Roma (NEV), 22 ottobre 2014 – “Fratelli e sorelle di Jerry Masslo. L’immigrazione evangelica in Italia”, è il titolo di un volume curato da Paolo Naso, Alessia Passarelli e Tamara Pispisa, recentemente pubblicato dalla Claudiana nella collana Nostro Tempo. Il libro è il risultato di una ricerca “sul campo” che copre una lacuna dell’analisi sociale sul nuovo pluralismo religioso che si è affermato anche in Italia. A fronte di numerosi studi sugli immigrati musulmani e di qualche recente analisi su quelli ortodossi, infatti, la realtà evangelica è stata poco o nulla esplorata. La ricerca e la pubblicazione di questo volume sono state realizzate nell’ambito del programma “Essere chiesa insieme” della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). L’agenzia stampa NEV ha voluto rivolgere alcune domande al politologo Paolo Naso per parlare della pubblicazione e del progetto “Essere chiesa insieme” del quale è coordinatore.
La ricerca sull’immigrazione evangelica in Italia è dedicata a Jerrry Masslo (nella foto), il profugo politico sudafricano che il 24 agosto 1989 fu ucciso a Villa Literno nel corso di una rapina ai danni degli immigrati impegnati nella raccolta dei pomodori. Qual è il motivo che vi ha spinti a questo omaggio?
Masslo morì quando ancora si pensava che l’immigrazione nel nostro paese fosse un fenomeno anomalo e passeggero, determinato da processi economici contingenti e reversibili. La sua morte contribuì ad aprire un dibattito sull’eccezionale trasformazione dell’Italia da paese di emigranti a meta di un numero crescente di immigrati. La sua morte – fu ucciso da alcuni criminali comunali che si volevano impossessare delle poche lire del suo guadagno di bracciante a Villa Literno – svelò quel mondo degli immigrati che per molti italiani erano solo fantasmi privi di diritti e di visibilità, ombre senza volto sui pescherecci di Mazara del Vallo, nei campi di pomodoro della Campania, nelle serre o negli agrumeti della Sicilia. In quell’Italia che ignorava o sottovalutava la realtà degli immigrati, nessuno pensava che la loro presenza avrebbe modificato il profilo religioso nazionale, introducendo un dirompente elemento di pluralismo. Masslo era un predicatore evangelico ma i suoi funerali vennero celebrati secondo il rito cattolico. Ma, al di là di questo incidente che però dava la misura dell’incomprensione delle implicazioni culturali dell’immigrazione, nessuno immaginava che quel predicatore che viveva raccogliendo pomodori esprimeva simbolicamente una presenza che sarebbe costantemente cresciuta negli anni, sino a diventare uno dei tasselli più importanti del mosaico italiano delle religioni.
Nel primo capitolo il volume propone molti dati statistici demografici. Che cosa emerge e perché queste presenze sono così importanti?
Negli anni i “fratelli e le sorelle” di Jerry ovvero gli immigrati evangelici in Italia si avviano a raggiungere il numero significativo di 250.000 persone. Nel nostro Paese, quasi un evangelico su due è immigrato. Restringendo il campo di analisi alle chiese storiche del protestantesimo italiano, a livello nazionale è immigrato un evangelico su tre ma in alcune regioni – specificatamente nel Nord Est – la percentuale è ormai vicina al 40%. Alcune comunità evangeliche in declino o sul punto di scomparire, sono state rigenerate dalla presenza di immigrati che ovviamente portano con sé tradizioni, culture, teologie diverse da quelle dei nazionali. L’evangelismo italiano, in altre parole, è insomma esposto alle dinamiche interculturali che attraversano il paese, e sta cercando di dare delle risposte più efficaci e coerenti a un processo di integrazione che in generale procede con grandi difficoltà. E’ un fatto importante per gli evangelici ma credo per la società italiana tutta e le istituzioni che dovrebbero finalmente prendere atto di questa rilevante novità.
La ricerca definisce dei “modelli” o delle strategie di relazione tra l’evangelismo italiano e gli immigrati evangelici?
La ricerca non propone scelte strategiche, non era il suo compito né noi ricercatori avevamo i titoli e la legittimità per indicarle. Tecnicamente ci siamo limitati a fotografare la realtà, riscontrando una varietà di modelli operativi: da quello di chiese che non intercettano il fenomeno migratorio, a quelle che si limitano ad una pratica di “accoglienza” senza che questo produca modifiche rilevanti nel culto o nell’organizzazione comunitaria, a quelle che invece si sono impegnate in un processo di ricostruzione in una prospettiva interculturale modificando schemi liturgici, organizzazione interna, prospettive di testimonianza. Ma poi c’è un quarto modello che per schematizzare possiamo definire delle “chiese etniche”, composte cioè soltanto da immigrati provenienti da una particolare area geografica ed in cui si parla in una lingua specifica. In qualche caso le chiese evangeliche si sono mosse perseguendo uno specifico modello ma la ricerca dimostra come tutte le formule siano in realtà “porose”. In altre parole, se è possibile affermare che ad esempio le chiese valdesi, metodiste e battiste hanno scelto la strada dell’integrazione multietnica, in realtà questa strategia si esprime in una varietà di modi. Ciò che convenzionalmente si definisce “Essere chiesa insieme”, ovvero la visione e la pratica di una chiesa integrata e multietnica viene interpretato in modalità variegate e a nostro giudizio complessivamente arricchenti.
Nel libro è contenuto anche uno speciale osservatorio sul mondo avventista e su quello pentecostale, realtà in forte espansione nel nostro paese.
Sono due discorsi molto diversi. L’Unione delle chiese avventiste, infatti, ha proposto una strategia che vorrei definire “del doppio binario” per cui il modello interculturale convive con chiese “etniche” fortemente ancorate, però, a una pratica di incontri e scambi territoriale con la realtà italiana. I risultati sono interessanti perché difficoltà e tensioni registrate in passato si sono risolte in un equilibrio che consente a ogni comunità di fare la propria strada ma nel quadro di una forte coesione denominazionale. Molto diverso il caso pentecostale perché, come noto, si tratta di una galassia complessa, con molti “sistemi” ciascuno dei quali ha modalità e strategie proprie. E così a fianco di chiese “internazionali” che hanno fatto un cammino interculturale, ve ne sono altre chiuse in una gabbia etnica che rallenta i processi di integrazione e di scambio con la società italiana. Se ne discute molto all’interno della Federazione delle chiese pentecostali che per altro collabora attivamente ai programmi di “Essere chiesa insieme”.
A oltre dieci anni dall’avvio di “Essere chiesa insieme”, quali sono gli obiettivi di questo progetto?
Certamente sono molto cambiati. All’inizio si trattava di accompagnare le comunità locali in un percorso interculturale di cambiamento dell’organizzazione interna o delle forme del culto, per renderlo più inclusivo delle diverse spiritualità che si volevano riconoscere e accogliere. I temi di oggi sono invece quelli dell’analisi e della formazione. I processi sociali corrono veloci e sollecitano nuove risposte: i giovani figli di immigrati cresciuti in Italia, ad esempio, vivono la fede e la tradizione in termini diversi dai propri genitori e questo ha una conseguenza diretta sul loro modo di pensare e di frequentare la chiesa. D’altra parte, superata la fase della scoperta della ricchezza dell’altro, per progredire nel cammino interculturale occorrono specifici strumenti di mediazione. E per rispondere a questa esigenza, negli ultimi due anni il programma della FCEI “Essere chiesa insieme” ha promosso il Laboratorio Interculturale di Formazione e Accoglienza (LINFA), frequentato da circa settanta persone, italiani ed immigrati, che si stanno formando per rendere un servizio qualificato nelle loro comunità. Ma se questo è ciò che cambia, ciò che resta uguale è il nord polare di una chiesa arcobaleno, capace di predicare un evangelo dell’incontro che attraversa tutte le culture e riesce a superare le barriere della separazione etnica, della diffidenza per lo straniero e della divisione tra il Sud e il Nord del mondo.