Il 3 ottobre del 2013 a pochi metri dalle spiagge di Lampedusa morivano 368 persone, uccise dalla violenza della dittatura che subivano in Eritrea ma anche da un sistema di leggi che impediva loro di arrivare in sicurezza in quell’Europa che avrebbe dovuto tutelare e garantire i diritti umani di chi fugge da violenze, persecuzioni, stragi. L’immagine delle 368 bare allineate in un deposito dell’aeroporto fece il giro del mondo e suscitò un’ondata di emozioni molto intensa. L’operazione Mare Nostrum nacque da quella tragedia e da quello scandalo morale e, da allora, la data del 3 ottobre è diventata un simbolo e un monito a tutta l’Europa perché abbatta il muro che sta costruendo attorno ad essa.
Anche quest’anno uomini e donne di diverse fedi si sono ritrovati a Lampedusa per fare memoria di quell’evento e per rinnovare la loro richiesta di un nuovo e diverso approccio alle migrazioni mediterranee. Le migliaia di persone che bussano all’Europa non sono i migranti “economici” che l’Italia ha conosciuto a partire dalla metà degli anni ’70. Basta osservare le loro provenienze e immedesimarsi nell’inferno che vivono passando mesi in attesa di un criminale che dopo aver estorto loro migliaia di euro li carichi in una stiva di fumi e vapori, per capire che siamo di fronte a un fenomeno nuovo, in cui il tema della povertà si intreccia a quello delle persecuzioni, la desertificazione a quello dei diritti, la carestia a quello della libertà. E’ una nuova migrazione globale – distinta e diversa da quella che ha attraversato il Novecento – e che ha una stretta relazione con il fallimento degli interventi militari occidentali in Afghanistan, Iraq, Libia… Certo, nel grande disordine mediterraneo c’è anche altro come l’insorgere del peggiore fondamentalismo di matrice islamista, cupo e blasfemo quanto violento e in grado di destabilizzare un’ampia area geopolitica del Medio Oriente e del Nord Africa; o l’esito incerto delle rivoluzione arabe; e persino il gioco egemonico di alcuni paesi arabi. Ma le migliaia di profughi che oggi bussano alla nostra porta sono anche le vittime dei “nostri errori” e dei fallimenti politici e militari dell’Occidente, compresa l’Europa che oggi alza muri e fortificazioni per proteggersi dall’ondata migratoria.
Questo hanno ribadito i cristiani – cattolici, protestanti, ortodossi – ma anche i musulmani, gli induisti, i buddhisti, i sikh e i mormoni che si sono ritrovati a Lampedusa per pregare insieme e rinnovare un patto di impegno per una nuova politica migratoria globale.
Ma mentre tornavamo a casa, confortati dall’amicizia e dal sostegno di tanti lampedusani che avevano voluto condividere questo momento di preghiera e di impegno, ci ha raggiunto la notizia di circa un centinaio di morti a poche miglia di distanza dalla costa libica. A seguire il solito corredo di immagini, di corpi galleggianti, di volti sfigurati di bambini, di dichiarazioni più o meno ipocritamente commosse.
Nulla che non fosse già visto, perché nel Mediterraneo si muore anche il 3 ottobre. E tra qualche anno non sapremo bene quale strage abbia originato una data divenuta simbolica.
Nei prossimi giorni la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e la Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con le autorità italiane, attiveranno dei corridoi umanitari che consentiranno a soggetti vulnerabili e in condizione di pericolo di ottenere un visto di protezione umanitaria che consentirà loro di raggiungere l’Italia in sicurezza. Sarà un test, una “buona pratica” da verificare e possibilmente da estendere ad altri paesi europei. Ma intanto si inizia con l’Italia, all’avanguardia nell’adozione di un provvedimento di accoglienza “guidata” nei confronti di uomini, donne e minori bisognosi di protezione che si sono raccolti in Marocco e in Libano. E’ uno degli sbocchi di Mediterranean Hope, il programma sulle migrazioni mediterranee lanciato dalla FCEI oltre un anno fa, e ormai sostenuto da chiese di tutta Europa. Politicamente è l’aspetto più importante e impegnativo dell’intero programma. E comporta un grande impegno, forse al di sopra delle nostre possibilità di accompagnamento e di accoglienza. Ma lo dobbiamo alle vittime senza nome di cui fatichiamo a tenere la contabilità. Lo dobbiamo anche alla nostra coscienza cristiana che non ce la fa a sopportare in silenzio stragi che si ripetono persino il 3 ottobre.