napoli, Trieste, Torino e in altri luoghi, le chiese valdesi e metodiste hanno costituito dei punti di raccolta, aperti a tutti e tutte.
La motivazione di questa scelta da parte di chiese cristiane significa innanzitutto valutare positivamente l’autonomia decisionale di un soggetto umano che come ha avuto capacità di scelta nel pieno della sua vita, la può avere in vista della sua morte. In secondo luogo, questa impostazione è portatrice di una concezione dello Stato che è chiamato a regolare le scelte dei cittadini nell’ottica della convivenza civile e non ad imporre scelte private sulla base di principi morali univoci. E’ della scorsa settimana, purtroppo, la circolare dei ministeri della salute, del welfare e degli interni indirizzata ai comuni italiani, secondo cui non essendoci nessuna norma che attribuisce ai comuni competenza in materia, dichiara non legittimi i registri in cui si sono raccolte le volontà dei cittadini e delle cittadine. La competenza in materia è del legislatore nazionale che però non ha finora legiferato. L’iniziativa dei comuni è stata presentata come una presa in giro dei cittadini e delle cittadine perché quelle volontà sono prive di valore giuridico. Sembra evidente il tentativo di arginare se non intimidire queste iniziative della società civile e l’opinione espressa dai cittadini e dalle cittadine.
Pensare che nel caso Englaro, proprio l’assenza di volontà scritte costituì un ostacolo ulteriore al porre fine ai trattamenti. Queste vicende sono in fondo la prova che lo Stato non intende dare valore alla decisione, e alle scelte etiche dei cittadini e delle cittadine che sono per forza di cose plurali e continua a perseguire l’idea di uno Stato etico che ritiene di coartare anche scelte così private e personali, passando sopra ai corpi e alle loro storie reali, e ai rapporti umani entro cui si giocano le scelte individuali: la famiglia, gli amici, ma anche i medici e il personale sanitario.