Beirut, Libano (NEV), 10 febbraio 2016 – Ci sono giornate che scorrono come molte altre. Ci sono invece giorni che valgono anni, e la giornata del 3 febbraio per noi di anni ne è valsi molti. Era iniziata bene, eravamo nel centro di Beirut, tra clacson e smog, fermi a un bar ad attendere la notizia, “l’ok” scritto in un messaggio di WhatsApp da parte di Maria Quinto che era andata a parlare con le autorità libanesi. Avevamo tutto: i visti per motivi umanitari delle autorità italiane, i biglietti aerei, il nostro amico tassista Bayan pronto per andare a Tripoli a prendere la famiglia scappata tre anni prima da Homs e che aspettava con ansia il via libera per fare le valigie per partire per l’Italia. Avevamo tutto, mancava solo quell’OK, il via libera da parte delle autorità libanesi. La sera prima c’eravamo lasciati dicendoci che ormai era fatta. Che lo scoglio più grande era passato.
Ma questa storia non era iniziata in questa giornata di febbraio, era iniziata molto prima, quando era arrivata una mail che raccontava la storia di una bambina siriana di nome Falak, scappata dalla guerra, e malata di retinoblastoma, che viveva in un garage di Tripoli, nel nord del Libano, non lontano dal confine siriano. La storia era arrivata a noi dall’isola di Lesbo, come una pallina di pingpong che rimbalza tra attivisti della frontiera. A raccontarla era stato uno zio di Falak che era arrivato con un gommone nell’isola greca. Avevamo deciso così di partire, quasi di corsa, i primi di gennaio e andare a trovare la famiglia che viveva a Tripoli. E lì avevamo deciso che occorreva fare di tutto per poter portare Falak, suo fratello e i suoi genitori in Italia.
Il tempo intanto era passato, e Falak, dopo l’intervento che le ha asportato l’occhio sinistro, aveva bisogno di iniziare la chemioterapia. Ma in Libano la cura avrebbe dovuto pagarla la famiglia. Cosa per loro impossibile. Solo attraverso i corridoi umanitari si poteva aprire un varco per salvarla. Il 3 febbraio sembrava tutto risolto, e le ansie accumulate per più di un mese sembravano sparite.
Mancava solo quell’OK.
Ci si è gelato il sangue invece quando abbiamo letto che il padre non poteva più partire, che c’era un problema nel visto, e che quindi la famiglia si sarebbe dovuta dividere. Mamma e figlia sarebbero intanto andate avanti, padre e figlioletto sarebbero seguiti. Non è uno scherzo fare un salto nel futuro per una famiglia siriana, nemmeno quando c’è la guerra dietro le spalle che ti distrugge casa, nemmeno se fai di tutto per curare Falak e vivi in un garage. Non è semplice perché migrare vuol dire lasciare tutto alle spalle e iniziare una nuova vita, e dividersi nel momento del salto della frontiera è cosa drammatica.
Li abbiamo visti piangere salutandosi, abbiamo condiviso le loro preoccupazioni, Bayan è stato molto di più che un tassista, è stato un pezzo di umanità incontrata per strada che ha saputo darci una mano. “Basterebbe poco” ci diciamo, tra noi. Ci facciamo forza perché questo progetto dei corridoi umanitari apre un varco nella frontiera europea, ed è un progetto che potrebbe aprire un dibattito politico enorme. Eppure davanti a queste storie mastichiamo amaro. Le ore passano e la giornata sembra finire così, come quando ti pareggiano all’ultimo minuto. Mentre beviamo l’ultimo caffè turco di una infinita serie però, riceviamo la notizia inaspettata, c’è il via libera anche per il padre! Anche lui ha il visto! Ma è tardi ormai, le agenzie per prenotare gli aerei sono chiuse, e Tripoli è lontana da Beirut. Decidiamo di provarci comunque, prenotiamo il biglietto aereo con l’iphone sfruttando la rete wifi del bar, andiamo a prendere il visto di corsa e chiamiamo il padre dicendogli di prendere le sue cose, prendere un taxi e raggiungerci a Beirut. Non avendo il visto con se potrebbe essere fermato lungo il percorso, e potrebbe essere portato in commissariato per gli accertamenti. Così lo chiamiamo ogni venti minuti, il suo viaggio sembra interminabile, ma alla fine, nel pieno della notte, arriva insieme a Hussein, il fratellino di Falak.
Saliamo nel suo taxi sgangherato con un tassista di Tripoli che non conosce le strade di Beirut ed impiega due ore per trovare l’albergo di Falak e della madre. Il tempo di farsi una doccia, e siamo in aeroporto, pronti per partire. “Che giornata!” ci diciamo tra noi, mentre le luci di Beirut ci salutano, che giornata… Passare questa frontiera ci sembra un rito, fatto di mille prove, ostacoli, emozioni, ed ogni volta che dentro l’aeroporto passiamo un controllo sembra che questa famiglia perda qualcosa e guadagni qualcos’altro.
Quando l’aereo prende il volo Falak e suo fratello ridono, li disegniamo che volano sopra una piuma che passa la frontiera, Falak inizia a colorare il disegno, mentre sua madre scrive la richiesta di asilo che presenteranno a breve alle autorità italiane.
A Fiumicino gli ultimi controlli, le ultime paure cadono dietro le spalle, si apre una nuova vita, e l’abbraccio dello zio di Falak arrivato di corsa dalla Germania è una sorpresa enorme che emoziona tutti. Ce l’hanno fatta, ci diciamo con gli occhi gonfi, ma che giornata…
Avere coraggio
di Alberto Mallardo, Osservatorio MH sulle migrazioni a Lampedusa
Lampedusa, Agrigento (NEV), 3 febbraio 2016 – “Era da quando avevo quindici anni che avevo in mente di andare in Europa ma allora non mi era consentito sognare. La mia famiglia non mi avrebbe mai dato il permesso di partire per paura delle possibili ritorsioni del governo. Così continuai ad andare a scuola fino a quando iniziò il servizio militare. A quel punto non potei più prendere nessuna decisione: cosa fare, cosa pensare, dove andare, la tua vita era completamente nelle loro mani. Per me è stato uno dei periodi più difficili della mia vita”.
È così che inizia il racconto del viaggio affrontato da Saare (nome di fantasia), ragazzo eritreo che ha deciso di narrarci la sua storia. Una storia che nasce dall’impulso di sfuggire alla morte o forse piuttosto dal desiderio di evitare una vita non vissuta.
Per noi europei è difficile capire cosa significhi abitare un paese schiacciato da un’ombra che si estende ben oltre i suoi confini nazionali e che perseguita i suoi esuli anche a migliaia di chilometri di distanza. Un paese in cui il servizio militare coinvolge chiunque dai diciassette ai cinquant’anni e il cui unico scopo è di fornire manodopera gratuita al regime di Afewerki. Un paese in cui le caserme si trasformano in centri di reclusione per la popolazione e in cui le prigioni diventano dei veri e propri centri di tortura per chi si oppone al regime.
Saare ci racconta di come, prima di partire dal suo paese, non avesse compreso pienamente tutte le difficoltà che avrebbe dovuto affrontare per arrivare in Europa. Aveva avuto modo di ascoltare alcune delle storie di chi ce l’aveva fatta ma molti probabilmente avevano omesso i dettagli più dolorosi del viaggio. Ciò nonostante i suoi occhi ci trasmettevano la determinazione di chi ha intrapreso un percorso determinato a superare gli eventuali ostacoli che gli si fossero parati davanti. Ricordo quando una mattina Saare, riferendosi alla protesta messa in atto in quei giorni da chi come lui era trattenuto nell’hotspot di Lampedusa, sorrise e mi disse: “Chi non rischia qualcosa non ottiene nulla”.
Questa riflessione Saare deve averla fatta anche quando, dopo sei anni di vita rubata dall’esercito eritreo, decise di lasciare il suo paese e scappare illegalmente in Sudan. In Sudan si affidò ad una rete di trafficanti che lo avrebbe dovuto condurre in Libia. Nel mezzo del deserto però, il pick-up su cui viaggiava fu fermato dai predoni del deserto che rapirono lui e i suoi compagni di viaggio in modo da poter pretendere un riscatto dalle loro famiglie.
Al contrario delle persone provenienti da altre nazioni, gli eritrei non hanno però un paese in cui tornare, un paese pronto a riaccoglierli né tantomeno a trattare per loro in caso di difficoltà. Le maglie di una rete composta da trafficanti, militari al soldo di autorità più o meno riconosciute e forze di polizia corruttibili e perciò già corrotte si stringono intorno a queste persone perché più deboli e ricattabili. Chi non riesce a pagare, o a farsi inviare i soldi dai propri familiari, rischia quindi di concludere il suo viaggio con l’asportazione di un rene o di altri organi.
La famiglia di Saare riuscì a pagare il riscatto e lui fu affidato a un’altra banda di trafficanti che dopo averlo rinchiuso per giorni in una grande stanza, senza acqua per lavarsi e con un solo pasto al giorno, lo condusse attraverso il deserto del Sahara verso le coste libiche. In Libia dopo diversi mesi di attesa fu fatto imbarcare su un’imbarcazione da pesca che dopo tre lunghi giorni di viaggio lo condusse a Lampedusa. Nell’isola pelagica Saare ha vissuto per oltre un mese e mezzo poiché rifiutava di farsi identificare. Oggi è in Sicilia in attesa di essere ricollocato in un paese europeo dove iniziare una nuova vita.
Ogni storia come quella di Saare, produce una crepa in quel muro di indifferenza mista a paternalismo che divide noi da loro. Ogni crepa accresce la consapevolezza che un cambiamento generale nelle politiche sull’immigrazione è necessario e urgente. Perché queste memorie non si perdano e vengano ricordate con forza occorre continuare a raccontare, finché non si raggiunga una moltiplicazione delle voci tale da essere assordante.
La leggerezza della relazione umana, al di là di lingue, culture e costumi diversi
di Franco Causarano, operatore culturale alla Casa delle culture di Scicli
Scicli, Ragusa (NEV), 3 febbraio 2016 – Solo due anni di pensione ed eccomi di nuovo a fare scuola, ad insegnare una lingua.
Prima, per 38 anni, l’inglese alle scuole medie con i ragazzi dagli 11 ai 13 anni; adesso a “MH – Casa delle Culture” a Scicli, con i minori che arrivano dal Nord dell’Africa. Questa volta insegno l’italiano. Una classe aperta agli arrivi, ma che sostanzialmente si è stabilizzata attorno ad un gruppetto di quattro diciassettenni egiziani. L’esperienza è in itinere e tutta da vivere e da scoprire nei suoi aspetti relazionali e, se si vuole, culturali.
Lontani i dibattiti televisivi e il vociare dei politici, finanche le notizie di cronaca rimangono fuori dall’auletta che ci ospita. L’impegno e il tempo sono totalmente presi dal rapporto insegnamento-apprendimento. Una full immersion nella lingua italiana che dai momenti di primo impatto, fatti di gestualità, comprensione verbale, passa ai dialoghi brevi essenziali, alla memorizzazione e quindi al gioco della produzione lessicale. Ci sarà, nelle prossime settimane, la lingua scritta e naturalmente la lettura. Nell’aula i ragazzi spesso sono attratti da due grandi cartine geografiche dell’Africa e dell’Europa. È l’occasione per conoscere terre e città. Fanno domande. Ci si capisce già con un gesto o un verbo appena appreso. Li vedo sorpresi, ma piacevolmente coinvolti.
Tutto procede nella normalità del rapporto docente-discente, ma c’è qualcosa che è difficile spiegare da un punto di vista della pedagogia o della didattica. Entrano in gioco – sono entrati in gioco – rapporti relazionali attivanti a loro volta processi di fiducia e di reciproca simpatia. È la leggerezza della relazione umana, al di là di lingue, culture e costumi diversi. Aiuta in tutto ciò la struttura e l’organizzazione, ben pianificata, di Mediterranean Hope. Ci si sente tranquilli e l’ambiente mette tutti (migranti, volontari, docenti, operatori sociali) a proprio agio, in grado cioè di partecipare nella quotidianità del vivere.
Alla “Casa delle Culture” incontro altri amici docenti che mettono il proprio tempo a disposizione degli ospiti. Tanti giovani di Scicli trovano il modo per farsi vedere e socializzare. Alcuni sono compagni nella frequentazione dell’Istituto superiore dove vanno i miei quattro studenti (sono sei nell’ultima settimana, per l’arrivo di due diciottenni di nazionalità marocchina). Insomma una situazione che a 65 anni, mi fa ancora scoprire la vita. Mia e soprattutto degli altri.
Leggi anche “Cronaca da Beirut” di Piobbichi e Scotta
Le speranze dei più vulnerabili
di Simone Scotta, operatore di Mediterranean Hope in Libano
Beirut, Libano (NEV), 27 gennaio 2016 – In questi giorni ci troviamo in Libano, come equipe di “Mediterranean Hope”, il progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, per individuare coloro i quali potranno spostarsi in Italia attraverso i corridoi umanitari. Le visite alle famiglie, nei campi, nei garage, in appartamenti malmessi sono la quotidianità di queste lunghe giornate, intervallate da incontri con ONG e istituzioni locali.
Alcuni dettagli rimangono particolarmente impressi: come il viso di Najwa, per iniziare, che ripone in noi tutte le speranze che ha di lasciare il posto in cui vive, Al-Qubba, quartiere “siriano” di Tripoli, nel nord del Libano. Porta con fierezza il suo velo, è il velo da occasione importante, sembra una kefiah palestinese ed è, effettivamente, molto bella.
Sorride a noi, si sforza quasi, continua a mostrarsi cordiale, insiste perché prendiamo non uno, né due, ma tre numeri di telefono per contattare la famiglia: dobbiamo essere certi di poter comunicare con lei. Vorrebbe che non ci togliessimo le scarpe, cosa che sempre avviene in questo paese per portare rispetto verso chi accoglie ospiti in casa. Siamo noi quelli onorati di poter incontrare persone come lei, che hanno vissuto esperienze, semplicemente, narrabili solo in parte.
Il marito, Adlan, dagli occhi neri, deboli, piccoli e con “poca” pupilla, è ansioso di raccontarci la sua storia, non capisce perché indugiamo così tanto a fare domande agli altri membri della famiglia. Il medico che fa parte della nostra equipe gli diagnostica la poliomielite a una gamba e nell’altra un trauma molto forte che non gli permette di camminare bene. Sovrappensiero stavo per scrivere “non gli permette di scappare bene”… cioè quello che stava facendo ad Homs quando c’erano i bombardamenti nel suo quartiere e lui cercava di salvarsi, scappando via, lontano.
Non posso non proseguire che con J., che è stato in carcere per 113 giorni. La sua colpa? Quella di aver portato manifestanti anti-governativi in ospedale. Fu lì che fu catturato, detenuto prima ad Homs, poi a Tartouz. Torturato ripetutamente sulla schiena con una sorta di sega solitamente utilizzata per tagliare la legna. Su J., però, sulla pelle viva. E nella mia testa lui diventa “Sigara Chazaya”: lo definisco così, quasi fosse il suo nome vero. Sigara come i mozziconi di sigaretta spenti sulle braccia e sui piedi dalle guardie in carcere, Chazaya come i residui di tre diversi ordigni esplosi e ancora presenti nel suo corpo.
Queste sono alcune storie di “fortunati”. Note a margine di un conflitto più grande di loro, lasciandosi alle spalle una vita precedente di cui non hanno colpe, avranno finalmente una seconda occasione, la possibilità di inserirsi in Italia e provare a ripartire, iniziare una seconda vita.
Najwa, Adnan e J. arriveranno in Italia grazie ai corridoi umanitari: mi auguro che al più presto altri paesi europei possano seguire questo piccolo esempio di civiltà.
Trova le differenze: storie dalle frontiere
di Marta Bernardini, operatrice Osservatorio di Lampedusa attualmente al confine USA-Messico
Arizona, Stati Uniti (NEV), 20 gennaio 2016 – E’ seduto sul bordo della strada, non si preoccupa della macchina che si avvicina, alza solo lo sguardo e chiede “Avete visto mio figlio? Lo sto cercando ma non riesco a trovarlo”. E’ seduto perché ha entrambe le anche rotte, ha due bottiglie di acqua nelle mani ma sono quasi finite. I volontari con il cappellino rosso, ben calato sopra la fronte per proteggersi dal sole implacabile, chiedono scusa, “no, non abbiamo visto tuo figlio”, gli danno dell’acqua pulita e chiamano un’ambulanza. Quando la volontaria torna il giorno dopo per vedere come sta l’uomo, lui non c’è più e lei non lo ha mai più rivisto. Chissà se ha mai trovato suo figlio, lei spera di sì con tutta sé stessa.
Queste righe non sono l’inizio di un romanzo, sono la fedele trascrizione di quanto mi è stato raccontato qui, nella vita reale. E il qui non è un molo assolato siciliano, ma il deserto tra gli Stati Uniti e il Messico. Le bottiglie di acqua nella mani di Juan, circa 40 anni originario dell’Honduras, sono quelle messe nel deserto ogni settimana dal gruppo umanitario dei Samaritans e la volontaria è Shura Wallin, donna instancabile che ha fondato questo gruppo 12 anni fa insieme al pastore Randy Mayers della comunità The Good Shepherd, della United Church of Christ (chiesa riformata negli Stati Uniti) a Sahuarita, in Arizona.
Dopo più di un mese che mi trovo in questo altro confine, dopo aver passato quasi due anni a Lampedusa, molti mi chiedono se ci sono somiglianze tra qui e l’Italia. Io mi chiedo più che altro se ci siano delle differenze, perché le somiglianze sono tantissime, e non è sicuramente una considerazione positiva.
Sento tante storie, le racconta Shura una sera, davanti a lei c’è un grande tavolo pieno di oggetti, ci sono scarpe dalla suola rotta o ricoperte da pezzi di stoffa per non lasciare impronte nel deserto, ci sono bottiglie d’acqua rivestite, qualche fotografia, ci sono diverse bandane e teli ricamati, c’è una borsetta da donna con alcuni trucchi e c’è un biberon. Ogni oggetto è una storia, di persone, con nomi, famiglie, dignità e desideri, persone spesso sparite tra la sabbia del deserto, invece che tra le onde del mare. In queste storie ci sono case lasciate perché non c’è la possibilità di provvedere alla propria famiglia, perché i paesi da cui si scappa presentano altissimi tassi di violenza come il Guatemala, l’Honduras o El Salvador. Ma in queste storie ci sono anche bambini cresciuti negli Stati Uniti che si trovano deportati insieme alle proprie mamme come criminali, arrestati nelle proprie case all’alba, nel viale numerose macchine della polizia con sirene spiegate, un altoparlante che ripete il nome della vicina con cui si è vissuto in tranquillità negli ultimi anni, e poi centri di detenzione e un autobus per tornare nella terra dai cui si è fuggiti, con un figlio che non ne conosce la lingua, perché questa è la lotta contro l’immigrazione “illegale” che l’amministrazione attuale sta portando avanti negli ultimi mesi.
Gli attori presenti in queste storie sono diversi. C’è la Border Patrol, la polizia di frontiera, che è una delle forze federali più estese negli Stati Uniti e anche una delle meno controllate al suo interno. Sicuramente trovandosi nelle zone di confine ha spesso salvato la vita a diverse persone nel deserto, ma ci sono anche numerose testimonianze circa gravi abusi verso i migranti e le comunità locali delle zone di confine, senza che esse siano mai state prese in considerazione. I dati raccolti della Border Patrol non sono resi pubblici o consultabili, così come verbali, video o altre informazioni. Se un agente spara a un altro agente, neanche in quel caso la famiglia può avere delle notizie certe, immaginate cosa possa accadere a un migrante a cui non viene riconosciuto alcun diritto. Poi ci sono i “Minutemen”, gruppi autorganizzati di uomini, spesso ex militari o ex agenti delle forze dell’ordine, che da privati cittadini fanno le ronde per intercettare e consegnare i migranti alla Border Patrol. Sono gruppi muniti delle loro armi personali, gli stessi che probabilmente un giorno, nel deserto, come racconta Shura, hanno lasciato appeso a un albero sopra un punto di passaggio dei migranti un cappio da impiccagione, un gentile avvertimento per quanti cercano di raggiungere l’agognato suolo degli Stati Uniti d’America.
Ma ci sono anche i gruppi umanitari, come i Samaritans che nel deserto ci vanno ogni settimana, per lasciare acqua e cibo, per fornire aiuto e per ripercorrere quei luoghi dove ogni tanto si trova una croce con scritto “Desconocido” cioè “Sconosciuto”. Non sono solo gruppi umanitari ma sono anche impegnati a sensibilizzare l’opinione pubblica su quanto accade al confine, portano avanti azioni di difesa dei diritti dei migranti e di riflessione sulle scelte che sta facendo questo paese. Scelte come quella di rendere lo stesso deserto un’arma, un deterrente mortale per chi è in fuga, o trattare soggetti vulnerabili, spesso potenziali richiedenti asilo, come i peggiori criminali. Vedo le foto dei centri di detenzione, prigioni con sbarre alle finestre, letti a castello e stanze anguste, e penso alle famiglie che vengono separate, ai genitori che devono lasciare i propri figli, magari cittadini a tutti gli effetti perché nati sul suolo statunitense. In un rifugio per migranti deportati, a Nogales in Messico, alcuni volontari fanno chiamare a casa chi è appena uscito da quelle prigioni, anche mesi senza poter contattare la propria famiglia. Miguel, del Guatemala, vuole provare a passare di nuovo il confine per tornare dai suoi figli, ma qualcuno gli dice “Aspetta Miguel, ora è troppo pericoloso, di notte nel deserto fa troppo freddo, e ti prego, non ci andare da solo e non ti fidare di chi ti promette di portarti dall’altra parte facilmente”. Perché in queste storie ci sono anche i trafficanti, i “Coyote” e i cartelli della droga che fanno il miglior business grazie ai tanti in cerca di un futuro.
Se penso a quali differenze ci sono tra qui e l’Europa non ne vedo molte. Vedo più che altro il rischio di imparare qualcosa da qui, a spendere sempre più soldi per militarizzare i confini, per una sicurezza basata sulla paura e su abusi tollerati, per deportazioni e discriminazioni invece che per la difesa dei diritti di ogni essere umano.
“No fingerprints! No alle impronte digitali!” La protesta degli eritrei a Lampedusa
di Alberto Mallardo, osservatorio MH sulle migrazioni mediterranee
Lampedusa, Agrigento (NEV), 13 gennaio 2016 – In queste settimane nelle strade di Lampedusa è riecheggiato molte volte un grido: “No fingerprints!”. Ad urlare i circa duecento ragazzi eritrei trattenuti sull’isola dal mese di dicembre. I ragazzi rifiutano di farsi identificare dal personale della polizia scientifica che opera nel primo hotspot europeo in quanto rifiutano i meccanismi oggettivizzanti del sistema di relocation europeo. La loro protesta potrebbe apparire ad un primo e svogliato sguardo paradossale. In molti nel resto d’Italia hanno commentato sottolineando l’impertinenza di questa protesta. “Ma come, noi li accogliamo e loro protestano?”, è stato uno dei pensieri ricorrenti tra i tanti che hanno guardato a Lampedusa senza cogliere l’importanza di queste vicende.
Per comprendere gli ultimi eventi avvenuti sull’isola e per capire quale futuro si prospetti ai migranti che approderanno a Lampedusa è necessario chiarire alcune delle criticità insite nella road map adottata dal governo italiano a seguito delle decisioni prese dal Consiglio europeo del 14 settembre 2015. Per far fronte ai flussi migratori e per alleggerire la pressione sull’Italia e sulla Grecia, l’UE ha deciso di ricollocare parte dei migranti giunti sul territorio italiano e greco negli altri stati membri.
I migranti che dovrebbero essere ricollocati, come chiaramente espresso dalla circolare del Ministero dell’Interno 14106, sono “quelli appartenenti a quelle nazionalità il cui tasso di riconoscimento di protezione internazionale è pari o superiore al 75% nell’ultimo quadrimestre 2015”. Si tratta perciò delle persone provenienti dalla Siria, dall’Iraq e dall’Eritrea. Tutti gli altri vengono di fatto esclusi.
I migranti eritrei rientrano in questo processo, eppure protestano. Protestano perché dopo essere scappati da una delle più terribili dittature africane che li costringe al servizio militare di leva obbligatorio permanente per tutti tra i 18 e i 40 anni, e che rapisce e tortura chi si oppone al regime di Afewerki, vogliono che i diritti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra, dalle leggi europee e da quelle dei singoli stati membri siano rispettati.
Come ci ha raccontato Moses, ragazzo eritreo conosciuto a Lampedusa: “Il nostro obbiettivo è ricongiungerci con i nostri familiari che vivono già in Europa. Purtroppo, il meccanismo dei ricollocamenti non tiene conto della nostra volontà. Vogliono decidere per noi del nostro futuro come se fossimo degli oggetti”. Come rifugiati vogliono potersi autodeterminare, vogliono decidere dove chiedere protezione e vivere.
La loro protesta quindi prosegue ad oltranza, nella consapevolezza di voler evitare la sorte toccata a quelli di loro che nei giorni scorsi avevano lasciato l’isola senza lasciare le impronte, e che tuttavia sono stati poi “convinti” anche con l’uso della forza a farsi identificare, come previsto da una circolare del Ministero dell’Interno 28197/2014 del 25 settembre 2014, nel CIE di Trapani Milo, oggi hotspot.
Da oltre 24 ore alcuni di loro hanno deciso di entrare in sciopero della fame, fintanto che non riceveranno rassicurazioni e garanzie dalle autorità italiane. Nei prossimi giorni se lo riterranno opportuno torneranno a manifestare nelle strade di Lampedusa per ricordare a tutti noi che oltre un pasto caldo e un posto letto ciò che pretendono è il rispetto della loro dignità di esseri umani.
Proviamo a essere utili in qualche modo
di Simone Scotta, operatore di Mediterranean Hope in Libano
Dal Libano (NEV), 16 dicembre 2015 – Proviamo a essere utili in qualche modo: potrebbe essere l’inizio di una poesia, invece è una frase che credo rappresenti bene la realtà. La nostra realtà, quella di una piccola delegazione composta da un medico e tre operatori, che in questi giorni si trova in Libano per implementare il progetto “Corridoi Umanitari” e per portare un aiuto medico ai tanti profughi che vivono nei campi in Libano.
Un aiuto concreto, materiale, magari piccolo nei numeri. Essere utili in qualche modo: facendo disegni, distribuendo dolci ai bambini e parlando con le persone che hanno bisogno di raccontare le proprie storie.
Giriamo nei campi tra il Nord e il Sud del Libano, ci accostiamo alla frontiera siriana. Più ci avviciniamo a questa e più vediamo campi di profughi, fatti di tela e plastica.
Torniamo a Sidone, dove eravamo stati per una prima “missione” il mese scorso: lì avevamo conosciuto 700 persone che vivevano in una grande costruzione abbandonata, tutti siriani, tutti dal triangolo Idlib – Hama – Homs (Ovest della Siria). Eravamo stati molto vaghi con Walid, rappresentante della comunità a quel tempo. Non volevamo fare promesse che, forse, non potevamo mantenere, volevamo però essere utili mentre provavamo a costruire il modello d’intervento per i corridoi umanitari. Così ritornando in Libano abbiamo portato con noi anche farmaci e abbiamo visitato e curato molte persone. A Sidone siamo tornati perché lì avevamo incontrato Mariam: 9 anni, ustionata su buona parte del corpo, una spalla mai curata, magrissima. Avevamo visto le sue ustioni che scorrevano giù lungo tutto il braccio, toccando anche le dita. Tutto questo per via di un barile-bomba, ‘bomba sporca’ riempita di chiodi e oggetti appuntiti che, una volta esplosi, finiscono ovunque. Il padre era senza un occhio per lo stesso motivo, e se per i siriani è difficile lavorare in Libano, per lui trovare uno stipendio era impossibile. La madre, non giovanissima, claudicante, si prendeva cura come poteva di Mariam e dei tre fratelli.
Quegli occhi verdi ci avevano lasciato lì nel piazzale congelandoci la coscienza, senza sapere bene cosa dire mentre decine di bambini ci giravano intorno come api tra i fiori. Una mano davanti alla bocca per mascherare l’imbarazzo, uno sguardo rivolto verso il basso. Davanti a tanto dolore non sapevamo che fare. Ci chiedevamo solo perché ce ne stavamo andando senza caricare anche loro in macchina e portare Mariam a curarsi da noi. Abbiamo detto loro che se tutto fosse andato bene saremmo tornati dopo un mese con qualche speranza in più. Lo abbiamo fatto. La madre dopo quel breve incontro ci aveva portato subito via Mariam, spinta nella sua stanza senza vetri, in uno scheletro di un palazzo occupato.
Oggi siamo tornati, ma Mariam non c’era. Abbiamo chiesto agli operatori della Croce Rossa libanese che distribuivano farmaci nei locali fatiscenti del palazzo se avessero visto una bimba dagli occhi bellissimi la cui pelle era segnata per sempre dalla guerra. Ci hanno detto che non c’era, che era a scuola, peccato, avremmo voluto mantenere la promessa fatta.
Proprio oggi abbiamo saputo che finalmente il progetto per i corridoi umanitari è passato con la firma del governo italiano. Ciò vuol dire che per le persone come Mariam, per quelle che vivono in questi campi tra scabbia, freddo e miseria, possiamo avere uno strumento in più per proteggerle dalla ferocia del mondo.
Yarmouk – Lampedusa sola andata
di Alberto Mallardo
Lampedusa, Agrigento (NEV), 2 dicembre 2015 – Ci sono luoghi che conosciamo solo per nome. Storie che catturano solo di sfuggita la nostra attenzione. Volti che sfumano dopo una breve apparizione in televisione. Tra questi forse c’è il viso di Ibrahim, 27 anni, nato nel campo profughi di Yarmouk in Siria, proprio come suo padre.Il campo profughi di Yarmouk si trova a otto chilometri a sud del centro di Damasco e può essere definito la “capitale” della diaspora palestinese. Il campo fu creato dalle autorità siriane nel 1957 come campo non ufficiale per coloro che erano fuggiti o erano stati fatti sfollare durante la guerra arabo-israeliana del 1948-49. Nel giro di pochi anni, il campo è divenuto uno dei più grandi del Medio Oriente e si è trasformato in uno dei quartieri più popolosi e importanti della capitale siriana, Damasco. Prima dell’inizio del conflitto in Siria, nel marzo del 2011, ospitava 150mila persone, tra cui molti siriani.
Ibrahim, 27 anni, studiò all’università per due anni come elettricista, ottenendo un diploma con il quale lavorò anche a Damasco e in altre città della Siria.
Oggi è giunto a Lampedusa e ci racconta: “A Yarmouk la vita era molto semplice. Noi palestinesi venivamo trattati come i siriani e in generale non c’erano problemi di sorta con le tante altre persone che vivevano lì. Io e la mia famiglia vivevamo in case normali ed è strano pensare che fosse considerato un campo profughi visto che era una vera e propria città con tante case piccoline. In effetti, prima dell’84 c’erano solo tende ma piano piano sono diventate delle case e si è trasformato in una specie di quartiere popolare. In città potevi trovare scuole, ospedali e un’università. Il tutto era sostenuto direttamente dalle Nazioni Unite che ogni due mesi inviavano aiuti e gestivano servizi sanitari, sociali ed educativi all’interno della medina”.
Continua Ibrahim: “Fin da bambino non ho mai notato grandi differenze rispetto alla popolazione locale. L’unico problema era di non poter uscire dal paese, dalla Siria. Non c’era nessun rapporto con la Palestina; così noi non potevamo andare e loro non potevano venire”.
Purtroppo, la situazione negli ultimi anni è peggiata rapidamente. Gli ultimi cinque anni di guerra civile in Siria hanno infatti devastato Yarmouk, pretendendo un tributo pesante dai suoi abitanti palestinesi. I combattenti ribelli hanno assoggettato parti del campo e il regime di Bashar al-Assad lo ha assediato per mesi.Ibrahim scelse di partire prima verso la Giordania, poi in direzione del Sudan e poi alla volta dell’Europa.
Decise di affrontare quel viaggio che l’avrebbe portato nel mezzo del deserto più grande nel mondo, alla deriva oltre le coste libiche e poi sempre più all’interno, nella pancia del mostro occidentale, fino a quando, se tutto fosse andato bene, avrebbe poi raggiunto le celebri capitali nordeuropee. Un viaggio interminabile. Un viaggio fatto di ostacoli e imprevisti. Lunghe soste, interminabili periodi di attesa e poi marce e trasferimenti forzati. La necessità di nascondersi e la paura di finire in una rete le cui maglie sono composte da militari al soldo di autorità, forze di polizia corrotte, carceri, centri d’identificazione, burocrazie, visti, timbri, intimidazioni e razzismo.
Ibrahim racconta di aver passato passò più di cinque giorni nel deserto. Mostra le foto. Un piccolo furgoncino al cui interno viaggiavano stipate una trentina di persone. Tutte insieme, quasi abbracciate l’una all’altra. Uomini, donne e bambini. Arrivato in Libia venne rinchiuso in un capannone insieme ai suoi compagni di viaggio. Per quaranta giorni circa, visse in condizioni terribili sotto la costante minaccia dei trafficanti.
Mangiavano “maccaroni”, pasta, “ma non la pasta che mangiamo noi in Italia”, ci tiene a specificare, con un sorriso di disappunto. Ibrahim continua, raccontandoci dei trafficanti: “avevano le armi quindi non potevi discutere di nulla. Se qualcuno provava a dire qualcosa, qualsiasi cosa, veniva picchiato, se non peggio”. Qualsiasi pretesto poteva farti finire con una pistola puntata alla tempia. Anche in spiaggia prima di imbarcarsi sul gommone dicevano: “o sali o muori”.
In molti, infatti, rimasero pietrificati alla vista del gommone che li avrebbe dovuti condurre in Italia. Era piccolo e malconcio ma a quel punto o si parte o si muore, non si può più tornare indietro. Una volta salpati dalla Libia, Ibrahim ed i suoi compagni di viaggio si resero presto conto che nessuno sapeva portare il gommone.
Dopo 16 ore in mare arrivò una nave militare italiana. Finalmente erano salvi!
Ancora una volta riportiamo una storia incredibile che ci parla di situazioni ed eventi apparentemente lontani. In realtà confrontandoci con Ibrahim abbiamo conosciuto una storia contemporanea, la nostra storia. Le persone che abbiamo di fronte hanno superato prove e difficoltà indescrivibili. Ciò nonostante solamente attraverso i loro racconti possiamo provare a comprendere quegli eventi, quelle situazioni e ci rendiamo conto di quanta importanza hanno queste storie.
Le Rotte inverse tra speranza e terrorismo
di Alberto Mallardo
Lampedusa, Agrigento (NEV), 25 novembre 2015 – Lo scorso venerdì ci siamo ritrovati a Porto M (museo delle migrazioni di Lampedusa), un luogo che conserva moltissimi oggetti appartenuti alle migliaia di persone passate per Lampedusa durante gli anni. Abbiamo mangiato, cantato e festeggiato in allegria. Una serata come tante, ma l’occasione era speciale. Tra noi infatti una ragazza compiva 21 anni. Era partita dal Marocco ad inizio ottobre ed era stata notata quel giorno, all’interno del centro, mentre piangeva silenziosa. Per rallegrarla alcuni suoi coetanei marocchini e tunisini, dopo averla consolata, l’avevano convinta ad uscire “clandestinamente” dal primo hotspot europeo. E’ allora che li abbiamo incontrati e abbiamo deciso di festeggiare insieme il suo compleanno. Un anniversario diverso perché circondati da quegli oggetti che a noi europei raccontano delle tragiche odissee vissute dai migranti ma a loro, ai ragazzi che quel viaggio l’avevano appena affrontato, parlavano anche di molto altro. Evocavano infatti la loro casa, la loro terra, le loro musiche e tradizioni ma anche le avversità affrontate in mare.
In questo contesto, abbiamo così celebrato il compleanno di questa giovane donna. La sua vita stava evolvendo velocemente. Ma, in effetti, era proprio nelle ultime settimane che aveva subito un’incredibile accelerazione. Oggi sedeva con noi ascoltando musica e provando a comunicare in italiano e con incredibile dolcezza dispensava in modo eguale tenerezza e amicizia ai suoi coetanei che l’avevano prima protetta nei momenti di debolezza e poi convinta ad uscire, a vivere.
Non sapremo mai come sarebbe stata la sua vita se non avesse deciso di intraprendere questo viaggio, ne sappiamo i motivi che l’hanno spinta a lasciare la sua casa. Certamente il suo coraggio nell’affrontare il mondo e le nuove esperienze che le si paravano innanzi, ci raccontava di generazioni determinate ad affrontare l’esistente convinte che solamente mettendo da parte paure e timori si può aspirare a un futuro migliore.
Di fronte a queste storie, di fronte ad una generazione che a sue spese tenta di modificare la propria condizione sociale; che lascia la propria terra e la propria lingua madre; che mette in discussione la propria cultura di origine e il proprio modo di vivere, in modo più o meno consapevole; di fronte a persone che decidono di intraprendere un percorso migratorio, affrontando giorno dopo giorno gli shock culturali che questo comporta, l’Europa si chiude su se stessa, incapace di comprendere gli sforzi e le difficoltà di questi percorsi.
Le nostre città accolgono questi giovani offrendo loro ghetti, dove potranno imparare cosa è l’esclusione sociale, l’emarginazione e la povertà. Le comunità migranti in Europa sono infatti tra le fasce di popolazione socialmente più svantaggiate. La disoccupazione, le cattive condizioni di salute, i bassi livelli di istruzione, i difficili rapporti con le istituzioni, l’alta incidenza delle pene detentive anche per reati minori e le scarse prospettive professionali, contrassegnano l’esperienza di molte persone migrate in Europa. Nonostante tutto però, questi ragazzi rischiano la vita per arrivare nel vecchio continente.
Nel frattempo noi europei ci scopriamo sempre più angosciati dalla paura e dal terrore e rapidamente si propaga il sospetto nei confronti di queste persone. La religione di molti di loro viene allora indicata come la principale causa dei nostri problemi e nel tentativo di comprendere le azioni di una piccola minoranza di violenti, i media e il mondo politico internazionale rivolgono le loro attenzioni ai musulmani prima e ai migranti poi. Ancora una volta si diffonde lo stereotipo che equipara l’”immigrato” con il “terrorista”.
Molto spesso chi fugge dalla propria terra fugge dagli stessi terroristi che spaventano l’Occidente, fugge da guerre e conflitti alimentati anche dagli interessi economici del Nord del mondo. Cercando quindi di non cadere nel tranello di chi propone classificazioni semplicistiche, dovremmo invece mantenere lucidità nell’analisi.
Ci sembra strano che in questi mesi, anni, non ci si sia resi conto che la rotta dei terroristi è inversa a quella che compiono questi giovani che arrivano a Lampedusa. Una rotta non solo geografica ma anche esistenziale. Chi arriva in Europa attraverso il mare infatti, spera nel futuro, cerca una vita migliore e non una via di morte.
Attraverso le frontiere: Da Lampedusa al Messico
di Marta Bernardini
Lampedusa, Agrigento (NEV), 18 novembre 2015 – Guardo la cartina del mondo per cercare di capire quanto è stato lungo il viaggio, il mio viaggio questa volta. E mi accorgo che il minuscolo puntino che rappresenta Lampedusa è quasi alla stessa altezza del confine tra l’Arizona e il Messico. Il progetto Mediterranean Hope è andato a conoscere e farsi conoscere in un’altra frontiera del nostro tempo, un’altra frontiera tra il Nord e il Sud del mondo. Quando dico che arrivo dall’Italia, da Lampedusa, le persone sgranano gli occhi. Non possono credere che sia arrivata da così lontano e che i racconti che porto con me siano così familiari e sconvolgenti allo stesso tempo.
Parlo con Marcus, un giovane uomo dell’Honduras che si è spostato da casa per offrire un futuro alla sua famiglia e ai suoi tre figli. Vorrebbe semplicemente lavorare per loro, perché in Honduras la vita è troppo difficile. Ci troviamo a Nogales, in Messico, appena dopo la frontiera. Siamo in un rifugio per migranti che sono stati deportati dagli Stati Uniti con la Kino Border Initiative Shelter, che non offre solo due pasti caldi al giorno e momenti di condivisione e preghiera, ma anche l’opportunità di incontrare avvocati o parlare delle situazioni di difficoltà e sfruttamento per comprendere quali siano i diritti di tutti. Marcus mi dice che ha provato già cinque volte a saltare il muro, che ogni volta è stato arrestato dalla polizia di frontiera, la Border Patrol, ed è rimasto per lunghi mesi in prigione prima di essere deportato. Parlo in italiano e mi risponde in spagnolo, ci capiamo, i suoi occhi sono limpidi. Spiego a Marcus da dove vengo, su un foglio disegno Lampedusa e racconto di come arrivano i migranti. Racconto delle barche e del mare. Lui mi guarda pensieroso e poi mi dice “non so se è più pericoloso il vostro mare o questo deserto. Ma credo di preferire mille volte camminare nel deserto con le mie gambe piuttosto che attraversare il mare”. Una della attiviste della Kino Initiative ci racconta che quest’anno sono morte almeno 125 persone nella traversata del deserto, quelle di cui si ha traccia.
E’ un deserto enorme e senza punti di riferimento, dove di notte si gela e i coyote non ti risparmiano. I “coyote” sono anche quei trafficanti che a caro prezzo ti fanno passare il confine, a volte obbligando le persone a trasportare droga. Pena ancora più alta e mesi di detenzione in più. Dico ai miei compagni di viaggio, membri della United Church of Christ (UCC), che i morti nel mar Mediterraneo quest’anno sono stati più di 3500. Non ci sono parole. Questo mare è assassino quanto le leggi che imponiamo.
Penso al sistema di detenzione negli USA, penso ai ragazzi che ho visto in una corte dell’Arizona costretti a dichiararsi colpevoli per aver tentato di rientrare nel Paese. Penso al periodo che passeranno in prigioni private, grande business nelle mani delle lobby, prima di essere deportati. Penso a loro, volti giovani e spaventati, con le manette e una catena che lega mani, fianchi e piedi. Mi si blocca il respiro. Costruiamo muri e catene per un’umanità che non vogliamo, per non rinunciare alla nostra troppa ricchezza. I “coyote” sono spietati come i nostri trafficanti di esseri umani. Le donne devono pagare una prezzo maggiore per non essere violentate, se non possono farlo subiscono abusi sia in Messico sia dalla stessa polizia di frontiera in territorio americano. Benvenute nel mondo delle opportunità – penso – strizzando gli occhi per tutto quello che vedo.
Muri, frontiere, storie lontane ma non così diverse. Madri che sono costrette a lasciare i propri figli; uomini che vogliono solo il diritto di lavorare, dignitosamente; polizia, sbarre e catene. Facciamo una lunga camminata nel deserto, accompagnati da una donna coraggiosa che abita proprio qui, in questa distesa di cactus con le montagne all’orizzonte. Il percorso è impervio e incontriamo delle croci bianche. Corpi ritrovati nel 2009, o meglio, ossa. Senza nome e senza storia ma ora con un luogo per essere comunque piante e ricordate. Penso a tutti i nostri fratelli e sorelle sotto il mare, o quelli sepolti vicino ai nostri cari che però non hanno una famiglia che li possa riconoscere. La nostra guida mi guarda, è stata in Europa e sa cosa significa Lampedusa e la sua storia. La portiamo con noi nel deserto e pensiamo a queste persone come vittime di uno stesso male. Mi ricorda una cara amica di Lampedusa, altra guida coraggiosa e instancabile.
Ho raccontato con tutta la voce che avevo quello che succede qui, troppe le similitudini, esseri umani resi criminali, confini militari, leggi che incatenano. Il confine tra Stati Uniti e Messico rimane sulla pelle di chi lo attraversa come accade qui. In qualche modo credo sia rimasto anche sulla mia. I confini ci accompagnano ovunque andiamo, come direbbe il teologo Paul Tillich. E nonostante la guerra e la violenza di un altrove arrivi nuovamente nella nostra Europa, sconvolgendoci, continuiamo a credere che la nostra sofferenza sia diversa, continuiamo a non capire da cosa scappi un pezzo di mondo intero, continuiamo a non voler vedere o a non sentirci responsabili.
Le prigioni, le catene, le frontiere le costruiamo così bene perché sono prima di tutto dentro di noi.
Non li abbandoneremo
di Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 11 novembre 2015 – C’è un’immagine che mi rimane in testa dopo questo lungo viaggio oltre la frontiera tra il Libano ed il Marocco. E’ quella di una donna che cammina a piedi nudi, in equilibrio precario sul filo spinato con dei bambini aggrappati. Sotto di lei un mare in tempesta, minaccioso e gelido nel quale potrebbe cadere, dietro di lei un pericolo ancora più grande dal quale fuggire. Potrebbe essere una donna siriana, nigeriana, palestinese. Potrebbe essere sulla rotta che dal Marocco porta alla Spagna, o da quella che dalla Libia porta all’Italia. Oppure potrebbe essere in cammino nella rotta balcanica, che dalla Siria passando per la Turchia porta alla Grecia. E’ l’immagine della sofferenza, dei passi dolorosi degli innocenti, cammino senza certezza di chi lascia la propria terra per scappare da guerra e miseria. E’ un’immagine che ne racchiude tante altre. E’ la somma delle persone in cammino sulla frontiera o bloccate dentro di essa. Persone in equilibrio precario tra la vita e la morte, persone che non possono andare avanti e che non possono tornare indietro.
Se dovessi dire quale sia il filo rosso che accomuna la frontiera tra Occidente e resto del mondo potrei affermare che questa divisione altro non è che la manifestazione reale, concreta, di una scissione invisibile ma presente in ogni luogo del pianeta. Quella tra ricchi e poveri, i primi e gli ultimi. Beirut di questa apocalisse che viviamo ne è sicuramente l’emblema, lusso e miseria sono nelle stesse strade del centro di una città che continuamente mangia se stessa. I bambini siriani, che ovunque chiedono l’elemosina con le loro madri, mentre dormono sui cartoni sono illuminati dai colori delle grandi catene commerciali e diventano il simbolo di una frontiera che è ovunque. Siamo scesi nel Sud del mondo per capire come aprire corridoi umanitari, per affermare che il diritto alla protezione umanitaria per i profughi deve diventare diritto per tutti e tutte. Diritto valido per tutta l’umanità.
Ci siamo addentrati nel labirinto di vicoli della periferia senza luce di Rabat, e abbiamo sentito il pianto delle donne camerunensi aggredite da giovani impuniti, prese a calci e pugni gratuitamente per strada come i bambini sadici fanno con le lucertole. Abbiamo visto bambini del Congo, della Nigeria chiusi in piccole stanze senza luce, alcuni di loro non ci hanno mai sorriso, mai. Non vanno nelle scuole come i nostri, perché non hanno i soldi, perché li aggrediscono. Chissà, ci siamo chiesti, se la gioia questi bambini non l’hanno mai conosciuta o se l’hanno persa in questi luoghi. Forse alcuni di loro sono figli della violenza, come lo è quel bambino che cresce nel grembo della ragazza nigeriana che abbiamo visto avvolta nelle coperte.
Di persone vulnerabili, in quelle piccole stanze di pochi metri quadrati di Tangeri o Rabat, ne abbiamo viste molte, e quando siamo dovuti andar via, dietro di noi abbiamo potuto lasciare ben poco. Una promessa che saremmo ritornati stretta tra i denti, ma niente altro. Pensare che, mentre scriviamo, queste persone siano ancora lì, ci fa tremare le mani di rabbia. “Basterebbe poco per farli felici – ci diciamo – basterebbe poco”. Eppure loro e i loro genitori segnati nella pelle e nell’anima da guerra e povertà non trovano nessuno che gli dia una mano per farli uscire da questa condizione. Occhi spenti, occhi di padri senza lavoro e lucidi di disperazione ci salutano. Gli stessi occhi nel buio della notte cercano il momento per saltare quel maledetto muro che lacera la carne e che lascia ferite profonde come quelle della guerra. Gli stessi occhi nella notte cercano le stelle in un gommone in un mar Mediterraneo che non smette mai di rapire vite.
Non smettiamo di contare la lista dei lutti di queste persone, ogni giorno ci arrivano notizie di persone morte al largo di Tangeri, tra la frontiera della Grecia e della Turchia. Guerra e miseria viaggiano assieme sullo stesso barcone, e le condizioni di vita delle persone che attraversano il Marocco per provare ad arrivare in Europa non sono diverse da quelle che abbiamo visto in Libano o che vediamo a Lampedusa. La nazione dei cedri, ci dice un volontario, si è inclinata per far scivolare via i profughi siriani alla svelta. Alzando il prezzo dell’affitto di un fazzoletto di terra per una baracca, o del permesso di soggiorno per rimanere in Libano. Così i risparmi finiscono mentre la guerra non finisce. Gli aiuti umanitari non bastano. Ci sono nazioni che esportano armi in Africa e Medio Oriente, che comperano a basso costo il petrolio dell’Isis, e poi girano la testa dall’altra parte quando dobbiamo aiutarli a casa loro. Così loro partono, e a volte muoiono nel mare. Le lacrime di un’anziana siriana, che scorrono su un viso segnato dalla durezza della vita, sono talmente grandi che quando baciano la terra mi sembra facciano rumore. Scivolano veloci mentre suo figlio ci mostra la foto di un loro parente senza vita in mare. Mentre è tra le onde abbraccia ancora la sua bambina viva. Questi sono gli stessi bambini che vediamo nei campi. In Libano ne abbiamo visitati alcuni, più o meno grandi. I loro padri ci guardano con terrore mentre gli diciamo di resistere un altro inverno. Il freddo e le malattie rischiano di prendere altre vite. Scuote l’anima come un pugno lasciare queste persone. E’ davvero troppo grande e terribile questo mondo per porre rimedio al male che si è sparso ovunque. Come si fa a lasciare indifesa quella bambina di meno di dieci anni la cui pelle è stata martoriata dalla bomba incendiaria, come possiamo lasciarla dormire in un palazzo abbandonato tra topi e rifiuti? “Dobbiamo aiutarli – ci diciamo – e portarli su, non cambieremo il mondo oggi ma dobbiamo evitare che se non li ha ammazzati la guerra li prenda il mare, il freddo, o una malattia”. Costi quel che costi non li abbandoneremo, dobbiamo dimostrare che il nostro paese è ancora il paese dove non si è spenta la fiammella dell’umanità, dove ancora sono vivi i principi della Costituzione. Corridoi umanitari per questi innocenti allora. Apriamo le porte della ricca fortezza europea e chiudiamo la guerra nel pozzo più profondo di questo pianeta.
L’Europa e Lampedusa: ne parliamo con monsignor Gian Carlo Perego
con la collaborazione di Alberto Mallardo e Alice Fagotti
Lampedusa, Agrigento (NEV), 4 novembre 2015 – I mesi invernali a Lampedusa sono molto diversi da quelli estivi. L’isola si svuota, i turisti se ne vanno e l’isola rimane silenziosamente in attesa. Nonostante questo, la sua posizione di limes, di confine, ha reso, fin dall’antichità, Lampedusa un punto d’incontro tra genti diverse. Vivere ai margini diventa quindi opportunità. Il confine europeo si trasforma in luogo centrale dove analizzare i fenomeni migratori, le politiche europee e gli scambi tra culture diverse da posizione privilegiata. La costante presenza di accademici, ricercatori, giornalisti, associazioni, attivisti e gente di passaggio regala la possibilità di confrontarsi con persone sempre nuove provenienti da contesti differenti. Purtroppo va sottolineato che attualmente non è possibile incontrare le persone che stanno percorrendo il viaggio più difficile. I migranti sono infatti chiusi all’interno dell’hotspot di Lampedusa senza alcuna possibilità di uscire.
Per riflettere intorno al rapporto tra Lampedusa, migrazioni ed Europa ieri si è tenuta una iniziativa promossa dalla Fondazione Migrantes. Un incontro tra diverse esperienze, arricchito dalla presenza del coro Migrantes Messina, degli studenti e delle studentesse del Liceo Scientifico “E. Majorana” di Lampedusa, e dal direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego. Abbiamo colto l’occasione della sua presenza per porgergli alcune domande.
Spesso la popolazione di Lampedusa è stata considerata un esempio di generosità e solidarietà, quali differenze nota con il resto dell’Italia?
Lampedusa ha fatto il cammino che vorremmo fosse fatto da ogni comunità. Di fronte agli arrivi massicci di persone migranti la prima reazione sul piano politico a Lampedusa fu di invitare alla chiusura, al respingimento, interpretando questi arrivi come un’invasione. Tutti ricordiamo nel 2011 una persona che si presentò in televisione con una mazza da baseball dicendo: “accoglieremo così i migranti”. Fortunatamente le forze giovanili, sociali ed ecclesiali hanno reagito a quell’immagine e c’è stata una trasformazione della maggior parte delle persone che hanno voluto costruire un’immagine diversa dell’isola. Immagine che in seguito è risultata vincente e che ha fatto addirittura pensare a Lampedusa per il premio Nobel per la pace. Questo cammino di trasformazione che è avvenuto a seguito di numerose tragedie, partendo dall’ospitalità in famiglia, dall’incontro tra giovani che hanno saputo valorizzare il patrimonio culturale di chi è arrivato sull’isola, è sicuramente un elemento esemplare. Questa solidarietà fra soggetti diversi e di ispirazione diversa, con il contributo esterno di persone e organizzazioni che sono venute a Lampedusa e si sono messe al fianco delle persone dell’isola, ha fatto sì che essa interpretasse in maniera diversa il ruolo di confine europeo. Questo cammino però non deve essere considerato come un dato acquisito, occorre conservarlo. Sul piano educativo, infatti, non basta l’emozione di un momento ma è necessaria una continua crescita sociale. Come Migrantes e con il progetto “Il valore della vita” ci siamo prefissi di entrare nelle scuole, per fare in modo che i ragazzi facciano entrare il tema delle migrazioni nella loro cultura e nel loro percorso intellettuale e di relazione con l’altro. Questo per evitare che ci possa essere un ritorno di quella visione che legge nelle migrazioni un pericolo per la sicurezza.
In molti suoi interventi pubblici lei ha auspicato una maggiore cooperazione tra stati europei. Oggi come giudica le nuove misure adottate dall’UE, anche alla luce delle criticità emerse nella gestione degli hotspot?
L’Europa finalmente ha fatto sì che l’accordo di Dublino fosse messo in discussione. Un primo aspetto importante è quindi questo progetto di ricollocazione, di condivisione di un diritto d’asilo che tutti i 28 stati membri hanno firmato. Questa condivisione di responsabilità non dovrà però essere un fatto volontario ma un fatto sostanzialmente obbligatorio, strutturale nei servizi di ogni stato. Un secondo aspetto importante è certamente l’impegno che l’Europa ha voluto mettere nell’agenda sull’immigrazione che prevede una sorta di piano Marshall per l’Africa che vedrà lo stanziamento di oltre un miliardo e ottocento milioni di euro. Speriamo che queste risorse non servano per costruire dei campi profughi nei paesi di provenienza e transito delle persone migranti, non servano per i respingimenti, non servano per i rimpatri ma servano per la crescita della salute, della scuola, della sicurezza di quei paesi da cui oggi le persone scappano. Un terzo elemento della strategia europea è invece da valutare in modo critico. Infatti, è stato deciso di mantenere le stesse risorse militari per quanto riguarda il controllo delle frontiere, le espulsioni e i respingimenti. Questi sono aspetti assolutamente deboli che vanno nella direzione di un sostanziale ritorno del controllo massiccio delle frontiere, vanno nella direzione di una selezione delle persone che entrano nel territorio europeo. Auspichiamo invece un’Europa che legga la frontiera come uno dei luoghi attraverso i quali si possa tutelare il diritto alla protezione internazionale. In questo senso abbiamo letto in maniera molto critica e preoccupata la nascita degli hotspot che ritornano ad essere sostanzialmente dei CIE e quindi delle carceri. L’abbiamo visto anche qui a Lampedusa, di fatto le persone non possono più uscire e vengono invece inserite in un meccanismo di selezione che applica dei criteri assolutamente discrezionali, con la lista dei paesi sicuri considerata senza leggere la storia personale delle singole persone. Consideriamo quindi queste misure un grave passo indietro nella sicurezza della protezione internazionale. Avremmo invece bisogno di una lettura molto più attenta della storia delle persone che arrivano in Italia e di un ampliamento di quelle tre, quattro possibilità di protezione attualmente previste.
Per concludere, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), la Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Papa Giovanni XXIII, sono impegnate nel progetto di costruzione di corridoi umanitari dal Marocco e dal Libano. Come vede lei questo esempio di ecumenismo?
Dal punto di vista ecclesiale è un segno molto bello, soprattutto sul piano politico è una grossa provocazione che sottolinea la necessità di canali umanitari sicuri. E’ quindi importante valorizzare maggiormente dei canali umanitari che possano essere lo strumento che aiuti la sicurezza delle persone nel loro viaggio. Questo progetto è da un lato un esempio di ecumenismo che parte dalla solidarietà, dall’altro è una forte provocazione per la politica in quanto propone uno strumento applicabile per tutti i richiedenti asilo.
Odori, sapori e storie da Lampedusa
con la collaborazione di Alberto Mallardo e Alice Fagotti
Lampedusa, Agrigento (NEV), 28 ottobre 2015 – La sede di Mediterranean Hope a Lampedusa è un via vai di persone. Il campanello sembra suonare sempre. Passano amici, visitatori, ricercatori di vario tipo, conoscenti che chiedono un consiglio o semplicemente di essere ascoltati. Poi certo, meno poeticamente passa da qui anche chi ti aggiusta il tetto, ma anche le sue storie non vanno dimenticate. Stasera il campanello suona ancora di più. Senti tante voci dagli accenti più diversi ma soprattutto il profumo che si spande per tutte le stanze dell’appartamento. In cucina c’è chi, con un pentolone appoggiato sul pavimento, taglia le cipolle con mano svelta. Chi taglia la carne, prepara l’insalata o racconta della sua giornata. Stasera si mangia zighinì e tajine a Mediterranean Hope. Cibi tipici dell’Eritrea e del Marocco ma le nazionalità che si contano intorno alla tavola imbandita sono molte di più. La gioia semplice di condividere questo pasto dai mille odori e sapori sa di casa. Ognuno ci ritrova un pezzo della sua di casa, lontana o vicina. E prima di essere arrivati ai dolci, in questo caso tutti tipicamente siciliani, qualcuno intona canti dalle proprie terre. Una serata ricca, in cui cerchiamo di lasciarci alle spalle le fatiche di quest’isola. Perché a Lampedusa passa il mondo intero, e qui si intrecciano storie. Storie di salvezza, di speranza, ma anche di sconfitte e di ricordi dolorosiTra le tante storie che sono passate da qui in questi mesi, alcune rimarranno vivide nella nostra mente. Come Mamadou che arrivò in Italia “per trovare il suo futuro, il futuro dei suoi figli, per cambiare tutta la sua vita”. Lasciò il suo paese dopo aver lavorato, per 28 anni, in mare come pescatore, in città come muratore e poi come aiuto meccanico e agricoltore. Le condizioni di lavoro erano spesso estreme, degradanti ed insalubri. Preparare i composti che andranno a fertilizzare i terreni senza le giuste precauzioni, senza guanti, mascherina e occhiali era un cosa normale e gli effetti sulla salute si iniziavano a vedere. Così Mamadou sognava l’Europa, sognava: “di un posto dove i diritti umani erano rispettati, dove ricevevi un salario dopo aver lavorato e che ti garantiva una pensione quando raggiungevi la vecchiaia”. Dopo aver tanto sognato un futuro migliore decise così di non aspettare più e di iniziare a lottare perché quel sogno si potesse realizzare. Il suo viaggio era ancora agli inizi, tante erano le difficoltà che Mamadou aveva già superato e tante quelle ancora ad attenderlo.
Ogni storia è diversa dall’altra e non tutti hanno alle spalle un passato pieno di difficoltà, Ousmane, un altro ragazzo con cui abbiamo avuto la fortuna di parlare, ci ha raccontato che lui di opportunità nella vita ne aveva avute. Suo padre lavorava nell’esercito e lui aveva avuto la possibilità di andare all’università e studiare gestione aziendale. Dopo aver lavorato in un primo periodo nella ristorazione, decise di aprire una sua attività. Chiese un prestito tramite un programma finanziato dall’Unione Europea che sosteneva le economiche locali e dopo aver sconfitto la concorrenza di altre 63 persone che avevano presentato domanda, ricevette i soldi per avviare la sua attività. Finalmente il suo sogno sembrava realizzarsi, ma dopo un primo periodo in cui tutto andò bene, un giorno arrivò un’ispezione mandata dal governatorato del paese e senza troppe spiegazioni gli intimarono di chiudere l’attività. Ousmane era rimasto così senza niente. Quando lo incontrammo, con rammarico affermò: “non tornerò mai più nel mio paese. In Europa se avessi avuto la stessa idea qualcuno mi avrebbe sostenuto e forse sarei riuscito anche a portarla a buon fine. Nel mio paese non era possibile lavorare in regola, e senza lavorare cosa altro avrei potuto fare, chiedere l’elemosina?”. Ousmane decise quindi di venire in Europa perché immaginava che “il vecchio continente era un posto ideale, dove se trovi lavoro puoi avere bambini, avere una casa e le leggi sono rispettate”. Arrivato qui a Lampedusa però alcune domande iniziarono a confondergli i pensieri: “se l’Europa si rifletteva nel centro che lo ospitava, quale sarebbe stato il suo futuro? Persone che hanno appena visto la morte in faccia, rischiando la vita in mare, possono essere ospitate in un centro dove non hai né coperte né docce pulite?”.
E intanto, lontano dalle storie di queste persone costrette a mettersi in cammino, l’Europa continua a riunirsi e a decidere sul futuro di migliaia di persone. Dopo le conclusioni raggiunte dal Consiglio europeo dello scorso 15 ottobre, l’Unione Europea si appresta a partecipare al vertice internazionale sulla migrazione dell’11 e 12 novembre a Malta. Al vertice, deciso lo scorso 23 aprile durante una riunione straordinaria del Consiglio europeo, dovrebbe essere prevista la partecipazione dei capi di Stato e di governo di numerosi paesi africani, i leader dell’Unione europea e dei paesi maggiormente interessati dai flussi migratori, in particolare quelli già coinvolti nei processi di Rabat e Khartoum. Molti i temi all’ordine del giorno del summit, tra cui una più stretta collaborazione per migliorare la cooperazione in materia di rimpatrio e riammissione. Non troppo lontani da Malta, qui a Lampedusa, ci chiediamo quale sia la portata delle prossime misure che verranno adottate dall’Europa, quanto e in che modo queste ci coinvolgeranno.
Notizia del 21 ottobre 2015
Venti dal Nord Europa
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 21 ottobre 2015 – A Lampedusa ci si aspetta una tempesta che, come tutte le tempeste qui sull’isola, arriverà da lontano, confonderà la vista e influenzerà le normali attività dell’isola. Venti fino a 45 nodi in arrivo da nord-ovest. Chi conosce Lampedusa sa in che misura i venti condizionino lo svolgimento della vita dell’isola. Lampedusa, senza traghetto che la colleghi a Porto Empedocle, ancora una volta si stringerà su se stessa e cercherà di superare i giorni di isolamento aspettando che la tempesta passi, i venti si calmino e il tiepido autunno riavvolga le coste di questo scoglio in mezzo al Mar Mediterraneo. Almeno fino alla prossima tempesta.
Intanto a Bruxelles altri sono i venti che continuano a spirare ormai da tempo. Si parla di fermare gli arrivi, rafforzare la difesa dei confini, assicurare i rimpatri. Appena sei giorni fa, infatti, la Commissione Europea si è riunita per ribadire una comune strategia d’azione per affrontare i flussi migratori.
Analizzando il rapporto pubblicato dalla Commissione Europea sui progressi nell’attuazione della agenda UE sull’immigrazione è possibile evidenziare quelle che sono le linee guida adottate a livello europeo. Il primo punto prevede l’attivazione degli hotspot in Italia e in Grecia. Per essere completamente operativi questi centri necessiteranno del sostegno dell’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne FRONTEX ed EASO che si concretizzerà nell’impiego di 775 nuovi operatori per quanto riguarda l’agenzia FRONTEX, compresi tra guardie di confine, agenti che si occuperanno delle procedure di identificazione, chiamati screeners e de-briefers, e interpreti, e 370 esperti impiegati dall’agenzia EASO. Inoltre, nel documento si fa riferimento alla necessità di aumentare la capacità di accoglienza degli hotspot in Italia, al fine di ospitare i richiedenti asilo prima che vengano ricollocati. Si passerebbe così dagli attuali 1.500 posti a 2.500 in un prossimo futuro.
La strategia europea che prevede il ricollocamento dei profughi attraverso il sistema delle quote ha però nei rimpatri un elemento chiave del suo funzionamento. L’Italia ha già rimpatriato 28 tunisini e 35 egiziani in settembre e per ottobre sono previste altre operazioni di rimpatrio. Non sappiamo se queste persone abbiano avuto modo di far valere la loro storia individuale e richiedere protezione, così come accadde per le oltre 20 ragazze accolte a Lampedusa e poi rimpatriate in Nigeria dal CIE di Ponte Galeria a Roma. E’ sempre in quest’ottica che l’Unione Europea si appresta a rafforzare la collaborazione con i paesi africani di modo da rendere più frequenti operazioni di questo tipo. Chiaramente espresso nell’ultimo rapporto, questo punto sarà implementato anche attraverso un sostegno economico ai partner extra-europei. Per esempio, dovrebbe essere di circa 3 miliardi e 300 milioni il contributo concesso alla Turchia del premier Erdogan per fermare il flusso di migranti che negli ultimi mesi ha attraversato l’Europa dell’est.
Infine in un altro passaggio significativo del documento è ribadita la proposta di creare un sistema integrato per il controllo dei confini terrestri e marittimi – European Border and Coast Guard System – che si andrà ad aggiungere alle operazioni militari congiunte a livello europeo EUNAVFOR MED e TRITON.
Ancora una volta quindi Lampedusa attende l’arrivo dei prossimi eventi che porteranno con sé crescenti novità e preoccupazioni. Nonostante a livello europeo si cerchi di favorire il coinvolgimento delle realtà locali fino al più basso livello di governo, in questo caso le decisioni prese altrove potrebbero incidere sulla piccola comunità di Lampedusa che non è stata né informata né coinvolta.
Inoltre come è stato più volte sottolineato in questi giorni da giornalisti, esperti di diritto e attivisti il nuovo sistema pianificato e implementato dall’UE sta costringendo molti migranti alla clandestinità e alla più totale precarietà, compromettendo così il diritto di queste persone a richiedere l’asilo o altre forme di protezione.
Comprendere oggi il funzionamento delle leggi europee in tema di immigrazione non è una cosa semplice ed è per questo che sentiamo da Lampedusa il bisogno di avviare una discussione che possa fornire, a tutti, i giusti argomenti per comprendere quello che sta avvenendo sull’isola e nel resto del continente europeo. Il Forum Lampedusa Solidale ha sentito l’esigenza di avere un momento di riflessione per discutere insieme sui cambiamenti nel sistema d’accoglienza italiano ed europeo e cosa esso possa comportare per tutti noi. Ci apprestiamo quindi a scrutare l’orizzonte e ascoltare quello che il vento deciderà di portarci.
Notizia del 14 ottobre 2015
Lampedusa e la sperimentazione dell’Hotspot
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 14 ottobre 2015 – L’unico hotspot realmente operativo in Europa in questi giorni è quello di Lampedusa, isola che si conferma ancora una volta luogo di sperimentazione e laboratorio per quanto riguarda le politiche della frontiera europea. Chi scrive non può dare un giudizio definitivo di cosa accadrà nei prossimi mesi, può però raccontare quello che è successo in questi giorni nell’isola.
Dopo mesi di voci che si rincorrevano con una certa frequenza, la formalizzazione della nuova mutazione della frontiera ha coinciso con le proteste delle persone chiuse nel Centro. Circa una settimana fa, il 4 ottobre, i migranti presenti nel Centro, con cartelli e lenzuola, hanno chiesto di poter andare via al più presto. Questa protesta è poi continuata tutta la settimana con presidi davanti alla chiesa centrale e manifestazioni per le vie di Lampedusa, nelle quali si chiedeva, di fatto, di poter lasciare l’isola senza dare le proprie impronte digitali. La cosa paradossale è stata che i principali attori di queste proteste erano giovanissimi eritrei che sono una delle “categorie” più tutelate dai nuovi accordi europei. Li abbiamo visti piangere di disperazione, gettarsi in mare per impedire alla nave di partire, e li abbiamo visti scendere in strada per gridare l’unica rivendicazione che oggi ne accomuna molte altre, “Freedom, Libertà!”. Ci chiediamo come mai questo sia successo, se per un difetto di comunicazione rispetto alle nuove modifiche o per un livello di diffidenza elevato. Forse la verità sta nel mezzo, a quanto sappiamo ieri mattina circa un centinaio di loro hanno lasciato l’isola senza lasciare le impronte. Ci interroghiamo anche su cosa succederà quando, come è prevedibile, le quote di ricollocamento per i rifugiati termineranno. L’Italia ad ora dovrebbe ricollocare in Europa 24mila profughi e nel 2015 sono approdate più di 130 mila persone. Fatto un rapido conto ci domandiamo con una certa angoscia, il resto che fine farà? Anche se si aumenterà di qualche decina di migliaia di persone il numero dei ricollocamenti, cosa accadrà negli hotspot quando fra qualche mese girerà la notizia che dando le impronte si rimarrà in Italia? Ma questa non è l’unica preoccupazione, anche la distinzione tra rifugiato e migrante economico rischia di esercitarsi in violazione dei diritti umani e produrre nuovi percorsi di clandestinizzazione.
Le sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia in questi anni dovrebbero far riflettere che forse non è questa la strada per affrontare un fenomeno complesso come quello delle migrazioni, fenomeno che non può essere collocato in caselle in cui inserire arbitrariamente un eritreo anziché un nigeriano o un egiziano. Ancor più preoccupante è il fatto che si è iniziato a sperimentare questo processo in uno dei luoghi più fragili ed esposti di questa Europa, un’isola che ha sempre salvato le persone senza chiedersi se queste erano migranti economici o rifugiati.
Lo sguardo su Lampedusa ci permette di vedere i primi effetti delle nuove scelte europee e di riflettere su quali conseguenze ci saranno sull’isola. Da questo osservatorio privilegiato risulta ancora più necessario cercare di estendere la riflessione ai processi che si attiveranno anche in Italia e in Europa.
Notizia del 7 ottobre 2015
Oltre il semplice ricordo
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 7 ottobre 2015 – Il gesso di Giusy colora il selciato davanti la chiesa del Santuario di Lampedusa. Dopo ore di paziente lavoro il suo disegno, alla cui creazione hanno partecipato anche altre persone dell’isola, diventerà un barcone che apre il “mare spinato” accompagnato da due mani che lo proteggono. Questo grande disegno sarà poi circondato con i pezzi dei barconi raccolti nell’isola, con adagiati sopra giubbotti di salvataggio e coperte termiche. Attorno a questa immagine, che ricorda i morti del 3 ottobre 2013, si svilupperà poi la cerimonia interreligiosa “Memoria tra mare e cielo”, in un luogo che è stato fra i primi del Mediterraneo a connotarsi proprio per la compresenza tra fedi diverse.
Lampedusa isola di salvezza, dove si intrecciano le storie di schiavi liberati, Madonne che li proteggono e generazioni di confinati politici. Lampedusa, luogo di frontiera sempre più militarizzato e attraversato dal mondo intero, sembra stia trovando la propria identità attraverso questo luogo. La cerimonia del 3 ottobre diventa così anche messaggio all’umanità tutta, messaggio di tolleranza, di rispetto e di reciprocità, di pace e fratellanza. In molti hanno preso la parola, pregando, recitando passi del Nuovo Testamento, del Corano, o di altri testi religiosi, leggendo frasi delle poesie di Erri De Luca. Anche i parenti delle vittime e i sopravvissuti del naufragio di due anni fa sono intervenuti alla cerimonia, ringraziando chi in quel giorno li ha salvati dal mare e ricordando chi, dal mare reso assassino dalle politiche della “fortezza Europa”, è stato preso per sempre.
Molti erano i lampedusani presenti alla cerimonia, e in molti in questi giorni hanno lavorato per la sua riuscita. Del resto chi meglio di loro ha il dovere e la responsabilità di rendere collettivo questo giorno? Chi meglio dei salvatori, degli accoglienti senza nome, può portare sulle spalle il peso di questo ricordo, per renderlo monito perenne ai nostri governanti. Questa cerimonia, nella quale si è percorso un cammino simbolico attraversando le grotte del Santuario di “Porto Salvo”, dove nell’antichità l’eremita di Lampedusa pregava con il Corano o con il Vangelo rifiutando di prendere parte alla guerra di religione, non è forse un messaggio che va oltre il semplice ricordo? Chissà cosa avranno provato queste pietre scavate dal vento e dal mare nel sentire, centinaia di anni dopo, le parole di un tempo. Come mai, ci chiediamo, un luogo come questo non è ancora diventato patrimonio dell’umanità?
Il 3 ottobre al Santuario di Porto Salvo è qualcosa di molto più significativo e intenso di quello che pensiamo, perché Lampedusa attraverso il martirio di questi 368 innocenti sta ritrovando la sua anima più profonda. Sta capendo che da sempre è stata l’isola della salvezza. E’ come se questa cerimonia fosse entrata in sintonia con le radici più nascoste dell’isola, divenendo al tempo stesso strumento per ricordare il passato e vivificarlo nel presente di un mondo grande e terribile, in cui le frontiere e i fili spinati sono le cicatrici prodotte a una terra che è di tutti. Ed è stata per noi cosa terribile sapere che a poche centinaia di metri di distanza dalla cerimonia c’erano altre persone arrivate salve dal mare, ma “recintate” e separate dal resto dell’isola, perché chiuse dentro il Centro di accoglienza diventato hotspot. Ancora più evidente è stata la differenza di atmosfera tra la bellissima e commovente cerimonia del ricordo del 3 ottobre, con la manifestazione dei migranti che si è tenuta qualche decina di ore dopo, durante la quale le persone chiuse all’interno del Centro invocavano libertà di movimento e fine di quella che a loro pare un’ingiustificata detenzione. Un’ attesa dopo la salvezza vissuta come reclusione ingiustificata.
Notizia del 30 settembre 2015
Mare e cielo, la memoria come denuncia del presente
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 30 settembre 2015 – Giorni fa il collettivo Askavusa ha organizzato nell’isola di Lampedusa un concerto molto suggestivo che si è tenuto in un luogo magico, presso dei cerchi di pietra risalenti al periodo neolitico. Sì, perché quasi 8 mila anni fa questo scoglio in mezzo al Mar Mediterraneo era già abitato da popolazioni che utilizzavano le pietre come se fossero un calendario per capire quando piantare il grano o semplicemente come luogo spirituale, così come oggi, luogo spirituale, è il Santuario della Madonna di Porto Salvo. Spazio che testimonia un’antica pratica di convivenza interreligiosa nel Mediterraneo, dove si riunivano per pregare sia cristiani che musulmani. In questo luogo il prossimo 3 ottobre si terrà una cerimonia interreligiosa per ricordare le vittime della tragedia in mare del 2013 dove morirono 368 persone davanti le coste di Lampedusa, e per ricordare tutte le altre vittime delle frontiere. Il titolo della cerimonia, dove interverranno personalità religiose di diverse fedi, è “Memoria tra mare e cielo”.
E’ difficile pensare una giornata per ricordare le vittime di una tragedia mentre, nello stesso mare, reso assassino dalle leggi degli uomini, gli innocenti continuano a morire. Più di 2500 nel 2015. Lo è ancora di più perché molto probabilmente mentre ricorderemo, proprio sull’isola, centinaia di persone saranno chiuse in un Centro di accoglienza che è già diventato hotspot, dal quale le persone non possono uscire, e dopo essere state identificate sapranno se saranno accolte come profughi e richiedenti asilo o invece rispedite indietro com’è successo ad una ventina di ragazze nigeriane qualche settimana fa. Noi, queste ragazze le abbiamo viste sbarcare sul molo, erano giovanissime e molto probabilmente erano tutte vittime di tratta. Ci vergogniamo molto e non ci sentiamo a posto con la nostra coscienza per aver detto loro “Welcome in Italy”, e poi, il nostro paese le ha riportate nelle strade di chi le ha inserite nel mercato della prostituzione e della violenza.
Ricordare si deve, ma il ricordo non può fermare la nostra denuncia del presente, quello che avviene in questo mare e in tutte le frontiere, e quindi le enormi responsabilità di un Occidente che ha di fatto recintato il Sud del mondo dopo averlo impoverito per secoli. Per la prima volta nella storia dell’uomo moderno una parte di umanità ha trovato il modo di mettersi in cammino, uno spostamento per numero e consistenza senza precedenti. Questo movimento è il risultato di più fattori, dalla facilità dei trasporti all’effetto delle guerre, ma è un movimento epocale con il quale la storia farà i conti.
Ad ora, le risposte dei paesi ricchi sono ancora quelle che hanno provocato danni e costi sociali enormi. Muri e filo spinato si alzano ovunque e i numeri di accoglienza che prevede l’Europa sono irrisori rispetto a tutto questo. Tutto ciò mentre i governi si rimpallano queste persone come se fossero pacchi, contrattando sul piano geopolitico il proprio spazio. C’è invece la necessità di aprire subito corridoi umanitari per evitare il continuo stillicidio di vite.
Non è quindi soltanto una questione di memoria, il 3 ottobre è una data che parla di un presente in corso, di una tragedia in atto che deve essere fermata.
Notizia del 23 settembre 2015
Conoscere le frontiere
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 23 settembre 2015 – Ieri è stato un giorno particolare a Lampedusa. Mentre in tutto il resto del mondo la vita è continuata come sempre, qui si è fermato tutto. I negozi erano chiusi e le strade del paese vuote. Perché ieri a Lampedusa era un giorno di festa: è stata celebrata, come ogni 22 settembre, la Madonna di Porto Salvo. Sfilando per le vie del paese e del porto la Madonna era accompagnata da una sola voce e grande silenzio. Poi la banda tra le vie e a mezzanotte fuochi d’artificio sopra questo piccolo scoglio nel cuore del Mediterraneo. Un paese gioioso e in festa, in questo settembre estivo che vede ancora molti turisti.
E in una giornata così, ancora di più ci viene da pensare a quanti sono in attesa di conoscere il loro destino nel Centro di accoglienza di Lampedusa. Venerdì mattina sono arrivate al Molo Favaloro 255 persone sub sahariane. In una mattina dal caldo infernale. Volti stanchi e stremati. E poi sabato sera un arrivo di 114 persone, 99 donne e 15 bambini, quasi tutti eritrei. Loro molto più sorridenti e pieni di speranza.
Nel frattempo il Centro di primo soccorso e accoglienza si è trasformato in hotspot. Non una trasformazione visibile, ma un cambiamento nelle sue pratiche. Su insistenza dell’Unione Europea ora si dovranno identificare e registrare con rigorosità tutte le persone che arrivano, per permettere di avviare quel meccanismo di ridistribuzione di “quote” di migranti nei diversi paesi dell’Unione. Una scelta ampiamente dibattuta all’interno dei 28 paesi che solo ieri hanno approvato a maggioranza di ripartire 120.000 persone arrivate nei paesi a maggior pressione di flussi (principalmente Italia e Grecia). Maggioranza, non unanimità, con Repubblica Ceca, Ungheria, Romania e Slovacchia che hanno votato contro. Una decisione quindi che non dimostra certamente un’Europa unita e solidale verso un esodo umano che supera quello conosciuto dopo la Seconda Guerra mondiale.
Si legge su “Redattore sociale” che a Lampedusa sono state foto-segnalate già 250 persone soprattutto eritree. E noi pensiamo subito a quelle belle donne sorridenti di sabato, sperando che possano trovare un futuro sicuro e non imposto per le loro esistenze. Ci preoccupa non sapere con precisione cosa avverrà in questi hotspot, se si rispetteranno i diritti umani di chi vi sosta, sperando che non siano nuovi CIE, Centri di identificazione ed espulsione. Nei giorni scorsi la notizia di 20 donne nigeriane rimpatriate ha scosso gran parte dell’opinione pubblica e di attivisti. Nonostante le donne dimostrassero segni evidenti di tortura e di essere vittime di tratta, e nonostante “per tutte era stata richiesta la sospensiva del provvedimento di espulsione”, le donne sono state accompagnate dal CIE di Ponte Galeria (Roma) a Fiumicino su un aereo verso un paese che non gli offrirà certamente sicurezza e protezione. Forse una dimostrazione che l’Italia è in grado di fare rimpatri come previsto dalle nuove decisioni europee?
Noi vediamo i volti delle persone che passano la frontiera e cerchiamo di comprendere in che direzione vadano le scelte politiche di questa fortezza Europa e quale prezzo dovranno pagare le persone che cercano di attraversarla. E proprio di frontiere si parlerà in questi giorni a Lampedusa, durante la VII edizione dell’annuale evento organizzato dal collettivo Askavusa, il Lampedusa in Festival. Da oggi, 23 settembre, fino al 26 ci saranno dibattiti, proiezioni, concerti, spettacoli teatrali e mostre per affrontare diverse tematiche come la militarizzazione, il debito pubblico e le dinamiche che si sviluppano nei territori di frontiera. Luca, del collettivo Askavusa, ci racconta che parlare di frontiere nasce dall’esigenza di comprendere quello che accade a Lampedusa come “a Melilla, Calais, Ventimiglia, sul Brennero, in tutti quei punti dove le persone vengono fermate e private della libertà”. Ma non solo, l’obiettivo del Festival è anche quello “di sviluppare delle pratiche comuni che funzionino – prosegue Luca – per poi renderle disponibili a chiunque ne necessiti, prima di tutto i migranti che queste frontiere le attraversano”. Insomma giorni di riflessione a Lampedusa che lasciano anche spazio alla creatività per costruire percorsi condivisi e una rete di scambio continuo che percorra tutta l’Europa.
Notizia del 16 settembre 2015
Muri, frontiere e respingimenti
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 16 settembre 2015 – In questi giorni la situazione a Lampedusa appare tranquilla. Da più di una settimana non ci sono arrivi sull’isola e il Centro di accoglienza da questa mattina è vuoto. Ci sono stati dei salvataggi nel Canale di Sicilia lunedì ma si tratta di numeri ridotti rispetto ad altri periodi. Questo momento di apparente calma, probabilmente dovuto alle condizioni del mare, potrebbe interrompersi da un giorno all’altro con nuovi arrivi, come ormai abbiamo visto accadere diverse volte. Nel frattempo le notizie che si muovono intono a noi ci continuano a raccontare di tantissimi profughi che si spostano tra confini e frontiere. E purtroppo anche di morti come accaduto ieri a largo della Turchia.
L’Ungheria, mentre termina di costruire il suo muro di filo spinato, da ieri ha dispiegato forze militari per far rispettare la nuova legge che permette di arrestare ed espellere quanti cercano di entrare illegalmente nel territorio, già quasi 10.000 sono stati i migranti fermati e 174 quelli arrestati al confine con la Serbia. Questo perché il flusso, soprattutto di siriani verso la Germania non si ferma, e quest’ultima continua i controlli alle frontiere come Austria, Olanda e Slovacchia, mentre la Francia si dice pronta a istituirli al confine con l’Italia.
Intanto ieri si è svolto un altro vertice a Bruxelles dal quale i paesi europei ancora una volta non escono con un accordo unanime sulle cosiddette quote di spartizione dei profughi. Il Ministro degli interni tedesco Thomas de Maizière avrebbe parlato di “modi per esercitare pressione” verso quei paesi europei che non si attengono al principio delle quote di migranti proposto dal piano Junker, facendo intendere a possibili sanzioni o tagli ai fondi UE. Sembra quindi continuare un braccio di ferro tra quei paesi che non vogliono accettare di accogliere un numero di migranti proposto dall’Unione, mentre altri continuano a farsi carico della maggiore pressione, in uno spirito tutt’altro che solidale e unitario.
Quello che invece è stato deciso a Bruxelles è di proseguire la lotta agli scafisti, approvando la “fase 2” dell’operazione Eunavfor Med per cui “le navi europee hanno il via libera per fermare e controllare in acque internazionali le barche dei migranti, con l’autorità di sequestrarle e distruggerle, ma sempre con la massima attenzione a salvare le vite umane”. Difficile comprendere cosa ci sia di nuovo rispetto a quanto già avviene, le imbarcazioni dalle quali sono tratti in salvo i profughi vengono spesso già affondate, e di molte altre non si ha proprio notizia. Svolgere queste operazioni in acque internazionali potrebbe invece creare la condizione per un intervento militare in Libia, che comunque richiederebbe l’approvazione dell’ONU. Quello che può sembrare sospetto è piuttosto la possibilità di dirottare le imbarcazioni di migranti, come menzionato neldocumento che spiega gli obiettivi dell’operazione: come si possono salvare vite umane da un lato e dall’altro magari rimandarle indietro, verso le coste da cui sono sfuggite a violenze e abusi?
In questa direzione e sollevando dubbi analoghi è la decisione di costituire hotspot, quindi di fatto nuovi centri di identificazione ed espulsione, in alcune zone nell’Italia del sud, a partire proprio da Lampedusa. Qui dovrebbe istituirsi il più grande, fino a 500 posti, seguito da Trapani (400) e altri, come Pozzallo, Porto Empedocle, Augusta e Taranto con 300 posti. Questo sembra essere un passo indietro in termini di accoglienza, in quanto i migranti sarebbero identificati indipendentemente dalla loro volontà di rimanere in Italia e per quanti non fosse concesso lo status di rifugiato è previsto il rimpatrio a spese dell’Unione Europea. Questa decisione sembra cercare di rispondere alla richiesta dell’Unione di identificare i migranti come condizione necessaria per poterli ricollocare in altri paesi del nord Europa. In questo quadro Lampedusa potrebbe tornare ad essere un luogo con grande concentrazione di persone, chiuse in un centro nel quale dovrebbero stare pochi giorni con il sospetto che le solite lungaggini burocratiche obblighino a una permanenza maggiore, in una situazione anche di rischio di rimpatrio. Come scrive l’attento analista Fulvio Vassallo Paleologo “Di fatto la Merkel e i suoi colleghi europei hanno posto all’Italia una condizione impossibile da adempiere nel breve periodo, un modo per evitare di accettare trasferimenti di quote di richiedenti asilo, già presenti nel nostro paese, verso la Germania o altri paesi europei.”
Questo vertice di Bruxelles non sembra aver quindi concluso niente di nuovo, se non il preannunciato evolversi dell’operazione Eunavfor Med e l’istituzione di nuovi centri di identificazione ed espulsione dal nome apparentemente meno sgradevole. La direzione sembra essere sempre quella di rafforzare le frontiere e i respingimenti invece che proporre vie legali di arrivo in Europa. Sembra che si scelgano politiche di contrasto al traffico di esseri umani di tipo militare ed espulsivo quando invece la strada migliore sarebbe quella dei corridoi umanitari.
Notizia del 9 settembre 2015
Pare che si chiamasse Yassin
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 9 settembre 2015 – Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici, pare che abbia un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Quello che è certo, è che è arrivato senza vita a Lampedusa, dove è stato sepolto pochi giorni fa. Lui sarebbe potuto arrivare qui e avere protezione umanitaria, ne aveva tutti i requisiti, eppure è stato costretto a prendere la strada rischiosa del mare che lo ha portato alla morte. La stessa storia del piccolo Aylan, e di molti altri innocenti morti in questo mare reso assassino dalle leggi degli uomini. La vicenda senza foto di Yassin ve la raccontiamo noi. Lo facciamo come abbiamo fatto perWelela, per dare una dignità a queste persone e per evitare che si perdano nell’oblio. Lo facciamo per dire che un giorno la storia farà i conti con i nostri governanti e le loro scelte politiche.
In queste settimane di agosto abbiamo visto e sentito tragedie con una cadenza continua, 50 dispersi nell’ultima settimana, corpi ustionati, mamme che hanno perso figli, fratelli che hanno perso altri fratelli. Mentre scriviamo, leggiamo inoltre che a largo di Zwuara sono riemersi i corpi di 183 persone decedute nelle scorse settimane. E’ una strage silenziosa quella che va avanti. Ce ne vuole di coraggio per continuare a stare sul molo di Lampedusa e dire “Welcome in Italy” a tutti quelli che approdano.
Lillo lo vediamo con la sua tuta rossa prendere ogni volta uno o due bambini e portarli sull’autobus, lui e la sua famiglia sono l’esempio migliore di questa Italia accogliente, quella che non fa notizia perché non urla, non butta odio sulla pelle degli ultimi. Ci chiediamo, come può l’Italia restare silente davanti a una strage del genere? Nel mese di agosto sono morte nel Canale di Sicilia il doppio delle persone morte nel terremoto aquilano, dall’inizio dell’anno 10 volte tanto. Nei prossimi mesi la tragedia continuerà, così, come se niente fosse, onda dopo onda.
In pochi hanno capito che per come partono queste persone dalla Libia, nonostante la bravura di chi salva in mare, l’eccezionalità è avere un salvataggio senza vittime, l’ordinarietà invece è quella della tragedia. Il che vuol dire che le tragedie di cui abbiamo notizia sono solo una parte di quelle che avvengono. Abbiamo dentro di noi lo sguardo della donna sotto shock, approdata alcuni giorni fa, che ha perso due figli in mare. Ora è nel Centro di accoglienza di Lampedusa, chiusa dentro quel recinto, nel suo dolore, senza possibilità alcuna per noi di poterla incontrare, abbracciare e portargli conforto. Durante la stagione estiva i migranti non escono dal Centro e non entra la solidarietà comune dei lampedusani, dei solidali senza divisa che arrivano da ogni parte del mondo. Il Centro potrebbe diventare, come dicono, un Hotspot, un luogo cioè per l’identificazione e il foto segnalamento dei migranti. Un nuovo nome che muta ancora una volta il senso della frontiera, che separa pericolosamente il “noi” dal “loro”. Scelte che incideranno sul destino di Lampedusa per i prossimi decenni. Anni che non saranno diversi da questi ultimi, perché guerra e impoverimento continueranno a crescere come i flussi migratori che si sposteranno nel pericolo senza vie legali di fuga. Ci saranno insomma altre tragedie, ma di questo non ci pare ci sia una consapevolezza da parte di chi ci governa.
L’Europa oggi sembra però cambiare il proprio rapporto rispetto ai rifugiati ed è una cosa positiva sulla quale lavorare. Il vento che hanno mosso i siriani in marcia sulle rotte dell’est, si è beffato delle frontiere e del filo spinato. Vedere moltissimi cittadini esprimere una sincera solidarietà verso i profughi che stanno coraggiosamente attraversando le frontiere offre a tutti noi una ventata di speranza, speranza che non tutta l’Europa si faccia trascinare da politiche di odio e chiusura. Allo stesso tempo quello che vediamo dinnanzi a noi è anche un’Europa che ha deciso di scegliere, in maniera arbitraria, di separare le caselle tra migranti economici e rifugiati, e tra i rifugiati stessi dando la preferenza ai siriani e agli eritrei. Popolazioni che scappano indubbiamente da situazioni terribili ma il resto dei profughi, quello che avanza, è eccedenza che rischia di finire recintata nel filo spinato nel migliore dei casi, o in fondo al mare nel peggiore dei casi.
Notizia del 2 settembre 2015
Lampedusa: io ci sono, io vedo, io so
a cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Mediterranean Hope (MH), progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), trae il primo bilancio dopo più di un anno di lavoro. Lo ha fatto pubblicamente durante il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi, dove quest’anno il tema delle migrazioni è stato trattato con attenzione in diversi momenti sinodali ed extra sinodali. Durante la serata pubblica le attività di MH sono state raccontate da Marta Bernardini, operatrice a Lampedusa.
L’Europa comincia o finisce a Lampedusa? Questa ambivalenza della frontiera è uno dei punti centrali su cui MH ha riflettuto lungamente, cercando di analizzare il fenomeno migratorio in atto, come un evento epocale che segnerà a lungo la cultura del vecchio continente. Lampedusa è diventata un simbolo. Oggi vivere e lavorare in questo luogo è importante. Lampedusa è diventata un simbolo perché è stata costruita per esserlo; costruita mediaticamente e politicamente. Lampedusa è sempre stata un’isola di salvezza, un luogo sicuro di arrivo per ristorarsi prima di rimettersi in viaggio. E’ sempre stata un luogo di approdo, a partire dagli anni ’90 quando i lampedusani accoglievano chi arrivava dal mare con spontaneità e senza clamore. Tutto questo ha trasformato Lampedusa in un luogo di confine, di frontiera, dove arrivano gli ultimi del nostro tempo. Una frontiera che l’Europa sta cercando sempre più di esternalizzare, di spostare ancora più lontano dai nostri occhi, in quei paesi da dove si scappa per violenze, persecuzioni e assenza di ogni tipo di diritto. E’ difficile quindi affermare che l’Europa cominci a Lampedusa.
L’Europa invece comincia in tutti quei paesi impoveriti dal nostro continente perché depredati delle loro risorse, dove dittature e governi che annullano la dignità delle persone sono appoggiati dai governi europei. L’Europa dovrebbe iniziare proprio da quei paesi in guerra, offrendo alle loro popolazioni vie legali e sicure di arrivo nel nostro continente, per esempio attraverso le ambasciate, costituendo dei canali umanitari.
Le persone che arrivano accompagnate dalla Guardia Costiera dopo essere state salvate in mare hanno volti stanchi ma pieni di speranza. In alcuni casi sono invece sguardi vuoti perché sotto shock. Perché come unica scelta hanno preso una barca, o peggio, un gommone precario per raggiungere un’idea di salvezza e libertà. Persone che a volte sopravvivono al deserto, al soffocamento nelle stive, ai naufragi ma non possono più dimenticare, non possono più togliersi dalla pelle, dagli occhi queste esperienze. Così come non si tolgono i segni della frontiera. Noi le persone che arrivano le salviamo in mare se riusciamo, perché sarebbe troppo grave non farlo. Ma poi diventano presenze scomode, che vengono accolte nei nostri moli con luci abbaglianti, guanti e mascherine come se arrivassero gli “infetti” di un mondo che non vogliamo vedere. Poi li rinchiudiamo in centri di accoglienza ermetici, come fossero criminali. Se l’Europa comincia a Lampedusa allora io mi vergogno. Mi vergogno perché l’Europa muore nel mar Mediterraneo. Perché ogni persona che perde la vita è anche nostra responsabilità. Perché se siamo orgogliosi di un’Europa costruita per difendere e garantire i diritti di tutti gli esseri umani noi, ogni giorno, violiamo i diritti di intere popolazioni che scappano. Non possiamo essere orgogliosi di diritti che valgono solo per noi, che siamo dalla parte ricca della frontiera.
A Lampedusa come operatori di MH non abbiamo incontrato semplicemente un’umanità, abbiamo fatto un’esperienza diretta del più grande fenomeno sociale del nostro tempo, quello di una umanità in cammino verso un futuro migliore. Ma questa umanità non arriva e si ferma solo a Lampedusa, arriva in tutte le nostre città, nelle nostre chiese, bussa alle nostre case sicure di cittadini e cittadine che abitano questa parte della frontiera, questa umanità ci interpella come credenti. E noi non potremo dire che non c’eravamo, che non abbiamo visto, che non sapevamo, io ci sono, io vedo, io so… non mi sento orgogliosa di vivere su quest’isola. Mi sento fortunata. Perché essere qui mi permette ogni giorno di scegliere di stare dalla parte giusta.
Per rivedere il video integrale dell’intervento:http://riforma.it/it/articolo/2015/08/27/video-gli-interventi-della-serata-pubblica-del-sinodo-valdese
Notizia del 12 agosto 2015
Se si indeboliscono i soccorsi in mare
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Si muore, ancora, e si muore ovunque. Da Ceuta a Zwuara si muore, si muore soffocati nelle valigie, lungo i binari, nei barconi che affondano, si muore chiusi nelle stive. È una brutta estate questa del 2015, che segue a una primavera che sembrava vedere ridotti i morti in mare. Ieri sera sono arrivate a Lampedusa le decine di persone scampate all’ultimo naufragio avvenuto a largo della Libia, donne e uomini stremati con ferite e fratture, sotto shock, come lo era la madre che negli scorsi giorni ha cercato disperatamente la propria bimba di 5 mesi, mai più ritrovata, inghiottita dal mare. Storia che ci ha tolto dalla bocca il sorriso di gioia, invece, per il coraggio di un padre palestinese che miracolosamente ha nuotato per riprendersi dalle onde sua figlia e sua moglie. Sono puntini questi migranti, che il mare accoglie per sempre, come la foto che ha pubblicato la Marina Militare dopo la tragedia di qualche giorno fa. Formano la punteggiatura di una storia sommersa per sempre dalle onde. E poi ci sono le storie di chi riesce ad arrivarci in Italia e Europa, ma rimane incagliato nel nostro sistema di accoglienza. Ieri mattina un gruppo di minori eritrei ha manifestato dirigendosi dal Centro di accoglienza verso il porto di Lampedusa, perché gli era stato garantito che sarebbero partiti per la Sicilia insieme ad altri connazionali compagni di viaggio, ma ciò non è avvenuto e sono stati separati.
Tutte queste storie, e con loro quelle mai conosciute, influenzano in qualche modo le politiche europee? No, non lo fanno. Anzi, se leggiamo ciò che scrive uno dei più attenti osservatori di quanto accade nella frontiera della Fortezza europea, il professore palermitano Fulvio Vassallo Paleologo, ci accorgiamo che forse questo recente aumento di incidenti in mare ha delle responsabilità. Scrive Paleologo nel suo blog: “a partire dal mese di luglio si sono diradate le attività di ricerca e salvataggio delle missioni di Frontex nel Mediterraneo, ma cresce in modo esponenziale la pressione sugli Stati, e quindi sulle forze di polizia dei paesi membri, per inasprire le attività di identificazione, previste dai Regolamenti Dublino ed EURODAC, aggiungendo al consueto fotosegnalamento il prelievo forzato delle impronte digitali, anche con il ricorso all’uso della forza”. A sentire alcune fonti, e a guardare con più attenzione i comunicati stampa, sembra infatti che dell’operazione Triton si sia persa traccia. Se leggiamo bene le notizie ci accorgiamo che molti salvataggi vengono addebitati a Triton ma in realtà sono fatti dalla Guardia Costiera o da altre imbarcazioni commerciali. Anche le molte navi militari che fino a giugno operavano nel quadrante a sud di Lampedusa sembra si sia persa traccia o, a quanto pare, sembra che esse siano state spostate molto più a nord, vicino Malta. Poche le navi militari operative, con l’eccezione dell’Irlanda che in maniera autonoma sta intervenendo con efficacia nei salvataggi in mare. Siamo in attesa di nuovi sviluppi dell’operazione Eunavfor Med, ed è difficile capire cosa accada in questo momento nel Mediterraneo, mare al tempo stesso distante e vicino a noi.
Eppure qualcosa di nuovo quest’anno sembra essere stato prodotto ed è per noi un elemento significativo. L’intervento organizzato della società civile in mare, che sembra compensare il fatto che i salvataggi si siano diradati, rappresenta una interessante novità sulla quale sviluppare una riflessione per il futuro. Di questo ne abbiamo parlato a Lampedusa con il giornalista di Internazionale Stefano Liberti. Liberti si è imbarcato su una delle nave di Medici Senza Frontiere e ha visto da vicino i salvataggi in mare, un’osservazione diretta che gli ha permesso di cogliere alcune novità sulle rotte migratorie, per esempio che le partenze avvengono quasi esclusivamente con i gommoni e sono destinate a uno specifico quadrante di mare a ridosso delle piattaforme petrolifere. Liberti ci ha informato di alcuni cambiamenti: “inizialmente, per sopperire la carenza di soccorsi in mare, sono scese in campo iniziative private, Moas nel 2014 a cui sono seguite le iniziative di MSF nell’estate 2015. Il modo di operare di queste missioni è integrato al meccanismo di ricerca e soccorso coordinato dalla Guardia Costiera. Queste iniziative – ha proseguito Liberti – non sono quindi solo simboliche, come quella della Kap Anamur del 2006 che si mosse in violazione alle leggi allora vigenti. La missione di MSF ha un approccio politico, a differenza di Moas, dichiarando esplicitamente che si adoperano nei soccorsi in mare perché l’Europa non fa abbastanza”. Per il giornalista “queste operazioni sono molto più aperte alla stampa rispetto a quelle della Marina Militare, comunicano maggiormente e in maniera differente, raccontando la storia delle persone. In più queste missioni hanno un approccio meno asettico, se guardiamo come comunicano sia Moas che MSF via Twitter ci accorgiamo che hanno un modo di raccontare il fenomeno migratorio che mette al centro le persone”. Per Liberti il vero rischio non deriva dal fatto che questi soccorsi possano sostituire, deresponsabilizzando, il ruolo dei governi, ma che così si distolga l’attenzione dal vero problema, quello di aprire canali umanitari. Dalla pagina facebook di Medici Senza Frontiere, dopo alcuni soccorsi avvenuti i primi di agosto e che hanno visto anche il recupero di 5 persone decedute per il lungo viaggio, si legge: “Questo episodio evidenzia la necessità di una maggiore capacità di ricerca e soccorso vicino alle coste libiche, poiché ogni ritardo può diventare questione di vita o di morte – ha commentato Loris De Filippi, presidente italiano di Medici Senza Frontiere – aggiungendo che “finché non saranno creati nuovi canali legali e sicuri per raggiungere protezione in Europa, le persone vulnerabili continueranno a rischiare la propria vita su barche sovraffollate.”
Notizia del 29 luglio 2015
Salvezza e schiavitù
di Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 29 luglio 2015 – 50, 13, 1. Numeri senza nome, come le tombe dei cimiteri siciliani che accolgono i corpi delle persone morte nel mare. 50 persone sono morte la settimana scorsa per attraversare il mare, 13 ieri. 1 invece è il bracciante morto a Nardò. Morto di lavoro, e non semplicemente sul lavoro. Morto per le condizioni in cui viveva. Non parlo per sentito dire, notizie come questa infatti obbligano a sfogliare all’indietro la bibliografia personale, a ritornare indietro di qualche anno. Io a Nardò ci sono stato per due estati di fila, lavorando in un campo di accoglienza autogestito dai braccianti dal quale poi è scaturito il primo sciopero contro il caporalato. Non penso che sia un destino il fatto che oggi, da Lampedusa, torno a parlare di Nardò. Ho in me la sensazione che questi due luoghi siano infatti collegati, come lo erano nel 2011 quando per le primavere arabe ci ritrovammo nel campo un flusso consistente di tunisini che venivano a lavorare per pochi euro dopo essere passati per Lampedusa.
Che cosa ha in comune la frontiera con i campi dei braccianti? Qual è il filo diretto che lega la loro condizione con quelli che sono chiusi nel Centro di accoglienza? Per capirlo occorre essere qui quando queste persone arrivano e quando da qui ripartono. E’ come se questo scoglio sia per loro, al tempo stesso, il luogo della salvezza ma anche della separazione. Prima Lampedusa non era così, prima Lampedusa accoglieva pubblicamente, umanamente, poi è arrivata “l’emergenza”, i media, gli attori politici, lo Stato con le sue procedure. Qui si è costruito nel tempo un modello che come un tatuaggio segna le persone che arrivano alla frontiera. Li separa da noi, li considera un peso, una possibile infezione, li rende invisibili agli occhi dei turisti, ne cancella le storie, nega loro libertà di movimento così come toglie ai lampedusani che vogliono farlo la possibilità di esercitare la propria umanità.
Ecco cosa hanno in comune i casolari pugliesi con quest’isola in questi giorni, l’invisibilità dei migranti. Duole ammetterlo, ma è così. La frontiera contribuisce a creare nell’immaginario comune lavoratori invisibili, senza diritti, pagati quanto basta per sopravvivere nella “fabbrica verde”. Per capire cosa sia la “fabbrica verde” italiana occorre entrarci dentro, sentire le mosche che ti svegliano la mattina, il puzzo della miseria, il peso del ricatto. Mi fanno ribrezzo le persone che dicono che i migranti rubano il lavoro. Ignorano infatti un dato palese, il sistema agricolo italiano ha importato un modello di lavoro schiavizzato nel quale gli unici soggetti che possono lavorarci sono gli invisibili, i non cittadini che non devono mai provare a parlare di diritti, che non pesano sul welfare. La “fabbrica verde” con gli “schiavi neri” è una realtà strutturale nel nostro sistema produttivo, funziona in automazione. I grandi hub dell’ortofrutta smistano i prodotti alla grande distribuzione, i prodotti sono portati dai tir che entrano nei campi, i muletti li caricano nei cassoni che i braccianti riempiono. Si lavora e si compete al massimo ribasso, chi paga meno i braccianti è più competitivo.
Questo bacino di forza lavoro è composto da decine di migliaia di persone, minori non accompagnati, donne che subiscono abusi e violenze, come avviene ad esempio nelle campagne di Vittoria in Sicilia. E’ un popolo che cammina e si sposta da nord a sud del paese a seconda della stagionalità dei prodotti. Nessuno sa quanti siano. Nei luoghi dello sfruttamento le telecamere che danno voce al megafono dell’intolleranza non entrano, in questi campi non ci sono striscioni a favore del decoro né signore che protestano cantando l’inno nazionale. Quello che c’è invece è una cosa che nessuno denuncia, è un sistema normativo che crea clandestinità, che introduce in Italia come mai era avvenuto nella storia moderna il reato di disoccupazione legando il permesso di soggiorno al lavoro. Questa legge, insieme alla normativa elefantiaca sul diritto d’asilo crea una vasta platea di candidati allo schiavismo per le nostre campagne, mette migliaia di persone nelle mani dei caporali. La frontiera invece, con il suo spettacolo che sollecita la paura collettiva, insegna a tutti che loro sono diversi da noi, che loro possono subire ogni sopruso cancellando la loro dignità in cambio “dell’accoglienza”.
Come una beffa, poi, molto spesso gli stessi prodotti che qui i braccianti migranti raccolgono per un pugno di euro al giorno invadono i mercati africani, mettendo in crisi così le fragili economie locali. Creando disoccupazione e costringendo molti giovani a migrare. Ogni volta che ho detto ai migranti a Lampedusa “benvenuti in Italia”, sapevo che molti di loro sarebbero finiti nella fabbrica verde per essere sfruttati pesantemente. Sono salvi dal mare, ma il prezzo che molti di loro pagano nell’indifferenza generale si chiama riduzione in schiavitù.
Notizia del 15 luglio 2015
I figli e le figlie di Lampedusa
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 15 luglio 2015 – Quest’isola è fatta di storie. Storie di chi vive su questo scoglio perché lampedusano da generazioni o perché qui ha deciso di trasferirsi. Storie di chi transita per qualche periodo e storie di chi vi approda e riparte. Alcune storie sono più facili da raccontare e si ha l’onore di sentirle direttamente dai loro custodi. Altre storie rimangono come sospese, nel ricordo di pochi o tra le onde del mare. Vorremmo dare voce a chi ne ha di meno e a chi avrebbe il diritto di raccontare. Ma non sempre è possibile. Le puoi intuire dagli sguardi, dai sorrisi di gioia di chi arriva qui salvo, da quei tanti grazie che ti vengono rivolti per il solo fatto di aver messo piede nella Fortezza Europa. Quello che riusciamo a fare è dare voce ad altre persone su quest’isola, che però ci concedono di scorgere anche le storie di chi ci è negato.
Lillo Maggiore ha gli occhi sinceri, profondi e luccicanti come le cale più belle di Lampedusa. È un lampedusano appassionato e generoso, pieno di energia e voglia di condividere quello che da questo scoglio ha imparato. Ha una famiglia numerosa, una moglie, altrettanto energica, e tanti figli e figlie. Non solo quelle che lui definisce “naturali” ma anche quelli che hanno arricchito la loro vita. Dall’anno scorso hanno in affidamento, come ci racconta Lillo, “un ragazzo minore straniero non accompagnato arrivato sulle nostre coste, affidamento che non è avvenuto facilmente tramite le istituzioni ma grazie all’aiuto di ‘Ai Bi’, l’associazione amici dei bambini”. Lillo ci racconta come negli anni la loro sia sempre stata “la casa dell’accoglienza”, fin dal 2011 quando durante la Primavera araba accolsero il primo ragazzo tunisino che oggi vive a Nizza. Poi ci fu la tragedia del 3 ottobre 2013 e per quattro mesi due ragazzi, Tami e Alex, passavano le giornate con loro, e oggi, dice Lillo, “noi li consideriamo due figli che abbiamo lontani, perché uno vive in Norvegia e l’altro in Olanda. Ci rendono felici, siamo felici per loro perché sappiamo che stanno bene, sia lo stato della Norvegia che dell’Olanda li hanno accolti, gli danno un sussidio, frequentano la scuola e hanno un alloggio”. Mentre mi mostrano le foto dei due ragazzi, Lillo continua il suo racconto: “il primo ricordo di Tami e Alex non è un bel ricordo. Alex era in via Roma seduto su uno scalino con le lacrime agli occhi. Io non sapevo che era un ragazzo scampato al naufragio, mi sono avvicinato per chiedergli come stava e mi ha raccontato la sua storia. Da lì il mio cuore si è aperto, me lo sono abbracciato, l’ho portato a casa e il giorno dopo è venuto con Tami e da quando sono entrati in questa casa non si sono più allontanati dalla nostra famiglia che è diventata anche la loro.” Tante sono le emozioni che Lillo trasmette con le sue parole, per tutte le volte che Tami chiama di giorno e Alex invece ha il “vizio” di farlo di notte, svegliandoli e chiedendo di parlare con “mamà, mamà”. Ridono mentre lo raccontano, come quando, dice la figlia più grande, “una sera Tami mi ha contattata su facebook, noi ancora non ci conoscevamo, e si presenta: “ciao, sono Tami Maggiore, sai mio papà dov’è?”. Con commozione Lillo ci racconta di avere sentito Tami, una sera, parlare con la sorella, sposata con un ragazzo italiano, e dirle che lui aveva perso un papà ma a Lampedusa ne aveva trovato un altro. “Ricordi che senti dentro e non andranno mai via” – dice Lillo. Ragazzi che sono persone, hanno un nome e una storia.
Tutta questa passione Lillo ha cercato di metterla a disposizione, da un anno è diventato volontario della Croce Rossa Italiana, assegnato all’area dei diritti umani e diritto internazionale. Con altri è presente al molo quando i ragazzi arrivano e dentro di lui si smuovono sempre moltissimi ricordi ma anche frustrazioni. Ci racconta: “mi fa stare male non poter più incontrare i ragazzi che arrivano e poi stanno al Centro di accoglienza. Vederli arrivare in condizioni pessime, scalzi, bagnati, e poi non poterli incontrare per parlare con loro, per imparare insieme qualche parola di italiano per quando andranno via. Vorrei avere la possibilità di passare del tempo con loro, scherzare, giocare a calcio insieme, con tutti quei ragazzi che chiamiamo migranti, che poi sono profughi delle nostre guerre. Vorrei non farli sentire prigionieri, ma liberi di comunicare con la comunità lampedusana”.
Da qualche anno, con il sistema di accoglienza che conosciamo, è sempre più difficile incontrare i ragazzi che arrivano, imponendo alla popolazione un luogo chiuso e di separazione. Lillo, come molti altri cittadini e come gli stessi ragazzi, soffre questi muri invalicabili perché, come ci dice, “avere la possibilità di costruire una relazione con i ragazzi ci ha fatto crescere, ci ha fatto capire il senso di cosa sia la povertà, la mancanza di libertà. Ci ha fatto conoscere e maturare tantissimo. Ci ha fatto capire che se dai una mano e puoi arrivare a dare l’altra, lo devi fare. Secondo noi è sempre troppo poco quello che facciamo”. E continua “l’incontro ci ha fatto capire cosa significhi scappare da un paese di guerra, di dittatura, per raggiungere un paese democratico. Non si può morire dal freddo, in mare, perché viaggi su un barcone fatiscente. Non deve succedere e non capisco perché si impedisca all’essere umano di spostarsi.”
Queste non sono persone straordinarie, non sono eroi, sono persone come tante altre. Persone che sanno aprire le loro case, i loro cuori, capaci di condividere quello che hanno, non persone “buoniste” ma persone che si lasciano trasformare dall’incontro profondo con un’umanità in cammino. Tutte le contraddizioni emergono con forza da queste storie. Quanto siamo bravi a costruire muri e confini, a mettere tra “noi” e “loro” deserti, mari, prigioni e violenza. E quanto per fortuna ci sono persone che perseverano nel voler costruire corridoi, ponti, valichi, spazi di familiarità, affetto, umanità e dignità.
Notizia dell’8 luglio 2015
Emergenza delfini a Lampedusa
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi (con la collaborazione di Linda Staffieri e Alberto Mallardo)
Lampedusa, Agrigento (NEV), 8 luglio 2015 – Ogni settimana raccontiamo qualcosa da quest’isola. Raccontiamo quello che vediamo o quello che abbiamo imparato a vedere. E in questi giorni possiamo dire che “lo sguardo di Lampedusa” si allarga. Passeggiando sulla via principale del paese, via Roma, senti tra i passanti: “dalla televisione sembra che qui ci sia una costante invasione ed emergenza, ma non è così! E pensa che quel mio collega, in aula professori, mi ha dato del matto quando ha saputo che venivo qui in vacanza…”. Invece, l’unica emergenza è quella di un mare stupendo e dei meravigliosi branchi di delfini. Poi il tuo occhio attento vede seduti su una panchina, davanti a una televisione che trasmette un documentario su Lampedusa, cinque ragazzini eritrei. Hanno pantaloni della tuta, magliette colorate e guardano lo schermo. Tra di loro, senza accorgersene, si siedono dei turisti a guardare lo stesso documentario. E tu ti rendi conto che sono poco più che bambini. Stanchi, un po’ spaesati, ma pieni di voglia di vivere. Vedi questo e speri di saperlo raccontare, di essere in grado di far capire quello che succede qui, come viene vissuto e quanta distanza ci sia tra scelte politiche lontane e la vita di milioni di persone. Intanto parte il primo aereo francese dell’operazione Eunavfor Med: la missione per ora ha l’obiettivo di monitorare i flussi e successivamente di distruggere i barconi per indebolire i traffici di esseri umani. E ancora una volta pensi che ultimamente di barconi non ne partono molti, si mettono in mare gommoni gonfiati all’ultimo e sopra ci sono persone, donne, bambini, famiglie, e quei cinque ragazzini che hai visto in via Roma.
“Lo sguardo di Lampedusa” si allarga, perché raccoglie quello dei turisti che vengono qui per la prima volta, di quanti nonostante siano in vacanza passino da Mediterranean Hope per capire qualcosa di più e poi tornino a casa con una visione diversa. Lo sguardo si allarga perché questa settimana diamo spazio anche ad altri occhi, quelli di due volontari che sono con noi da qualche settimana e stanno sperimentando direttamente lo scarto tra quello che si racconta in genere di Lampedusa e come l’isola sia realmente.
Linda Staffieri, giovane studentessa di giurisprudenza a Roma, ci restituisce queste riflessioni: “Ciò che sicuramente colpisce di Lampedusa sono le immagini che l’isola regala. Il turista non può che godere della vista di cale meravigliose, ma una volontaria di Mediterranean Hope è più fortunata, può accedere al volto dell’isola paradossalmente più nascosto, nonostante appaia come quello più spettacolarizzato. Qui, però, l’immagine mediatica di un barcone stracolmo di persone si sostituisce inevitabilmente con altre. La prima che mi viene in mente è quella di uno sbarco piuttosto insolito di una settimana fa, circa duecento migranti che, prima di arrivare sul molo, applaudono fragorosamente e gioiscono di essere al sicuro dopo mesi di sofferenze vissute nei loro Paesi così come durante il viaggio affrontato per arrivare in Europa. I loro sorrisi sono in contrasto con i racconti tragici che offrono sistematicamente le televisioni. Le loro storie sono certamente drammatiche ma ciò non li priva della gioia di essere vivi. E nell’emozione di quel momento, anche noi che siamo al molo per dare il loro benvenuto, ci facciamo contagiare da questa energia e ci uniamo al loro applauso di felicità. Allora, ai numeri che vengono proposti dai giornali si sostituiscono le storie che possiamo vivere direttamente e quelle che i migranti stessi ci riferiscono. Rimangono impressi i racconti di ventenni che appaiono già vecchi, scappati da violenze e mesi di prigionia in Libia, povertà e fame, così come assenza di diritti e libertà nei loro Paesi. Il privilegio di una volontaria di Mediterranean Hope a Lampedusa è quindi quello di riappropriarsi di un altro tipo di narrazione, basata sull’esperienza diretta e sulla necessità di ricordare che ogni persona che arriva è portatrice di una storia e della dignità di un essere umano.”
Alberto Mallardo, antropologo arrivato a Lampedusa dopo diverse esperienze, ci offre il suo sguardo di Lampedusa. “Appena arrivato, le storie di chi, spinto da guerre, povertà, persecuzioni o ambizione personale lascia ogni giorno la sua terra d’origine per raggiungere l’Europa sembrano nascondersi dietro un muro fatto di cemento e divieti d’entrata, forze dell’ordine e militari. La sensazione è quella di vivere in un’isola dove di migrazioni si parla e si discute ma da dove i migranti sono stati rimossi. Rimossi dalla vista sensibile di chi è a Lampedusa a trascorrere un sereno periodo di vacanza. Rimossi in quanto pericolosi e infetti, in modo da esorcizzare la paura della povertà e della miseria che essi possono rappresentare ai nostri occhi. Dopo pochi giorni, però, quella dimensione prima nascosta, mi è stata restituita in tutta la sua fragile e incredibile umanità. È oggettivamente difficile descrivere le sensazioni provate quando, dopo qualche minuto d’attesa, si palesano davanti ai tuoi occhi centinaia di persone stanche e spossate da mesi di viaggio, i volti spesso sorridenti e determinati di chi ha scelto di affrontare un cammino colmo di ostacoli e imprevisti. Lunghe soste, interminabili periodi di attesa e poi marce e trasferimenti forzati. Guardandomi intorno al molo Favarolo, non posso fare a meno di pensare a tutto questo. La presenza, lo stare qui ed ora, nel posto giusto, non è quindi cosa che può essere descritta facilmente in tutta la sua irriducibile complessità. Ed è anche per questo che invito chiunque possa a trascorrere a Lampedusa le proprie ‘vacanze’. Perché esse non siano solo un periodo di svago ma anche un momento di arricchimento personale. Se saprete fermarvi ad ascoltare Lampedusa vi rivelerà un mondo dove l’accoglienza non si esercita in modo esclusivamente meccanico, ma da secoli è fatta di incontri, tentativi di comprendere l’altro e piccoli gesti quotidiani.
Articolo del 1 luglio 2015
CONNECTING PEOPLE
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 1 luglio 2015 – A Lampedusa si corre sempre d’estate, si corre e le giornate volano via veloci ed intense. L’isola quando si sveglia dal letargo invernale cambia pelle, cambia il tempo e tutto accelera. Questo è il tempo dell’isola che accoglie i turisti e per noi questo vuol dire avere più possibilità di dialogare. Così, oltre ai videomaker, ai progettisti, ai fotoreporter e ai ricercatori che vengono a Lampedusa, ora ci sono anche loro, i turisti, che con la loro venuta cambiano volto all’isola. Spesso si fermano al molo davanti a noi, ci guardano portare dentro acqua e biscotti per i migranti che approdano e spesso rimangono spaesati. E lo spaesamento, lo stupore, non è dovuto a quello che vedono qui, ma alla distanza che percepiscono tra quello che sentono tutto l’anno in televisione e quella che è la realtà effettiva di Lampedusa.
Una famiglia di Reggio Emilia attende che usciamo dal molo Favaloro dopo l’approdo della notte scorsa, ci ferma con fare gentile e ci chiede informazioni sui migranti. Raccontiamo loro quello che facciamo, le nostre storie viste e sentite di un’isola che affronta da sempre quello che la politica europea non riesce a gestire. Ci fanno domande, cercano di comprendere quello che accade e rispondiamo loro che partono in così tanti perché l’Africa l’abbiamo affamata con il debito da un lato, e sfruttando le sue risorse dall’altro. Rimangono interdetti quando gli diciamo che in trent’anni molti Paesi di quel continente hanno già pagato 12 volte l’ammontare dell’odioso debito al Fondo Monetario Internazionale e che dal 1991 ad oggi, di guerre tra Africa, Mediterraneo, Medio Oriente ce ne sono state una ogni due anni e mezzo. Li lasciamo passeggiare mentre si dirigono a vedere gli ultimi barconi appoggiati vicino al campo di calcio, chissà, ci diciamo tra noi, quando torneranno a casa o al lavoro cosa diranno ai loro cari, ai loro amici. Chissà se crederanno ancora alle informazioni distorte che danno in televisione. Ci sarebbe davvero bisogno per molti italiani di una educazione lampedusana, non solo perché l’isola è spaventosamente bella in questo periodo, ma perché molta della paura che trasmettono i media gli passerebbe al primo soffio di vento su questo meraviglioso scoglio.
Riuscire a far capire cos’è la frontiera, la sua logica che crea separazione, il perché le persone partono e cosa succede poi a quanti prendono il mare, non è semplice, ci vorrebbe tempo, e noi oggi davvero non ne abbiamo perché giornate come queste riempiono ogni spazio. Questa mattina ci sono venuti a trovare al nostro ufficio una decina di turisti americani, anch’essi affamati di notizie, anche loro volevano comprendere cosa accade nell’isola. Parliamo con loro due ore, usiamo i disegni di Francesco, uno degli operatori di Mediterranean Hope, per comunicare meglio, per raccontare il nostro punto di vista, il progetto dei corridoi umanitari, l’idea di decostruire la frontiera. Diciamo loro che qui in Europa abbiamo imparato proprio dagli Stati Uniti la logica del confine, quello messicano del resto ha lo stesso filo spinato di Ceuta e Melilla. Anche loro fanno domande e alla fine escono con qualcosa in più, e proprio mentre ci stiamo salutando, quasi per caso, entrano due ragazzi somali che ci chiedono, come spesso accade, di cambiare dei dollari. I turisti americani accettano, parlano inglese con loro e li vediamo sorridere insieme mentre tornano al centro del paese.
Del resto in quest’isola tutti sono un po’ migranti, sia chi viene a rilassarsi sia chi transita nella ricerca di un mondo migliore. Giornate intense quelle di questi primi giorni estivi, dove tutto vola via veloce e ti obbliga a stringere i tempi. I migranti che riescono a uscire per qualche ora dal Centro di primo soccorso e accoglienza vengono nell’ufficio di Mediterranean Hope, ci chiedono di usare internet, ci chiedono connessione, ci dicono che il loro sogno è arrivare in Germania o altrove, ci fanno vedere le loro foto e quelle delle loro giovani mogli. Queste poche ore da noi ridanno loro respiro, ascoltano musica su You Tube e guardano le partite del Manchester United. Poveri e connessi. C’è da riflettere su questa metafora, quella di un continente povero che crede che dall’altra parte ci sia la terra promessa ma poi vede infrangere i propri sogni sul filo spinato di Melilla o sugli scogli di Ventimiglia.
Chi arriva alla frontiera capisce subito che non sarà uno scherzo, il sistema di accoglienza li tratta come sacchi di patate, pochi sorrisi e molti ordini. Loro dovranno ripartire da capo, lo sanno, anche i social media si riazzerano, non si riesce nemmeno ad entrare in Facebook perché occorre reinserire la password avendo cambiato continente. Ma la password viene inviata per sms e loro il cellulare non ce l’hanno. Diamo il nostro telefono e quando scoprono che usiamo Viber gli si illuminano gli occhi. Finalmente c’è la soluzione che permette ai più poveri di questo mondo di connettersi, agganciandosi al Wi-Fi di Mediterranean Hope, e di chiamare la propria mamma che non si sente da due mesi o più. “Ciao Mamma, sono a Lampedusa” e le urla di gioia riempiono la stanza.
“Eccola Lampedusa, sempre preoccupata e ansiosa, spaventata per il turismo, esposta al vento e alle contraddizioni di questo mondo”. Scriviamo questo veloce post sulla pagina Facebook dopo un approdo di un centinaio di profughi, un altro ce ne sarà tra due ore, tempo di un piatto veloce, di riprendere acqua e merendine e poi di nuovo al molo, a salutarli, a sorridergli e dirgli “welcome, you are in Lampedusa and good luck!”. Già, di fortuna questi ragazzi ne avranno davvero bisogno, in questo continente ricco di paura e ingiustizia il loro viaggio verso nord è appena iniziato.
Articolo del 24 giugno 2015
L’aliscafo della rabbia
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV) – 24 giugno 2015 – Oggi non vi vogliamo parlare solo di Lampedusa. Oggi vi vogliamo parlare anche di Linosa, la splendida isoletta dell’arcipelago delle Pelagie, 5 kmq di bellezza vulcanica nel cuore del Mediterraneo. Un piccolo paradiso che da mesi vive in una situazione di vero isolamento, in quanto i collegamenti per raggiungerla sono sempre meno efficienti. Linosa si trova infatti senza l’aliscafo che la collega con Lampedusa e Porto Empedocle creando enormi disagi per i cittadini che necessitano di accedere a diversi servizi – come quello sanitario – ma anche per la stagione turistica. Sono ben cinque gli appalti andati deserti per vere l’aliscafo veloce e non dover dipendere unicamente dalla nave di linea, che spesso non arriva per guasti o mal tempo. Si sta giocando un braccio di ferro tra le autorità e la compagnia che serviva in precedenza la tratta e sembra lontana una soluzione. Intanto i cittadini esasperati manifestano da giorni, a partire da una campagna virale sul web fino ad occupare il municipio con diversi slogan e striscioni.
E proprio in questi giorni di fermento, a Lampedusa sono ripresi gli arrivi di migranti, senza che l’isola viva l’emergenza di facile presa mediatica, ma i numeri non sono certo indifferenti. Quello che ci colpisce di più, in questo clima di scontento dei cittadini e di preoccupazione per la stagione turistica, è che proprio lunedì mattina un aliscafo è arrivato a Lampedusa per poter accompagnare circa 200 migranti, prevalentemente minori, in Sicilia.
E ricomincia il gioco tra le parti, quello che esaspera la divisione tra “noi” e “loro”, alimentando lo scontento degli abitanti di Linosa bche si sono visti passare davanti un mezzo tanto desiderato ma non destinato a loro. Si inasprisce la percezione di essere cittadini di serie b, di essere i penultimi contro quegli ultimi che colpa non ne hanno, se non essere usati come pedine nella scacchiera della frontiera. Difficile comprendere il perché di questa scelta, di certo sappiamo però misurarne gli effetti. Si alimenterà ancora una volta un clima di colpevolizzazione verso i migranti, funzionale alle recenti scelte politiche italiane ed europee.
A Linosa gli abitanti sono lasciati soli e arrabbiati mentre a Lampedusa si susseguono le visite di politici, tra cui la Commissione di inchiesta del Parlamento italiano sulla situazione dell’accoglienza. Forse è a seguito di queste visite che i migranti sono stati velocemente trasferiti con l’aliscafo, forse per far vedere il Centro di primo soccorso e accoglienza perfettamente funzionante. Ancora una volta assistiamo a quello che definiamo da tempo il palcoscenico della frontiera, con le decine di telefonini pronti a fotografare e documentare l’arrivo di persone esauste dopo giorni di mare e mesi di vessazioni in Libia. Lunedì, inoltre, è uscita la notizia che l’Unione Europea ha approvato l’operazione EuNavFor per dispiegare forze in mare con l’obbiettivo di distruggere le barche dei trafficanti di esseri umani.
I 28 paesi europei lo hanno deciso all’unanimità e nel giro di una settimana i mezzi che verranno messi a disposizione per l’operazione sono complessivamente 5 navi militari, 2 sottomarini, 3 aerei da ricognizione, 2 droni e 3 elicotteri, con complessivamente “un migliaio” di soldati. Quando si tratta di decidere per fare operazioni di guerra, come si vede, non ci sono troppi dissensi ne un’opinione pubblica che si mobilita per questo tipo di spese.
Questa è solo la prima fase di un piano che però aspetta la finale autorizzazione delle Nazioni Unite per diventare un intervento più consistente in Libia. Per alcuni non si tratta altro che di un rinforzamento del lavoro di pattugliamento delle frontiere degli ultimi mesi, per altri sarebbero i primi passi verso una nuova guerra in Libia. Libia che vede entrambi i governi, quello di Tobruk e quello di Tripoli, contrari ad ogni tipo di intervento europeo e anzi non esitano a dimostrare di poter incidere sulle partenze dei migranti.
Noi di Mediterranean Hope guardiamo con attenzione quello che avviene, anche in attesa del Consiglio Europeo del 25-26 giugno e delle conseguenze che ne deriveranno. Di certo notiamo come il clima contro i migranti, che in Italia si alimenta ormai da mesi, sembra essere funzionale ad una nuova stagione di guerre e di frontiere mobili sempre più armate.
Notizia del 17 giugno 2015
Ventimiglia a nord di Lampedusa
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 17 giugno 2015 – Per chi sta nella frontiera, come noi da Lampedusa, vedere le scene e le immagini da Ventimiglia fa riflettere. In primo luogo perché ci conferma che la maggior parte dei migranti, nonostante i media continuino a parlare di invasione, non hanno per niente intenzione di rimanere in Italia. Proprio ieri, infatti, lo stesso Istat ha nuovamente segnalato come nel nostro Paese i migranti che arrivano sono sempre di meno mentre gli italiani che se ne vanno sono sempre di più, per effetto della crisi economica. In secondo luogo, perché quello che diciamo da tempo, cioè che le persone che arrivano su quest’isola il confine poi se lo portano addosso come un marchio sulla pelle, trova la conferma nelle immagini che abbiamo visto in questi giorni. Il confine, i suoi dispositivi, le retoriche che in questa dimensione prendono forma, accompagnano ovunque le persone che lo attraversano, adattandosi e trasformandosi in modo dinamico in base alle situazioni che si trovano a vivere. Ponte Mammolo, la stazione di Milano, il confine di Ventimiglia, non sono altro che la prosecuzione di quello che iniziamo a vedere su quest’isola.
Un confine che si estende anche nelle paure collettive, nei titoli dei giornali ad effetto, nella continua campagna dell’emergenza. La paura della scabbia ad esempio, curabile facilmente e in qualche giorno, è diventata il mantra principale con il quale i media costruiscono la separazione tra il Noi e il Loro nella quotidianità del sociale. La scorsa settimana scrivevamo della povertà messa al confine, del fatto che uno dei primi diritti che viene negato alle persone che arrivano è quello del riconoscimento della libertà di movimento. Una libertà che, però, cercano di esercitare con i loro corpi, strumento che mettono in gioco fino in fondo, dentro e contro i confini dell’esclusione. Lo fanno disobbedendo pacificamente all’ordinamento legislativo europeo, una disobbedienza spontanea contro leggi che sono intrinsecamente ingiuste.
Quello che succede a Ventimiglia, quindi, non è altro che una denuncia contro l’inadeguatezza delle regole di Dublino, contro la logica delle frontiere europee. Ieri, nelle stesse ore in cui vedevamo le immagini di Ventimiglia, trasformata in un palcoscenico della frontiera come è accaduto a Lampedusa per decenni, guardavamo le fotografie del confine di Bulent Kilic tra Siria e Turchia (http://intern.az/1orI), e ci giungeva la notizia che un ragazzo di 18 anni è morto a Melilla mentre cercava di attraversare un altro muro. Immagini e notizie che compongono il mosaico di un fenomeno migratorio che per intensità e consistenza non avveniva dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Mentre scriviamo questo articolo non abbiamo ancora le idee chiare su come sia andato il vertice dei Ministri in Europa. A leggere le prime notizie non ci pare che molto sia cambiato, visto che non esiste un accordo vincolante fra gli Stati per redistribuire realmente le quote dei rifugiati e richiedenti asilo – si continua a parlare di numeri e non di persone. Ciò che ci appare evidente è che ancora una volta paesi come la Francia, che hanno contribuito con le loro politiche di guerra a devastare intere nazioni, altro non fanno che mandare forze dell’ordine per impedire a persone innocenti di ritrovare e ricongiungersi con i propri familiari.
In questi giorni a collaborare con Mediterranean Hope a Lampedusa si trova una giovane stagista della Sorbonne, Gabrielle Bécard, che guarda con i suoi occhi quanto avviene al confine con il suo paese e ci racconta: “Le immagini di Ventimiglia mi hanno fatto pensare a quanto accaduto nei primi giorni di giugno a Parigi nel 18ème arrondissement, dove sono stati sgomberati diversi campi profughi, tra l’indignazione di alcuni cittadini presenti a difendere i migranti”. L’esperienza che Gabrielle sta facendo a Lampedusa le ha permesso di dare voce a quanto già percepiva nel suo paese: “Ho la sensazione – continua Gabrielle – che ci sia uno scollamento tra le scelte politiche, le azioni della polizia, e chi vive direttamente sulla propria pelle l’esperienza della frontiera, non solo i migranti ma anche la popolazione locale che assiste in prima persona alle conseguenze di quanto viene deciso altrove. Nonostante la violenza e il clima di intolleranza diffusa che ho visto negli sgomberi a Parigi tanto quanto nelle immagini a Ventimiglia, ho potuto constatare che c’è un’umanità, soprattutto a Lampedusa, che è ancora sensibile e capace di battersi per la dignità di chi arriva in Europa”.
La frontiera si imprime sui corpi, si sposta con le persone che la attraversano, che sia il deserto, la Libia, il Mediterraneo, Lampedusa, il confine turco-siriano o Ventimiglia.
Notizia del 10 giugno 2015
Ai confini della povertà
A cura di Marta Bernardini e Francesco PIobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 10 giugno 2015 – L’ultima nave della Guardia di Finanza che ieri sera ha portato il suo carico di umanità nell’isola di Lampedusa, era piena di donne e bambini. Soprattutto siriane, ma anche del Sudan e Somalia. Prima, altre imbarcazioni, tra cui come sempre quelle della Guardia Costiera, avevano portato a terra sane e salve alcune centinaia di persone partite dalla Libia, ghanesi, gambiani, bangladesi, nigeriani.
Noi li vediamo per poco, abbiamo giusto il tempo di salutarli con qualche parola, un gesto di vittoria, un sorriso, un “welcome in Italy”, e poi tutti ci scompaiono davanti inghiottiti dalla frontiera e dai suoi dispositivi. Vengono portati al Centro di primo soccorso e accoglienza, resteranno chiusi per qualche giorno in un luogo sovraffollato e pieno di criticità e poi saranno nuovamente trasferiti in Italia. In altri centri, alcuni che fanno bene il loro lavoro e altri che speculano sulla pelle di chi arriva. Nell’epoca di Mafia Capitale, c’è un elemento sul quale è necessario riflettere a partire da quest’isola, uno dei primi luoghi in cui i migranti approdano. A cosa serve tutto questo? È davvero indispensabile avere un sistema di accoglienza così militarizzato, incapace di uscire dalla logica dell’emergenza ma in grado di trasformare le persone in oggetti privi di voce e di storia? Siamo davanti a un dispositivo che si autoalimenta di paure e retoriche, che si rafforza con immagini statiche di numeri, mascherine, tute contro le più spaventose infezioni. E questo sistema penetra nei corpi di chi arriva e nella mente di chi guarda, costruendo un immaginario lontano dalla realtà.
Chi arriva è una persona che ha dietro di sé una storia e davanti un sogno e un progetto di vita. Chi arriva non è un numero da dividere tra sani e “scabbiati”, buoni e presunti scafisti. Chi arriva, al di là delle scempiaggini che scrivono i giornali sui terroristi dell’Isis, non è un soggetto socialmente pericoloso. Chi arriva è come me che scrivo e come te che leggi, è come tuo figlio, come tua sorella o il tuo più caro amico. Chi arriva è un essere umano.
Che le persone che qui approdano, dopo lunghi ed estenuanti viaggi, abbiano bisogno di cure è verissimo, che abbiano bisogno di essere protette anche. Ma per fare questo è necessario che vengano separate dal resto della società? La prima cosa che la frontiera toglie a chi arriva, in cambio della salvezza, è la voce. La seconda sono la dignità e la libertà di movimento. La voce, perché tutti parlano di “loro” senza che nessuno gli dia la possibilità di parlare; la dignità, perché questo sistema di accoglienza produce inferiorizzazione e separazione tra “noi” e “loro”, tra chi può scegliere e chi no; la libertà di movimento, perché Dublino e le sue regole li costringono a rimanere in Italia. Esempio evidente è parlare, discutere, decidere della vita di queste persone come fossero un peso da sostenere, dei pacchi da distribuire.
Nei giorni scorsi ci ha colpito la notizia che in Libia il governo di Tripoli ha iniziato ad arrestare i migranti, perché sappiamo che molto probabilmente sono finiti nei lager che l’Europa sta finanziando per cercare di nascondere questa umanità ai nostri occhi. Allo stesso modo ci ha colpito vedere la molteplicità di nazionalità presenti nel campo di ponte Mammolo, sgomberato a Roma il mese scorso. Campi e luoghi di concentramento della miseria, prima e dopo la frontiera, sono il destino comune per molte persone. La povertà estrema e senza voce, dove si sedimenta una fascia di popolazione globale alla quale non è concesso altro che essere sfruttata e sopravvivere senza nessuna tutela, sembra essere una presenza costante in tutte le grandi città dell’Occidente. La frontiera, quindi, non è unicamente davanti a noi, non si esternalizza solo verso il Sud, ma è parte integrante di un modello di gestione della povertà presente anche nelle nostre città. L’elemento emergenziale, lo stigma sociale della povertà, la passivizzazione dei migranti, servono per agevolare un’economia dell’accoglienza che, come dimostrano le inchieste in corso, arricchisce bande criminali che non si fanno scrupoli a speculare sui soggetti più vulnerabili. Com’è potuto accadere che nonostante le denunce di molti, nonostante le manifestazioni dei migranti stessi – spesso scesi in strada da soli – contro la cattiva gestione dei Centri ci sia stato così tanto disinteresse? Probabilmente ciò è avvenuto perché il sistema mediatico, abituato ad annaffiare le paure collettive, si è concentrato sulle “colpe” di chi era oggetto della speculazione più che di chi speculava. Per mesi, media locali e nazionali, talk show e politici non hanno fatto altro che puntare il dito contro i 35 euro che prendevano i migranti, mettendo gli italiani poveri contro altri poveri, senza fornire elementi per comprendere quanto realmente stava accadendo. Eppure non sarebbe stato difficile da far emergere tutto questo, bastava parlare con i migranti, farsi raccontare, magari dare voce a uno di loro per capire che spesso nemmeno 2,50 euro al giorno venivano dati. Al contrario, diversi giornali, invece di chiedersi – e di chiedere – come mai le persone manifestavano per avere un sistema di accoglienza dignitoso, hanno ribaltato il significato della protesta facendo passare per dei privilegiati coloro che si lamentavano di abusi e maltrattamenti.
C’è una grande discussione da fare sulle politiche di accoglienza in Italia degli ultimi 25 anni, occorre comprendere che intorno al tema della migrazione c’è una questione centrale che la politica non vuole affrontare per paura di finire sul banco degli imputati, la povertà. In questi ultimi vent’anni i poveri li abbiamo rinchiusi e colpevolizzati, isolati e nascosti, forse è arrivato il momento di cambiare prospettiva e che ognuno si assuma le responsabilità che gli spettano.
Notizia del 3 giugno 2015
Welela era una ragazza prima di morire
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 3 giugno 2015 – Storie di una frontiera che cancella vite. Storie che per una serie di casualità vengono alla luce e ci consegnano un’umanità che è ben poca cosa rispetto alla “banalità del male” che si nasconde dietro procedure, burocrazia, quotidiana normalità.
La storia che vi proponiamo è fatta di tanti tasselli, persi, ricostruiti e ora raccontati. Partiamo da una lampedusana, una persona che come tante altre sull’isola è preoccupata che le immagini distorte che i media propongono di questo luogo facciano male a Lampedusa e alla sua stagione estiva. Ma questa è anche una persona ancora capace di indignarsi e reagire davanti a un’umanità espropriata dei suoi diritti fondamentali. Possiamo ricostruire e raccontare questa storia solo perché – ci dice la donna lampedusana che vuole restare anonima e che chiameremo Sara – “abbiamo delle persone della Guardia di Finanza, del Comune di Lampedusa, della Capitaneria di Porto e medici che sono ancora sensibili”. Poi c’è un’altra donna lampedusana, anche lei ancora sensibile, che ha offerto la sua tomba di famiglia per permettere ad una giovane ragazza eritrea, arrivata senza vita dal mare, di non essere considerata soltanto un altro numero. Questa storia parla anche di un rito laico, fatto da persone comuni, per rompere la spersonalizzazione di chi muore in mare. È sconvolgente però constatare che, anche se c’è un’umanità che da sola cerca di resistere alla banalità del male insita nel dispositivo della frontiera, se le persone in questione si fossero attenute alle procedure previste, la storia di Welela sarebbe stata persa per sempre e suo fratello non avrebbe mai avuto una tomba per piangerla.
Questa storia la raccontiamo grazie alla disponibilità di Sara che è riuscita, non con poche difficoltà, a ritrovare una ragazza eritrea di 20 anni che è stata sepolta nel cimitero di Lampedusa il mese scorso. Il tutto nasce da una telefonata ricevuta da Palermo da un ragazzo eritreo che aveva saputo della morte della sorella, arrivata su un barcone, e della difficoltà di trovare il luogo della sua sepoltura. Si viene quindi a sapere che il 16 aprile c’era stato un drammatico salvataggio in mare, che erano state recuperate cento persone, delle quali ventisei ustionate gravemente. Con loro viaggiava anche la giovane, senza vita. Le ustioni non erano quelle tipiche provocate dal mix di carburante e acqua di mare che brucia la pelle, ma erano lesioni molto più estese, presenti in tutto il corpo. Si scoprirà poi che queste persone erano partite dalla Libia dopo un’esplosione di una bombola a gas avvenuta nel luogo dove erano tenute e si verrà a sapere che per giorni, nonostante le gravi ferite, erano state lasciate in agonia e senza cure per poi essere imbarcate in mare.ì
Ritrovare il corpo della giovane eritrea non è stato facile. Le prime notizie davano il suo seppellimento ad Agrigento, informazione dovuta ad un equivoco dato che nei giorni precedenti altri ragazzi erano morti per annegamento ed erano stati sepolti senza nome. Grazie alla Guardia Costiera di Lampedusa e alla Guardia di Finanza, si è poi venuti a conoscenza che la ragazza era stata identificata come Welela dai suoi stessi compagni di viaggio. Sul rapporto della Guardia di Finanza veniva riportato tale fatto ma l’ordine del Magistrato non faceva riferimento al nome di battesimo della ragazza. Il ritrovamento di Welela è, quindi, frutto di una casualità. Saputo che il corpo era a Lampedusa si è poi scoperto che la ragazza era stata sepolta al cimitero in una tomba offerta da una donna dell’isola, che ha dato disposizione di seppellirla nel loculo della propria famiglia. Tra l’altro, proprio vicino ad un secondo loculo offerto ad un ragazzo romeno venuto dal nord, talmente povero e solo da non potersi permettere una tomba. Avendo saputo che Welela era stata sepolta senza nessun rito o saluto, un piccolo gruppo di persone ha organizzato una breve e semplice cerimonia laica per ricordare il valore umano di ogni persona, a prescindere da questa vicenda specifica. Anche Mediterranean Hope ha partecipato a questo momento, con il coro multietnico di Migrantes Messina, e insieme abbiamo cantato, condiviso lacrime e silenzi, filmando l’avvenimento per poterlo mandare al fratello di Welela, impossibilitato a raggiungerci. A questa iniziativa la stampa non è stata chiamata. Certi della genuinità dei nostri gesti abbiamo deciso di non farlo per una questione di rispetto alla famiglia di Welela. Facciamo nostre, quindi, le parole di Sara quando ci dice che “c’è in atto un’idea di cancellazione culturale di queste vite. Se lo scopo è salvare le persone non si dovrebbe salvarle dal naufragio, ma prima che queste partano. Vanno salvate dalle dittature e dalle prigioni libiche. L’idea della cancellazione – continua Sara – è una strategia culturale che dà il via libera a provvedimenti politici che spesso non hanno senso. Se lo scopo è salvare le persone bisognerebbe salvarle dalle dittature e non nell’ultimo pezzettino del viaggio, magari proponendo di bombardare i barconi”.
Queste scelte mettono in evidenza come la spersonalizzazione degli esseri umani, la creazione di enormi centri profughi, l’ignorare il progetto di vita di queste persone sia ormai una strategia per cancellare gli interrogativi che i migranti pongono ai nostri confini. Continuano ad essere viste, e trattate, come un problema, senza considerare le risorse che potrebbero offrire alla nostra comunità. Sara ci dice che ci sono due modi per imparare le cose, l’esperienza diretta e la cultura. “Se una cosa non viene vissuta non puoi apprenderla. Noi lampedusani abbiamo una nostra particolarità, non è che siamo buoni ma siamo costretti a vivere costantemente un’esperienza diretta. Un’esperienza – continua la donna – che poteva essere trasmessa parlando con i media, cosa che abbiamo provato a fare. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Non è un problema solo della politica italiana, è anche un problema dell’opinione pubblica che queste storie non le vuole sentire. Io li capisco, perché il carico delle responsabilità che ci mettono addosso è enorme. Ma non vi illudete, questo problema, prima o poi, toccherà tutti e prima impareremo a conoscere e capire la storia di queste persone, prima inizieremo a costruire un mondo migliore”.
Notizia del 27 maggio 2015
Lampedusa: orti e qualità della vita
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 27 maggio 2015 – La bellezza di Lampedusa, come di tanti altri luoghi, è la possibilità di guardarla da punti di vista diversi, con sguardi per niente scontati e soprattutto sorprendenti. Quello che si sa di quest’isola non è mai abbastanza e le potenzialità di questo scoglio sono immense, come il mare che la circonda. Lampedusa è metafora di vita, di cambiamento, di spostamento e di crescita, molto di più dell’immagine superficiale e strumentalizzata che ne viene data.
Oggi riscopriamo l’isola non solo per il suo splendido mare ma anche per la sua terra, di cui spesso ci si dimentica. Mediterranean Hope ha incontrato Silvia Cama, dell’associazione “Terra! Onlus”, responsabile del progetto sugli orti comunitari a Lampedusa. Questo lavoro, presentato un anno fa (https://mediterraneanhope.wordpress.com/2014/06/18/porto-lorto-a-lampedusa-un-centro-sociale-a-cielo-aperto/), è proseguito durante questi mesi con laboratori aperti alla cittadinanza per sensibilizzare e prendere confidenza con la terra, le semenze e la creazione di piccoli orti, e oggi il progetto è pronto a partire. Il comune di Lampedusa e Linosa ha fornito all’associazione un terreno pubblico proprio nel centro del paese, a disposizione dell’intera comunità e di quanti vorranno riscoprire le ricchezze che questa terra può offrire. Tra i collaboratori anche Legambiente Lampedusa e il Dipartimento di agraria dell’Università di Palermo.
La responsabile Silvia Cama ci spiega che “gli orti comunitari saranno innanzitutto un luogo di socializzazione e di scambio di esperienze con l’obiettivo di offrire un nuovo immaginario, interno ed esterno a Lampedusa, riscoprendo le potenzialità che quest’isola ha dal punto di vista sociale ed ambientale. Gli orti comunitari mirano ad essere una piattaforma di condivisione anche di tecniche agricole, per valorizzare la preziosità della terra come luogo fertile per poter autoprodurre del cibo locale e sano”. Infatti, ricordiamo come Lampedusa in antichità era a vocazione agricola ma dopo un grande evento di deforestazione si sia rivolta alla pesca e successivamente al turismo, per arrivare oggi ad essere quasi del tutto dipendente dai prodotti provenienti dal continente. Attraverso gli orti comunitari, prosegue Cama, si vuole “rilanciare la memoria ambientale dell’isola, rivalutare la qualità del suolo e le sue capacità produttive, riscoprendo anche le specie autoctone presenti”.
Il progetto è rivolto a tutta la comunità di Lampedusa, a famiglie e singoli che vogliano mettersi in gioco nella coltivazione di un orto. Ci sono però due soggetti specifici che l’associazione ha pensato di coinvolgere, gli studenti della scuola alberghiera di Lampedusa e le persone con disabilità psichiche del centro diurno. Coinvolgere gli studenti permette, racconta Cama, di “seguire l’elaborazione del cibo dalla sua coltivazione alla cura per poi arrivare alla sua trasformazione, inserendo nella cultura scolastica dell’isola la valorizzazione del prodotto locale che, oltre a finire sulle tavole, un domani potrebbe essere esportato”. L’orto diventa poi, per gli utenti del centro diurno, un’occasione importante di incontro con la cittadinanza, attraverso un lavoro che sia stimolante, attivo e anche utile, come la raccolta di rifiuti organici da utilizzare per la produzione di compost. “L’organico, tutto ciò che sembrerebbe scarto – prosegue Cama -, serve all’isola e anzi la rende fertile. L’orto, quindi, diventa un linguaggio metaforico attraverso il quale sperimentare, vivere e raccontare l’isola. Valorizzare la terra e i suoi frutti è un modo per restituire dignità, positività e fertilità a un territorio troppo spesso calpestato da un immaginario negativo. Scopo del progetto, quindi, non è l’orto in sé, l’orto diventa scusa e metafora per il raggiungimento di obiettivi sociali, ambientali e comunitari”.
Riscoprire la terra, le sue potenzialità, le semenze antiche, permette di riflettere sulla storia stessa dell’isola, sulla sua identità, sul suo presente e su un’economia che potrebbe non essere legata solo a un turismo passivo e concentrato in pochi mesi, ma destagionalizzato e orientato alla valorizzazione di tutte le ricchezze che questo luogo offre. Il progetto non sarà precostruito, ma andrà con il tempo modificandosi a seconda delle esigenze che emergeranno dall’ambiente ecologico e, soprattutto, comunitario. “Non è una scatola chiusa – spiega Cama – ma un processo permeabile alle riflessione e alla conoscenza della specificità del territorio in cui è inserito”. La responsabile racconta come la scelta di fare gli orti a Lampedusa nasca anche dall’esplicita richiesta di alcuni abitanti dell’isola “di riconquistare uno spazio di condivisione sociale e di esperienze, anche per trasformare il periodo invernale in un’occasione di crescita comunitaria, attraverso il metodo di cura e autoproduzione”. La cura dell’orto significa cura di relazioni sociali, significa coltivare la bellezza di questo luogo scoprendo anche come la natura offra uno sguardo diverso sulle cose. “L’agricoltura – prosegue Cama – garantisce l’orizzontalità dei rapporti, essendo tutti con le mani nella terra l’unica gerarchia è quella data dalla natura, dalla stagionalità, dai tempi di coltivazione e di maturazione. Tutto ciò facilita l’interscambio tra le persone, tra chi è considerato ‘sano’ e chi no, tra i lampedusani di nascita e quelli ‘acquisiti’, così si è tutti alla pari con l’obiettivo comune di far crescere qualcosa, una pianta, un frutto buono e sano”.
Ma la metafora dell’orto si apre anche all’importanza della biodiversità e della migrazione in natura, diventando ancora più significativa se si pensa a Lampedusa e alle persone che la vivono e la attraversano. “La biodiversità genera vita – dice la responsabile del progetto -, in un contesto omogeneo c’è la morte. E Lampedusa deve essere luogo di vita, di movimento. Al contrario di quello che pensiamo i semi hanno gambe, non possiamo pensare a piante immobili, nate e cresciute e poi morte e disperse in uno stesso luogo. Le piante viaggiano molto più di noi, la natura si è sempre spostata. Ci sono semi che riescono addirittura a muoversi sull’acqua, sono pollini che come delle ruote camminano sul mare e si possono trasferire da un continente all’altro”. La natura, quindi, ci insegna a vedere da un altro punto di vista le persone che si spostano, che migrano, che vanno e vengono su questo scoglio, fatto di terra e di mare.
In un momento in cui Lampedusa si prepara all’estate cercando di vivere una meritata normalità, mentre l’Europa fa di tutto per disciplinare gli spostamenti delle persone costruendo frontiere invalicabili, la riscoperta della terra diventa un mezzo per parlare di biodiversità, di comunità, di relazioni, di orizzontalità tra le persone, di interscambio, passando da risvolti pratici a metafore di vita.
Notizia del 20 maggio 2015
Europa: forte con i deboli e debole con i forti
Intervista a Fulvio Vassallo Paleologo, docente di Diritto di asilo e statuto costituzionale dello straniero, Università di Palermo
Che giudizio dà sulle proposte che l’Europa sta portando avanti in questi giorni? Nello specifico sulla decisione di distruggere i barconi in Libia e sulle quote che suddividerebbero i migranti nei diversi paesi europei?
L’Europa si sta dimostrando forte con i deboli e debole con i forti. Non è stata capace di adottare una politica europea in materia di asilo e di controllo delle frontiere. C’è stato un trasferimento dalle politiche di immigrazione alle politiche di sicurezza scavalcando il Parlamento Europeo, facendo decidere su questo argomento a pochi ministri riuniti a Bruxelles come è successo in questi giorni. Del piano complessivo varato dalla Commissione e inoltrato dal Parlamento sembra essersi persa traccia, si parla soltanto di intervento in Libia, specificando che sono tre le fasi di intervento: in acque internazionali, primo punto che sembra già deciso, poi l’intervento in acque libiche e in territorio libico per le quali si aspetta una copertura da parte delle Nazioni Unite, che forse non arriverà mai. Distruggere i barconi è un’ipotesi avventuristica che produrrebbe effetti collaterali, come l’uccisione di pescatori e forse anche di migranti che potrebbero trovarsi a bordo di questi mezzi. Purtroppo, però, a livello mediatico questa proposta di intervento ha fatto breccia, le elezioni sono vicine e qualcuno si sta gloriando di una risposta forte data dell’Europa, avvenuta su impulso italiano, cosa che non è assolutamente vera.
C’è anche molta confusione sull’aspetto dell’accoglienza, punto forte sul quale puntava la politica italiana ed europea. Alcuni Paesi dell’est hanno detto chiaramente che non intendono prendere un solo profugo in base a criteri di distribuzione. L’Europa ha proposto di fare un grande sforzo per 20.000 persone in due anni, che sarebbero state alcune centinaia per ciascun paese europeo, ma anche questo è sembrato troppo. Il piano su tale aspetto sta fallendo, a maggior ragione dopo che Francia, e successivamente Spagna, hanno dichiarato anche loro di non condividere il criterio di ripartizione dei profughi.
L’ultima parte che per ora è lasciata in secondo piano, ma che comunque è preoccupante, è il Processo di Khartoum. Questo ha come proposito da parte degli Stati europei, e dell’Italia in particolare, di utilizzare i paesi di transito, come Libia, Niger e Sudan, come partner per le politiche di respingimento e di selezione dei profughi, favorendo un mercato per quei trafficanti che a parole si vogliono combattere. Il Processo di Khartoum significa quindi fare accordi con le dittature per bloccare i movimenti dei migranti che cercano di scappare da guerre, oppressioni e carcere.
Come spiegava lei, prima di arrivare al punto di distruggere i barconi in Libia ci vorrà la decisione finale dell’Onu, ma se questa non arrivasse l’Italia come potrebbe muoversi? Se l’Onu non appoggiasse la proposta, lei come vedrebbe l’evolversi della situazione?
Se l’Onu non appoggia questa proposta, l’Unione Europea non ha strumenti legali per intervenire in acque e territorio libico, soprattutto in presenza di una posizione forte e concordante di entrambi i “governi” che attualmente si dividono la Libia. Tanto il governo di Tripoli quanto quello di Tobruk hanno fatto sapere agli europei che considererebbero un atto di guerra qualunque intrusione negli spazi che sono ancora nella loro sovranità nazionale. C’è anche da dire che se le trattative di pace non vengono sostenute e se si alimentano le spinte autonomiste fornendo armi o dando appoggio politico soltanto a una delle due parti, cosa che in base all’embargo sta continuando a succedere, il rischio che la Libia diventi un’altra Somalia nel Mediterraneo è reale. Al momento, tuttavia, non ci sono le condizioni per poter dichiarare la necessità di un intervento in base alla Carta dell’Onu. Quindi io credo che a livello di Consiglio di Sicurezza non ci sarà una decisione favorevole all’intervento militare dell’Unione Europea.
In questo quadro da lei delineato, cosa pensa degli interventi che ultimamente ha compiuto la Guardia Costiera libica per recuperare e arrestare dei migranti che stavano cercando di raggiungere l’Europa?
Tale azione evidenzia come le diverse autorità libiche cerchino di accreditarsi con i Paesi europei, dimostrando che controllano il territorio, che possono fermare i migranti che partono dalle loro coste, cercando in questo modo di ottenere risorse, finanziamenti, supporto politico rispetto alle loro pretese di prevaricare l’altra parte. Al momento non ci sono le condizioni per considerare la Libia un partner per le politiche di controllo delle frontiere. Si dovrebbe invece dare la priorità assoluta al salvataggio delle persone che fuggono, all’apertura di corridoi umanitari con la concessione di visti per l’ingresso protetto in Europa, a una tutela legale delle persone che dovrebbero essere evacuate dalla Libia verso i paesi confinanti dai quali farle poi partire verso l’Unione o altri paesi del mondo.
Come Federazione delle chiese evangeliche in Italia, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, stiamo lavorando sulla proposta di aprire un “Humanitarian Desk” a partire dal Marocco (https://mediterraneanhope.wordpress.com/2015/04/22/comunicato-stampa-stragi-del-mare/). Lei pensa che questo possa essere un segnale utile che potrebbe avere seguito?
Questo è un segnale che dimostra che è possibile creare dei canali umanitari. Ovviamente ciascun paese è diverso dall’altro. Voglio ricordare che il Marocco aderisce alla Convenzione di Ginevra, come l’Egitto o l’Algeria, ma questi sono paesi che continuano a respingere migliaia di persone che hanno tutti i requisiti per essere dichiarati rifugiati. Inoltre, molti migranti, non ambiscono più ad arrivare in Europa perché sanno che non è un continente nel quale la possibilità di sopravvivenza dignitosa è garantita, come poteva essere dieci anni fa. Oggi c’è attenzione verso i paesi del Nord America, gli Stati Uniti, il Canada e anche verso il Sud America. Si potrebbe pensare quindi a un piano delle Nazioni Unite di ridislocazione delle persone che sono state costrette a fuggire dal loro paese, verso paesi che offrono delle condizioni minime di accoglienza dignitosa, cosa che è tutta da verificare in Europa e in Italia, anche alla luce di fatti recenti come quelli di Ponte Mammolo a Roma (http://www.internazionale.it/video/2015/05/18/le-ruspe-sgomberano-ponte-mammolo).
MH sta sempre di più riflettendo sull’aspetto politico dello squilibrio tra Nord e Sud del mondo e sulle contraddizioni che questo produce nel Mediterraneo. Qual è la sua visione in questo senso?
È evidente che la crisi globale è lontana dall’essere superata. È una crisi che oggi ha bisogno della guerra per regolare i rapporti tra Stati e i rapporti sulla mobilità delle persone. Intanto è una guerra che si dichiara agli scafisti, con il rischio di avere effetti devastanti se passerà da guerra ai trafficanti a guerra nei paesi nei quali i trafficanti si trovano, senza incentivare soluzioni politiche, senza cercare il modo per garantire diritti umani nei paesi di transito, preoccupandosi soltanto di impedire le partenze.
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Notizia del 16 maggio 2015
Frontiera in movimento, Europa immobili
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 13 maggio 2015 – Oggi, mercoledì 13 maggio, viene presentato in Commissione Europea il Piano Junker sull’immigrazione. Il gran dibattito di questi giorni rimette al centro la questione dei migranti come se si fosse arrivati a una svolta decisiva sul piano internazionale. Prima di tutto, prosegue il tira e molla rispetto a come – e se – aumentare il salvataggio delle vite in mare. Sono mesi ormai che si parla di Mare Nostrum, Triton, Poseidon, Mare Sicuro. L’idea della bozza Junker sarebbe di implementare le risorse di salvataggio, ma per questo si fa riferimento a Triton, che dovrebbe quindi assomigliare sempre di più a Mare Nostrum. Primo elemento da chiarire, dato che il mandato principale dell’operazione di Frontex rimane il pattugliamento dei confini e, solo in un secondo momento, di salvataggio. Di fatto, secondo noi, questa decisione confermerebbe l’atteggiamento europeo di controllo delle frontiere, mantenendo un dispositivo di irrigidimento delle stesse e non una nuova alternativa. Intanto si legge di recuperi di migranti, o arresti, effettuati della Guardia Costiera libica, per riportarli in un territorio dove ormai è confermato che torture e stupri sono all’ordine del giorno, come appena denunciato da Amnesty International.
Passiamo quindi ad un altro punto del piano Junker, quello che prevedrebbe “missioni di sicurezza e difesa contro trafficanti e scafisti”. In parole povere, come espresso dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Federica Mogherini, si tratterebbe di un’operazione militare a tutti gli effetti per bombardare le imbarcazioni usate dai migranti per raggiungere l’Europa. Questo dovrebbe indebolire l’azione dei trafficanti – all’occorrenza schiavisti o scafisti identificati con tute bianche e tanto di scritta sulla schiena – e risolvere parte del problema. Salta all’occhio l’assurdità di tale proposta, anche se paragonata a un’operazione simile fatta contro i pirati in Somalia o contro le imbarcazioni che partivano dall’Albania. Sarebbe davvero possibile distinguere tra barche usate dai trafficanti e quelle, per esempio, dei pescatori? Inoltre, notiamo come ultimamente in mare vengano messi non i soliti barconi ma gommoni monotubolari, che richiedono facilità di costruzione e trasporto, potendo quindi partire velocemente da ogni spiaggia libica. Un’azione di distruzione delle imbarcazioni non ricadrebbe principalmente sui profughi, costretti a rimanere in un territorio che li sottopone alle peggiori violenze? E il lavoro dei trafficanti non troverebbe altre strade o prezzi sempre più alti per far fronte a una richiesta di fuga che comunque non si esaurisce? Infine, entrambi i “governi” in Libia si trovano assolutamente contrari a tale proposta, e bombardare in un territorio che vive nel caos istituzionale ma che comunque si oppone non sarebbe certo un buon segnale da parte di Unione Europea e ONU.
Altro elemento della proposta Junker, quello più discusso negli ultimi giorni, sarebbe il ricollocamento dei richiedenti asilo nei 28 paesi dell’Unione. Non sono ben chiari nei numeri di cui si parla – 20 mila? – ne i criteri per la suddivisione nei Paesi, come potrebbero essere per esempio popolazione, Pil, disoccupazione, domande di asilo già accolte precedentemente. Questo punto sembra piacere soprattutto agli Stati di “confine” che subiscono i limiti del Regolamento di Dublino, che comunque sembra non essere messo in discussione dal piano, mentre già in parecchi dichiarano di non essere favorevoli ad accettare “forzatamente” altri profughi, prima tra tutti la Gran Bretagna.
In questo clima risulta difficile leggere una vera aria di cambiamento. Continua l’atteggiamento di esternalizzazione delle frontiere e dei salvataggi, coinvolgendo nelle operazioni di ricerca e soccorso la Tunisia che prenderà profughi e finanziamenti dall’Europa, proposte militari più che politiche o umanitarie e un palleggio tra Stati che discutono di numeri e non di esseri umani. L’idea di canali umanitari che permettano vie legali per arrivare in Europa è sempre più lontana, come se il problema continuasse a nascere dalle coste libiche, e non già prima nei territori impoveriti, sfruttati, desertificati, paralizzati da guerre e persecuzioni.
La proposta Junker dovrebbe anche prevedere altri punti, da presentare a fine maggio, che tengano in considerazione la collaborazione con Paesi Terzi ed eventuali allestimenti di campi profughi nei quali fare le prime selezioni per le domande di asilo. Una proposta è quella di un centro in Niger gestito da UNHCR e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) da aprire entro il 2015. La paura di costruire luoghi di questo tipo è, secondo noi, che si finisca per creare nuove grandi tendopoli dalle quali i profughi non riescano più ad andare via, come nel campo di Choucha nel sud della Tunisia, passando la vita in una zona liminale, non a casa e non al sicuro, al limite della sopravvivenza, dove si susseguono intere generazioni che non vedranno mai altro che abusi, miseria e baracche.
Il dibattito di questi giorni fa credere che ci siano sul piatto nuove proposte risolutive, ma questa non è la nostra percezione. Vediamo un’Europa che cerca di spostare sempre di più il confine, creare luoghi lontani, dove non vedere un esodo epocale di cui è in gran parte responsabile. La questione non è evidentemente solo tecnica, giuridica, o economica ma si tratta di un grande interrogativo politico che fa sempre di più risaltare la separazione tra il Nord e il Sud del mondo, una divisione profonda, voluta e mantenuta con tutti i mezzi possibili e che si cerca di nascondere, distraendo l’opinione pubblica con numeri da emergenza, nemici costruiti e scelte militari presentate come inevitabili.
E mentre a Lampedusa i ragazzi arrivati nei giorni scorsi camminano tranquillamente per il paese e dormono in un Centro sicuramente pieno ma non certo in una situazione di collasso, mentre nei telegiornali per parlare dell’isola si mandano immagini del 2011 andando incontro a denunce che si levano proprio da queste coste, mentre prosegue il timore per una stagione turistica condizionata dall’isteria mediatica, da qui seguiremo l’evolversi degli eventi. La frontiera in movimento verso il Sud di un’Europa incapace di modificare la sua politica di immigrazione e di riflettere sui nodi di fondo che determinano questo fenomeno, non lascia presagire niente di buono.
Notizia del 6 maggio 2015
“Viaggi di sabbia”
a cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 6 maggio 2015 – Potremmo partire dall’immagine che abbiamo visto il 2 maggio per raccontare Lampedusa in questi giorni. Bambini lampedusani che giocano a calcio con quelli del quartiere Zen di Palermo durante i mondiali antirazzisti, mentre passa il bus dei migranti che si dirige verso il Centro di primo soccorso e accoglienza. Pochi secondi in cui gli sguardi di tutti noi si fermano e incrociano quelli delle persone provenienti dal mare con le quali non possiamo parlare, e che ci salutano da dietro i finestrini. Oppure potremmo raccontarla con le parole di “Picciotto Gsp”, bravissimo rapper palermitano che così descrive quanto successo sulla nave di linea il giorno dopo: “Di ritorno da Lampedusa, 250 immigrati in nave con noi controllati a vista dalle solite divise… Mali, Camerun, Nigeria, Guinea… sono giovani e paradossalmente contenti di assaporare centimetri di libertà seppur provvisoria. Uno di loro mi saluta e poggia la mano sul vetro dell’oblò, io faccio uguale, come si fa nei colloqui dietro al vetro in carcere. Ci guardiamo, mi si spacca lo stomaco… Khumani è minorenne e ha un sorriso che sa di vita, mi chiede di guardare le foto dal cellulare, ne vede una in cui canto, capisce che ho a che fare col rap e chiama subito degli amici, in un attimo siamo un centinaio, separati solo da un nastro di plastica. Improvvisiamo una jam, faccio il beatbox, poi lo fanno loro, mischiamo francese e maliano, siciliano e camerunense. Rappo ‘viaggi di sabbia’ e il plurimo ‘brucia’ del ritornello diventa un jingle a più voci cantato da tutti, anche dai ragazzi dello Zen in viaggio con noi che solidarizzano, si scambiano collane, bracciali ma soprattutto sorrisi e strette di mano. Rappiamo per mezz’ora e le divise non possono fermarci… chiudiamo con ‘el pueblo unido’. Siamo diventati un tutt’uno. Penso alla piena consapevolezza che ancora ci manca e al bisogno di umanità da salvaguardare… due binari paralleli ma che dopo tanta distanza sono destinati ad accarezzarsi… come il confine tra cielo e mare… RESTIAMO UMANI”.
L’immagine più bella che possiamo raccontarvi però è quella di vedere sbucare all’orizzonte, stupefatti, una piccola imbarcazione di persone arrivate dalla Tunisia accompagnate da alcuni delfini che entrano al porto e salutano Lampedusa, e noi che restiamo a bocca aperta. Sono queste piccole cose che ci danno l’energia necessaria per portare avanti il nostro lavoro in un’isola messa al fronte che sembra iniziare a prendere atto di essere diventata un simbolo di salvezza e liberazione.
Proprio in questi giorni, infatti, scopriamo insieme a Giacomo Sferlazzo del collettivo Askavusa che Lampedusa porta con sé un messaggio di liberazione dalla schiavitù conosciuto già in epoca antica. Non solo perché lo schiavo Anfossi, che liberatosi dalle catene turche su quest’isola inaugurò poi un santuario per la Madonna di Porto Salvo in Liguria, ma anche perché qualche centinaio di anni dopo, un altro santuario sempre dedicato alla Madonna di Lampedusa, fu fondato dagli schiavi liberi del Brasile che la riconobbero come loro protettrice. Immagini che ritornano nel presente, dalle madonne lignee, alle Bibbie e Vangeli, ai Corani e libri di preghiere che gli “schiavi moderni” che attraversano il mare lasciano sull’isola dove s’incontrano anche altre culture laiche e solidali. Ecco la potenza di questo scoglio in mezzo ad un mare che incrocia storie e popoli che si muovono da sempre, che vive l’ambivalenza di un luogo attraversato dall’umanità. Ecco, questa è l’isola senza paura che vogliamo raccontarvi. Non leggerete in queste righe il peso delle cose che abbiamo visto in questi giorni, in questi mesi, dei bagagli carichi di dolore che portano con sé le persone venute dal mare. Non leggerete dei teatrini mediatici che raccontano l’isola che non c’è, perché abbiamo capito che l’emergenza non è qui, non è su queste coste bellissime circondate dal mare spinato costruito dall’Europa indifferente. L’emergenza infatti è davanti a noi ed è dietro di noi. È davanti a noi perché continuano le politiche di sfruttamento di interi continenti, perché continuano le guerre per gas e petrolio, perché chi nasce povero e disoccupato tale rimarrà per tutta la vita. Ma l’emergenza è anche dietro di noi, è l’emergenza di un’Europa spaventata e indifferente, che costringe quest’isola a farsi carico delle sue incapacità. L’Europa, con una strage in corso, discute se salvare o meno persone in mare, centellinando i suoi mezzi, evitando completamente il tema dei corridoi umanitari e pensando che arrestando gli scafisti – che altro non sono che migranti ai quali viene messo in mano il timone in cambio di uno sconto viaggio – si possa risolvere un movimento epocale che mai l’umanità ha conosciuto per durata e consistenza. In questi giorni abbiamo visto una Lampedusa che non ha paura, che chiede verità sui troppi radar presenti su questi 20 km quadrati di isola, che vuol riprendere in mano la sua identità di luogo che vive di pesca e di turismo.
Vogliamo farci carico di tutto questo, e vorremmo che lo faceste insieme a noi. Non abbandonare Lampedusa significa anche pensare di rilanciare forme di turismo solidale che rafforzino l’identità di questo scoglio, che da sempre rappresenta il simbolo della salvezza e della liberazione.
Notizia del 29 aprile 2015
Si fa presto a dire zighinì
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Si fa presto a dire “zighinì”, uno dei piatti tipici di Eritrea, Somalia ed Etiopia, eppure a Lampedusa capita anche questo. Capita di cucinare dello zighinì per una trentina di giovani eritrei che da giorni sono approdati sull’isola. Capita di farlo per dei motivi ben precisi: per farli sentire meno soli, per lenire la paura e lo spavento che rimangono nei ricordi e sulla pelle, per cercare di superare il terrore che hanno dovuto affrontare. Ma non solo. Prepariamo lo zighinì perché questi ragazzi, tutti minorenni, da qualche giorno protestano per non dare le loro impronte digitali alle autorità, temendo di non poter andare più via da Lampedusa e dall’Italia.
Parlando con loro, la sensazione che abbiamo avuto è quella di una grandissima paura per il futuro che si apre davanti a loro, nonostante tutto il dolore e la bruttura che si lasciano alle spalle. Una paura così grande da temere di essere identificati e rimanere incastrati in un sistema di accoglienza che mostra sempre di più i suoi limiti, facendoci comprendere quanto sia difficile il ruolo della mediazione e dell’accoglienza nella logica della frontiera. Da ieri mattina, martedì 28 aprile, una trentina di questi giovani è uscita senza autorizzazione dal centro di primo soccorso e accoglienza per sistemarsi sulle scale della chiesa, nella piazza principale di Lampedusa. E lì sono restati fino alla sera, mangiando qualche bustina di cracker e biscotti. Alcuni di loro si sono fatti regalare della colla e se la sono messa sulle dita per evitare di dover dare le impronte, raccontandoci come, per molti, l’Italia sia solo uno dei tanti passaggi per arrivare ad altre mete, in altri luoghi per ricongiungersi con amici e partenti. Questa mattina molti di loro hanno finalmente lasciato l’isola accompagnati con la nave di linea, mentre rimangono al centro un’altra decina di persone.
Questi ragazzi, con la loro piccola e pacifica protesta, una cosa ce l’hanno insegnata chiaramente. Con semplicità ci hanno fatto capire come gli accordi di Dublino siano un’ulteriore barriera per chi ha fatto un lungo viaggio, per chi sa che una volta sopravvissuti anche al mare il peggio è passato, ma che le insidie e i pericoli non sono finiti. I molti governanti che si esercitano da mesi nello sport dei “buchi nell’acqua” rispetto al tema delle migrazioni, dovrebbero venire qui, a Lampedusa, e fare quello che facciamo noi insieme ai lampedusani: vedere gli sguardi di queste persone, la loro pelle segnata, la loro stanchezza ma anche la loro forza di volontà, e poi decidere. Dovrebbero venire quando approdano stremati al molo Favaloro, quando si arrangiano per dormire in un centro con un numero limitato di posti, dovrebbero cucinare lo zighinì per ognuno di questi ragazzi per capire cosa sia per loro ritrovarsi in questa situazione. Ma dovrebbero anche unirsi a tutti i lampedusani e le lampedusane che offrono il loro tempo e la loro spontanea solidarietà distribuendo vestiti, cibo, giochi; ai commercianti che non si scompongono se le persone acquistano frutta nei loro negozi o si siedono ai tavolini dei bar. Dovrebbero invece rispondere loro a tutti quei giornalisti che fanno domande superficiali e invadenti a una popolazione che vorrebbe vivere di normalità, dovrebbero vedere con i loro occhi “l’invasione”, non di migranti ma dei media pronti a spettacolarizzare ciò che non esiste.
E mentre scriviamo queste righe alcuni minori sono ancora sull’isola, incerti su quale sia il loro futuro e all’interno di un meccanismo di accoglienza che dovrebbe tutelarli e invece li lascia in sospeso. Vorremmo quindi condividere alcune riflessioni che un gruppo di attivisti e professionisti, tra cui l’avvocata specializzata in diritti umani e immigrazione Alessandra Ballerini, stanno maturando in queste ore denunciando con un esposto la condizione che questi ragazzi vivono nei centri di Lampedusa e Pozzallo: “quanto avviene ancora oggi nei centri di prima accoglienza e soccorso, quando il trattenimento amministrativo si protrae oltre le 96 ore, magari allo scopo di ottenere il prelievo delle impronte digitali, corrisponde ad una eclatante violazione dell’art. 13 della Costituzione italiana e delle norme che regolano in Italia il trattenimento amministrativo. […] Il Centro di Soccorso e Prima Accoglienza deve, come vuole il nome stesso, essere destinato a prestare soccorso alle persone sbarcate dopo operazioni di soccorso, per poi procedere ad un loro veloce trasferimento verso altri centri a seconda delle esigenze e della posizione giuridica dei singoli individui. […] Si ricorda come il diritto internazionale dei diritti umani tuteli l’inviolabilità della libertà personale; queste situazioni, invece, contraddicono il principio in esame, sostanziandosi in un regime di detenzione amministrativa attuata al di fuori di qualsiasi presupposto giuridico”.
Nel 2014 il trattamento che è stato riservato nello specifico per i minori non accompagnati è stato ai limiti della vergogna. Non vogliamo che continui così.
Notizia del 22 aprile 2015
Perché vi diciamo di venire in vacanza a Lampedusa
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 22 aprile 2015 – Perché vi diciamo di venire in vacanza a Lampedusa? Perché qui, in questi giorni, abbiamo visto qualcosa che non trovavamo da tempo: una città senza paura. Certo, i lampedusani non sono differenti dal resto dell’Italia, stesse ansie del futuro e stessa voglia di superare momenti difficili. C’è però un aspetto che ci piace sottolineare, qui, in questi giorni, la barriera tra il “noi” e il “loro” si è ridotta e le persone venute dal mare hanno vissuto gli stessi spazi pubblici di tutti, hanno acquistato prodotti dai fruttivendoli, nei bar, hanno giocato a calcio con altri giovani nella piazza del paese. Nessuna emergenza, i migranti sono arrivati stremati ed ora stanno ripartendo verso l’Italia, giorno dopo giorno, con le loro storie. Non vogliamo dare l’immagine dell’isola “paradiso dell’accoglienza”, come spesso è stato fatto, è innegabile che questi eventi possano intimorire la popolazione in vista della stagione turistica, ma ci piace raccontare queste belle giornate di un’isola meticcia. Seppur si viva sempre in una situazione di fragile equilibrio.
C’è sempre una forma di consapevolezza diffusa ad ogni arrivo dei profughi sull’isola, una lucidità rara che a volte spiazza anche noi. Troppe cose hanno visto gli abitanti di Lampedusa in questi decenni e in molti non si fidano di Stati e Governi che hanno utilizzato l’isola come un palcoscenico, lasciando irrisolti i problemi di sempre. Lampedusa messa al fronte, però, sta dando in questi giorni una lezione a tutto il resto del paese, in particolar modo la sta dando a chi ha paura di accogliere uomini, donne e bambini nelle proprie strutture pubbliche pur avendo molti meno problemi e molte più risorse.
Non ci è dato sapere se e come questo particolare equilibrio continuerà, ma è indubbio che questo sia un luogo da vedere, da assaporare. Sono molte le cose che ti rimangono dentro per il resto della vita, gli sguardi, il sole sulla pelle e il vento sulla faccia, il mare luccicante, le cale più famose e quelle più timide, gli odori. Quest’isola è da scoprire perché qui oggi passa una storia che nel resto del mondo non si riesce a vedere, e nonostante i giornalisti troppo spesso cerchino di costruire l’emergenza, la realtà è un’altra: Lampedusa vuole continuare a vivere di pesca e di turismo, vuole essere un’isola di pace e non una base militare in un Mediterraneo di guerra, vuole essere un luogo di giustizia e di bellezza. E per ricordare tutte queste cose l’isola si prepara a una giornata di festa il 1° maggio, un momento ricco di iniziative ed eventi rivolti a tutti (https://1maggioalampedusa.wordpress.com/).
Nonostante Lampedusa sia stanca di reggere il peso di questo mondo terribile, non cede. E noi, che con Mediterranean Hope stiamo per crocettare sul calendario il primo anno di presenza sull’isola, continueremo a sostenerla e a raccontarla, offrendo lo sguardo di chi sta vivendo qui tutte le stagioni, condivide quotidianità, tensioni e gioie.
In questi giorni molti ci contattano per sapere in che modo si possa dare una mano, contribuire, aiutare. Noi rispondiamo di incominciare sostenendo l’isola e la sua comunità. Perché se si impara a conoscerla oltre le semplificazioni mediatiche, se si impara a rispettarla e ascoltarla, staranno meglio i lampedusani così come tutti coloro che si troveranno a passare da questo scoglio nel cuore del Mediterraneo.
Venite a Lampedusa allora, promuovetela in giro, mandateci i vostri genitori e parenti in vacanza, consigliatela, e non solo perché è bella e ha spiagge stupende ma anche perché questo luogo pulsa di umanità ed è un esempio per tutto il paese (http://www.askavusa.com/progetti/io-vado-a-lampedusa/).
Notizia del 15 aprile 2015
E adesso basta!
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 15 aprile 2015 – La stampa e i media lo comunicano ampiamente e i nostri occhi lo vedono direttamente che da qualche giorno gli arrivi di migranti hanno ricominciato ad essere numerosi e frequenti. Più di 8000 in pochi giorni arrivati sulle coste italiane. Lunedì la notizia di un gommone che si è rovesciato al largo della Libia, causando 9 morti e da poche ore, purtroppo, la comunicazione di una nuova tragedia di portata enorme, 400 morti per un barcone affondato 24 ore dopo essere partito dalle coste libiche, la maggior parte giovani e probabilmente minori.
Due sono le cose che ci saltano subito all’attenzione, la prima è che dopo l’effetto tappo dovuto al maltempo del mese di marzo le partenze dalla Libia sono ricominciate in maniera consistente appena le condizioni metereologiche sono migliorate, la seconda è che i morti di questi primi mesi sono molti di più del 2014. L’Alto commissariato ONU per i rifugiati dichiara, infatti, che dall’inizio del 2015 ci sarebbe un numero di vittime significativamente maggiore rispetto allo scorso anno, parliamo di quasi 1000 morti, circa 20 invece nello stesso periodo un anno fa. C’è anche da vedere se l’effetto tappo sia stato dovuto solo al maltempo o se le forze in gioco in Libia non continuino a usare le persone come elemento di negoziazione politica e di guadagno.
Ci aspetta insomma una lunga primavera ed estate, in cui le tragedie, i morti e i numeri saranno strumentalizzati da media e politici che si accuseranno a vicenda cercando di liberarsi da ogni responsabilità. La Guardia Costiera italiana non può continuare ad affrontare da sola questo flusso e Triton è palesemente inadeguato a evitare le morti in mare, come del resto, seppur con numeri minori, lo era Mare Nostrum. Le strategie di “riduzione del danno” rispetto alle tragedie in mare, infatti, non possono essere affidate al tecnicismo dei salvataggi, ma vanno affrontate necessariamente dal punto di vista politico. Il dibattito sul potenziamento o meno del soccorso in mare sembra essere l’unico su cui ci si concentra, nascondendo l’atteggiamento di fondo che l’Italia e l’Europa stanno mettendo in pratica in modo “creativo” da molti mesi, cioè il salvare senza accogliere. Proprio in questi giorni, infatti, abbiamo visto per la prima volta operare la Guardia Costiera tunisina che ha recuperato circa cento profughi provenienti dalla Libia per poi portarli in Tunisia, così come era stato annunciato nelle scorse settimane dal ministro degli Interni Alfano. Chiamano questa operazione “Mare Sicuro”, una vera e propria operazione di esternalizzazione dei soccorsi che dovrebbe – così si legge nei comunicati stampa – funzionare da deterrente rispetto alle partenze dalla Libia ed evitare le tragedie in mare. Ma che fine fanno i migranti portati in Tunisia? Troveranno altre rotte, ancora più rischiose, ma di certo non si fermeranno.
Questo ci pare, in fin dei conti, l’aspetto più interessante da segnalare, ovvero che la frontiera mobile del Mediterraneo ricomincia a spostarsi e a modificarsi, portando ancora una volta le tragedie e le responsabilità lontano dai nostri teleschermi. Ci sono stati, e ci saranno, ancora morti, ma queste tragedie sembrano aver abituato i nostri occhi e le nostre coscienze, quasi da poter affermare che la “banalità del male” ha preso il sopravvento.
In Libia la situazione dei profughi subsahariani è tremenda, altrettanto lo è in molti paesi della zona del Mediterraneo. Basti semplicemente pensare a cosa sia la metafora del campo di Yarmouk, dove i profughi palestinesi sono costretti a dover scappare nuovamente per effetto della guerra siriana. Nessuno, o quasi, accenna più ai corridoi umanitari, tutti parlano di emergenza ma nessuno vuole affrontare veramente questo tema. Come sostengono ormai da mesi vari osservatori, tra cui anche noi, va convocata una riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e va costruito un piano di accoglienza globale nel quale ogni Stato che aderisce alla Carta dei Diritti dell’Uomo faccia la sua parte. Non capiamo perché il Consiglio di Sicurezza si convochi solo per discutere di guerre umanitarie e non per costruire risposte globali di fronte a tragedie come queste. Se vogliamo salvare queste persone ed evitare altri morti in mare, allora facciamo diventare scialuppe di salvataggio le ambasciate di tutte le Nazioni che hanno aderito alla Carta dei Diritti dell’Uomo, eviteremmo le tragedie oltre che togliere un sacco di profitti alla criminalità.
E mentre queste giornate primaverili vedranno arrivare ancora persone sulle nostre coste, da Lampedusa si leva una voce forte e chiara, che avrà il suo culmine nella giornata del 1 maggio, contro le strumentalizzazioni, le guerre e le violenze, per un Mediterraneo di pace, bellezza e giustizia. Lampedusa organizza, come si legge nel comunicato stampa, “una giornata di musica, dialogo, lotta e proposte politiche, per ribadire la necessità di affrontare la questione delle migrazioni alla radice, dalle cause che spingono migliaia di persone a lasciare il proprio paese. Per ribadire la necessità di porre fine agli interventi militari. Per ribadire la volontà dei lampedusani di volere vivere di pesca e turismo in un’isola di pace, dialogo e bellezza senza ritrovarsi ciclicamente in ‘emergenze’ volute e provocate” (https://1maggioalampedusa.wordpress.com/). Questo non è poco, in una nazione in cui le regioni più ricche del Nord chiudono all’accoglienza lasciando in Sicilia e a Lampedusa i centri pieni di un’umanità sofferente, impoverita dalla guerra e dallo sfruttamento.
Notizia del 1° aprile 2015
Dopo Tunisi, cosa ci aspetta?
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 1 aprile 2015 – Tunisi ci accoglie con vento e pioggia incessante nelle giornate del Social Forum Mondiale (24-28 marzo), ma anche con estrema cordialità da parte dei suoi cittadini che ci rivolgono il loro benvenuto ogni volta che li incontriamo per strada. Abbiamo girato per le vie di Tunisi con tranquillità e non abbiamo sentito la paura, come ad esempio si percepisce in molte città italiane.
Il sentimento prevalente era quello di una unità tra la popolazione, accompagnato da una determinazione ad andare avanti per continuare a percorrere la strada della democrazia. Non sarà semplice questo cammino, la crisi economica alla quale si aggiunge la crisi del settore del turismo, registrata dopo l’attentato al Museo del Bardo, è un ostacolo vero che getta pesanti incognite sul futuro del paese. Ostacolo che la nascente società civile tunisina dovrà affrontare con coraggio, tra il terrorismo che si alimenta della crisi e una svolta autoritaria che, come dimostra la storia delle giovani democrazie, comunque rimane dietro l’angolo. Per questo era giusto andare al Social Forum, esserci e manifestare a Tunisi per dare un messaggio di vicinanza e sostegno a un paese pieno di giovani che hanno voglia di costruirvi il loro futuro, di viverci invece che essere costretti ad emigrare verso nord come avveniva prima della rivoluzione.
Questa composizione giovanile ha attraversato anche il Forum, che si teneva presso l’Università di Tunisi, e ha contribuito a rendere evidente lo scarto tra i “brizzolati” delle classiche organizzazioni che intervenivano nei workshop e questi ragazzi e ragazze che si nutrivano di informazioni, chiedevano interessati e ci intervistavano. Una dialettica che è esplosa anche visivamente quando un centinaio di giovani tunisini che lavoravano nel Social Forum hanno bloccato l’ingresso dell’Università per protestare per il mancato compenso che gli spettava. Se questo incontro mondiale ha avuto il merito di costruire una vicinanza con questa composizione sociale e di riposizionare la questione mediterranea al centro della politica, ci sentiamo però di dire che secondo noi questa forma organizzativa così com’è pare essere arrivata a un punto di non ritorno.
Crediamo questo non solo per il livello di disorganizzazione registrato ma anche, e soprattutto, per la genericità delle argomentazioni che abbiamo sentito nei seminari e che difficilmente ci sono sembrati andare in profondità alle questioni importanti che intendevano denunciare. Ci chiediamo se abbia davvero ancora senso spendere così tanti soldi ed energie per appuntamenti che ormai da più di un decennio mettono insieme le stesse persone, le stesse associazioni e pure gli stessi slogan senza produrre proposte significative e realizzabili. Abbiamo dovuto assistere, ad esempio, a risse e scontri anche pesanti sulla questione del Saharawi, tra associazioni algerine e marocchine che non volevano che l’argomento dell’indipendenza della regione venisse affrontato.
Sulla questione migratoria, invece, le discussioni hanno avuto almeno il merito di far emergere per la prima volta il tema degli scomparsi nel Mar Mediterraneo, cercando di mettere in rete le famiglie dei nuovi “desaparecidos” per chiedere di attivare delle indagini ai governi europei che fino ad ora non hanno voluto assumersi nessuna responsabilità. Ci ha molto colpito la forza e la determinazione di queste mamme tunisine che chiedono risposte su quanto accaduto ai loro figli, una richiesta importante perché il pellegrinaggio di queste donne nei vari centri di identificazione ed espulsione nel vecchio continente, permette di comprendere quale sia il sistema di controllo dei migranti in Italia e come sia percepito oltre il confine.
La discussione sul confine, la sua articolazione, il modo con il quale l’Europa ne costruisce la sua esternalizzazione è stato un punto fondamentale di dibattito nei vari workshop che abbiamo seguito, nei quali si è cercato di comprendere e di spiegare come l’intreccio tra esternalizzazione delle frontiere, accordi economici e militari siano profondamente intrecciati l’un l’altro. Frontex, processo di Khartoum, accordi bilaterali tra Stati che emergono proprio sulla base di questo schema e che hanno reso evidente come il nostro paese si muova in Nigeria come in Libia, e perfino in Tunisia.
Ed è proprio in questo Forum che abbiamo trovato la conferma di come l’Italia, in accordo con l’Europa, si stia muovendo per affrontare con un nuovo approccio la questione migratoria. Per quanto abbiamo potuto direttamente constatare, la Tunisia si candiderebbe a diventare al posto dell’Italia lo Stato che salva i migranti in mare per poi, così dicono le nostre fonti, riportarli in Africa nei grandi campi di accoglienza. In questo modo si ridurranno i morti in mare e l’Italia non dovrà avere il peso di accogliere profughi e richiedenti asilo direttamente. I migranti saranno concentrati nei campi in attesa che le loro domande di asilo siano accolte e chi intende arrivare per trovare un futuro migliore dovrà prendere altre strade e altre rotte, sempre più difficili e pericolose. I migranti del campo tunisino che protestavano anche contro UNHCR e i governi erano la dimostrazione tangibile di un futuro prossimo denso di preoccupazioni. In questo quadro noi abbiamo provato ad illustrare la proposta sulla quale stiamo lavorando, cioè di coinvolgere le ambasciate italiane per concedere i visti di protezione umanitaria.
Da Tunisi ci pare che l’Europa, anziché porre sul piano globale un ragionamento sulla responsabilità comune di tutti gli Stati aderenti alla Carta delle Nazioni Unite per aprire un percorso di protezione umanitaria gestita a livello internazionale, cerchi ancora una volta di affrontare le sue responsabilità – basti pensare a cosa sia successo dopo la guerra in Libia – affidando il lavoro di guardiani delle proprie frontiere ad altre nazioni, che avranno così finanziamenti, formazione, accordi e armamenti adeguati al proprio ruolo.
INTERVISTA del 25 marzo
Mediterranean Hope: Lo sguardo di Tunisi
a cura di Gaëlle Courtens
Roma (NEV), 25 marzo 2015 – L’attentato dell’ISIS al museo del Bardo di Tunisi dello scorso 18 marzo non ha impedito agli operatori del progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) “Mediterranean Hope” (MH), Marta Bernardini e Francesco Piobbicchi, di recarsi al XIII Social Forum Mondiale (SFM2015) apertosi ieri con una marcia contro il terrorismo. La capitale tunisina ospita per la seconda volta, dopo l’edizione del 2013, il grande incontro altermondialista che riunisce più di 4300 ONG e associazioni di 120 paesi intenzionate a elaborare alternative all’economia mondiale e a discutere di giustizia sociale, mutamento climatico, disuguaglianze nord-sud, migrazioni. Il SFM2015 assume un significato particolare in quella che è la culla delle “primavere arabe” e unico Stato arabo-musulmano a essere riuscito a creare una pur fragile democrazia dopo la rivoluzione del 2011. Oltre un migliaio le attività previste tra seminari, conferenze e dibattiti per l’appuntamento che si svolge tra il 24 e il 28 marzo con lo slogan “Dignità e diritti”.
Marta Bernardini e Francesco Piobbichi sono da dieci mesi impegnati alle porte del Nordafrica sull’isola di Lampedusa, dove curano l’osservatorio per le migrazioni di MH. Con questa intervista, la loro rubrica settimanale “Lo sguardo di Lampedusa” per questa volta diventa “Lo sguardo di Tunisi”.
Il Social Forum Mondiale nasce nel 2001 a Porto Alegre in Brasile con il motto “Un altro mondo è possibile!”. E’ ancora attuale?
Non saremmo qui a incontrare tutte queste persone, arrivate da tutto il mondo per proporre alternative economiche, politiche, sociali per un mondo migliore. Sicuramente vedere in questi giorni tanti gruppi e associazioni lavorare per un altro modello di società globale, dà speranza. Si respira un’aria di grandi e nuove possibilità. Abbiamo avuto una bellissima accoglienza. Malgrado l’attentato della scorsa settimana, le tunisine e i tunisini mostrano grande entusiasmo per il SFM2015. C’è da dire che da parte delle delegazioni è arrivato un forte segnale di solidarietà e fiducia al popolo tunisino: tutte, dopo l’attentato, hanno confermato la loro partecipazione. La manifestazione di apertura del SFM2015, nonostante la pioggia battente, ha visto decine di migliaia di attivisti, donne, giovani, famiglie marciare contro il terrorismo e contro ogni forma di estremismo religioso. Certo, quando il corteo si è fermato davanti al Museo del Bardo, c’è stato un momento di forte intensità. Quel che possiamo osservare in questi giorni da parte dei tunisini è sicuramente un segnale positivo di partecipazione e di voglia di democrazia. Visto da qui, sì, un altro mondo è possibile.
Qual è il senso della partecipazione di MH a questo evento?
MH si occupa di comprendere cosa accade al di qua e al di là delle frontiere. Essere qui in questi giorni significa allargare la rete di relazioni e contatti con gruppi che da anni hanno esperienza in tema di migrazioni. Significa lanciare ponti, scambiare idee, pensando anche di proporre insieme ad altri gruppi delle alternative alle politiche migratorie dei nostri governi. Concretamente prendiamo parte a un workshop dal titolo “Alternative mediterranee” incentrato sul diritto di asilo e dei migranti. Inoltre, insieme a Libera, collaboriamo a un seminario sul traffico di esseri umani. Come MH, che gestisce anche la “Casa delle culture” di Scicli (RG) accogliendo migranti particolarmente vulnerabili, abbiamo anche un’esperienza concreta di cui riferire. Non solo scambio di informazioni quindi, ma anche scambio di “buone pratiche”. E poi, naturalmente, seguiremo dibattiti intorno ai temi dei diritti, dello sviluppo sociale, delle frontiere.
Relativamente a queste tematiche quale può o deve essere l’apporto delle chiese?
Crediamo che i temi che verranno proposti in questi giorni siano molto importanti non solo per gli “addetti ai lavori”, ma anche per la riflessione delle chiese, e in generale per le comunità di fede. Le tematiche qui dibattute permeano la vita degli stessi credenti. Questo tipo di riflessione deve sicuramente andare oltre i confini di Tunisi e dell’Italia, ma anche oltre i confini del discorso politico o socio-economico: non c’è dubbio che riguardano anche le realtà religiose che si devono interrogare e cercare il loro modo di sensibilizzare i credenti delle proprie comunità sui temi della giustizia e della pace, contro ogni forma di fondamentalismo. Una voce a questo SFM2015 come quella della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, è un segno importante di appoggio e presenza.
Notizia del 18 marzo 2015
Dalla Sicilia alla Tunisia
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 18 marzo 2015 – Una complessità che necessita di una cornice superiore per trovare un punto di sintesi, questa è la sensazione che abbiamo provato ieri e oggi sentendo gli interventi che si sono susseguiti al convegno di Mediterranean Hope a Scicli, dal titolo “Cosa ci insegna il Mediterraneo”. Tra le sponde di questo mare divenuto frontiera mobile negli ultimi decenni, si sommano ogni giorno innumerevoli contraddizioni politiche, economiche e culturali che attraversano questo spazio, integrandosi o scontrandosi, spinte da una modernità che velocizza i tempi degli eventi come mai è avvenuto nella storia dell’umanità. Se emerge un tema comune negli interventi di questo convegno, è senza dubbio il bisogno di ritrovare una visione a lungo termine, per uscire dal vortice dell’emergenza che cerca costantemente di costruire un confine culturale inattraversabile tra “noi” e “loro”. Le culture, però, non sono fisse nella storia, sono in perenne mutamento in quanto prodotto umano e le categorizzazioni servono a poco per comprendere il fenomeno migratorio in profondità.
Oltre a una visione a lungo termine, allora, occorre lavorare sulle sfumature, sugli attraversamenti, sul viaggio come metafora del cambiamento soggettivo e del contesto stesso.
Se c’è una cosa, quindi, che ci insegna il Mediterraneo è che l’umanità tutta si trova oggi di fronte ad un fenomeno epocale dentro il quale milioni di persone, nei prossimi decenni, lasceranno la propria terra. Che questo sia dovuto al susseguirsi delle guerre che dalla Jugoslavia in poi, sino alla Siria, hanno tracciato nuove mappe e nuove rotte di fuga, o per l’aumento della popolazione giovanile disoccupata, poco importa. Di certo non è Mare Nostrum la causa dell’acuirsi delle migrazioni ma sono, invece, cause strutturali con profonde radici nella storia.
No, non è semplice trovare una via maestra per affrontare gli anni che verranno, anche perché la crisi economica che vive l’Europa cambia il volto delle migrazioni, i flussi, le loro composizioni e riporta il vecchio continente indietro nella storia. Le ultime notizie che sentiamo sono che i governi europei, cancellato Mare Nostrum, cercheranno prima di stabilizzare la Libia e poi, sempre che questo riesca, di spostare a sud la frontiera, dialogando pragmaticamente con tutti gli Stati, anche con le dittature. L’Italia, che è in mezzo a queste due sponde, assorbirà le contraddizioni maggiori cercando di gestire la vicenda con interpretazioni differenti, come del resto spesso è avvenuto in questi mesi. Salviamo i profughi ma abbiamo un sistema di accoglienza che da decenni è incapace di programmazione e che molto spesso toglie la dignità alle persone che lo attraversano. Un sistema dove non mancano le speculazioni. L’Europa stessa, che ci condanna perché non accogliamo con dignità i profughi, non è capace di riconoscere a loro la libertà di movimento, rinchiudendoli nella gabbia del trattato di Dublino. Ma il vero limite della politica europea consiste nel rinviare una discussione seria rispetto all’apertura dei canali umanitari, nell’incapacità di porre il tema del diritto di asilo dei profughi e richiedenti asilo in una cornice globale.
Scendere a Lampedusa dopo queste giornate di approfondimento, per poi andare al Forum sociale di Tunisi, ci sembra un viaggio doveroso da fare, una tappa di un percorso che non si ferma al presente ma cerca di andare a fondo, riflettendo sulle cause e le conseguenze delle migrazioni. Un percorso da fare anche per smontare simbolicamente il palcoscenico dell’emergenza, per ridare all’isola di Lampedusa e ai suoi abitanti la voce che non hanno mai avuto.
Per la prima volta, a Tunisi, avremo modo di parlare in uno spazio pubblico aperto, dove contano più i processi in atto che le categorie. Incontreremo attivisti e associazioni della sponda sud del Mediterraneo per cercare di trovare un linguaggio comune oltre alle giuste risposte da costruire insieme.
Notizia dell’11 marzo 2015
Per i profughi occorre una risposta globale
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 11 marzo 2015 – Seguendo le notizie degli ultimi giorni, a noi sembra che ci sia una novità all’interno della discussione sul tema delle migrazioni. Questo potrebbe dipendere dalla consapevolezza, che inizia a diffondersi nell’opinione pubblica, di trovarsi di fronte ad un fatto epocale le cui dimensioni possono essere affrontate solo all’interno di un’azione globale. In questa direzione vanno segnalate le dichiarazioni di Federica Mogherini al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che sembrano collocare la riflessione sulla questione migratoria in un quadro politico complessivo. Questa appare come una novità di cui prendere atto. Nel suo discorso, Mogherini ha sostenuto che affrontare la questione dei migranti che sbarcano a migliaia sulle coste dell’Unione Europea per fuggire a guerra, terrore e povertà, non è un compito che può riguardare soltanto l’Europa
In questa affermazione, espressa in un luogo come il Consiglio di sicurezza dell’ONU, si evidenziano due elementi. Il primo, quello che tutti conosciamo, è la difficoltà politica dell’Europa ad affrontare il fenomeno di centinaia di migliaia di profughi e richiedenti asilo che arrivano ai confini della “fortezza”. Il secondo, è che questo elemento costringe la classe politica ad accettare una sfida complessa dentro la quale entrano in gioco molte questioni, non semplicemente tecniche o regolamentari ma primariamente politiche.
Proprio da Lampedusa, sulle cui spalle la politica ha caricato tutto il peso dell’accoglienza e delle sue contraddizioni, stiamo comprendendo come questo fenomeno necessiterebbe di essere affrontato diversamente da come è avvenuto fino ad oggi. Prima di tutto risulta necessario portarlo al di fuori del palcoscenico mediatico dell’invasione per assumerlo nella sua complessità. Il discorso dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’UE Mogherini sembra quindi spostare la questione su un terreno prettamente politico, sollevando una riflessione non solo sulle cause e le motivazioni che spingono le persone a partire, ma anche su quali prospettive abbiano per il loro futuro. Cambiamenti climatici, guerre e destabilizzazione di interi continenti, ruolo di istituti come il Fondo monetario internazionale, rapporti economici tra stati ricchi e poveri, sono fattori sociali oggettivi alla base del fenomeno migratorio che l’intero pianeta sta vivendo. Le decine di migliaia di persone che sono morte in mare, le altre che sono ammassate in campi profughi che crescono a dismisura in Africa e Medio Oriente, e tutte le altre che sono in movimento, determinano un fattore politico di primaria grandezza che ci obbliga a ricercare una cornice globale nel quale affrontarlo. Non sembra quindi un caso che Mogherini abbia detto al Consiglio di sicurezza dell’ONU che l’Europa da sola non possa sostenere questo fenomeno epocale.
Dare atto a questa posizione non significa certo, per noi, giustificare un’Europa che deve comunque assumersi le sue responsabilità; riteniamo che proprio la vicenda libica faccia emergere l’importanza del diritto soggettivo di ogni essere umano di poter chiedere asilo in questo pianeta. Lavorare per una proposta che preveda la costruzione immediata di un piano globale per la protezione dei profughi che sono in Libia, nel quale ogni nazione che aderisce alla Carta dei diritti dell’ONU faccia la sua parte, accogliendoli attraverso uno dei più grandi corridoi umanitari che la storia abbia mai conosciuto, ci appare sempre di più una via necessaria. È indubbio che questa sia una proposta di enorme portata, ma è sempre più evidente che nei prossimi anni ci saranno milioni di persone a mettersi in cammino, spostandosi per lo più da un paese africano o medio orientale all’altro – la maggior parte dei profughi infatti, non arriva in Europa, ma si sposta nel paese vicino al proprio in attesa di poter far rientro un giorno nella propria terra.
Estendendo la riflessione su un piano politico globale, anche le associazioni e i movimenti impegnati in questo ambito potrebbero iniziare a pensare a tale proposta. Si potrebbe cominciare chiedendo la convocazione di un Consiglio di sicurezza dell’ONU allargato a tutta la società civile.
Notizia del 4 marzo 2015
“Caro Presidente Mattarella, sono il capitano del GSD Lampedusa calcio…”
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 4 marzo 2015 – Il campo è di quelli di periferia e questa storia che vi raccontiamo è una bella storia. È una storia particolare, di un campo di calcio polveroso dove se cadi ti sbucci le ginocchia. È particolare non solo perché è a Lampedusa e vicino al molo Favaloro dove i migranti approdano. Lo è perché questo campo è stato fatto dai lampedusani che si sono rimboccati le maniche da soli, e in modo autorganizzato hanno ricostruito le reti, rimesso a posto le porte e permesso ai loro giovani di sentirsi meno “isolati”.
Oggi il GSD Lampedusa è terzo nel campionato allievi e potrebbe anche provare ad arrivare primo. Qualche settimana fa, dopo un’altra tragedia in mare, il capitano della squadra, Christian Cucina, ha scritto una bellissima lettera al Presidente della Repubblica. Una lettera che dovrebbe essere letta e ascoltata, perché se c’è un luogo in questo paese che non deve essere confinato nell’indifferenza questo è senza dubbio Lampedusa.
Caro Presidente della Repubblica,
sono il capitano. Il capitano di una scuola calcio di Lampedusa, la G.S.D. LAMPEDUSA.
Mi rivolgo a lei perché oggi, come in altre occasioni, siamo catapultati sullo scenario sportivo in contrasto alle tragedie a cui noi assistiamo, purtroppo, troppo spesso. Di fronte a tanti morti rimaniamo tutti sconvolti e le nostre problematiche diventano nulla a confronto.
Più volte avremmo voluto rivolgerci a lei per sottoporre i problemi di noi giovani lampedusani sportivi e non, ma abbiamo sempre abbassato la mano, perché davanti alla interminabile sequenza di morti, noi e i nostri problemi, rimaniamo nell’ombra.
Oggi però alzo la mano e vorrei parlare, credo, a nome di tutte le centinaia di bambini e bambine, ragazzi e ragazze che affrontano nel quotidiano l’emergenza di volere vivere una vita uguale a quella di amici incontrati nelle varie esperienze sportive che i nostri dirigenti ci hanno fatto e ci faranno continuare a vivere. Abbiamo visto mega strutture sportive in erba sintetica, palestre coperte con tribunette, campi di basket all’aperto, teatri, centri sociali, ecc. Da circa dieci anni frequento questa scuola calcio e ho ricevuto rimproveri ed elogi, affetto e condivisione delle problematiche, sentendo troppo spesso i nostri dirigenti che si dannano perché ci sono sempre problemi di soldi per potere andare a giocare ed il rischio di non poter partire per la prossima gara.
Già, fra il dire e il fare per noi ci sta sempre, davvero, il mare.
Presidente, lei è isolano come noi e più di altri può capire meglio il significato di isolano. Ogni anno per noi partecipare ad un campionato è una battaglia, finirlo è una vittoria.
Quest’anno è stato bellissimo, perché abbiamo giocato nel nostro bellissimo, brullo, polveroso, fangoso, senza tribune, STADIO, con la visita di squadre provenienti dalla Sicilia. Nuovi incontri, nuove amicizie, sempre calci a prenderli e darli. Ogni gara è una finale di coppa del mondo che ci spinge ad andare avanti e seguire ancor di più i consigli che i nostri stupendi dirigenti ci indicano nel quotidiano.
Abbiamo tantissimo bisogno di NORMALITÀ. Non so il costo, ma ce ne serve tanta.
Normalità sarebbero tante cose, che so la nave che arriva sempre, il costo dell’aereo basso, un ospedale, una scuola normale, una bella palestra. I nostri dirigenti è da tre anni che ci parlano di volere realizzare una struttura (un pallone); quando chiediamo come mai non si è ancora fatta, ci sentiamo dire “LA BUROCRAZIA NON VUOLE”.
Quando vedo, per ora, in giro per le vie del mio bellissimo paese questi giovani dai denti bianchissimi e dal volto nero, con dei lineamenti puliti, negli occhi lo sguardo triste e rassegnato, mi chiedo: “ma chi glielo fa fare, mettere a rischio la vita per arrivare qui?”. Se un giorno l’Africa divenisse la prima potenza economica mondiale ed a Lampedusa non ci fosse lavoro, non mi arrischierei a mettermi su un gommone per raggiungere l’Africa, perché conosco il mare. Il mare esige rispetto ed io ho paura.
Presidente, la venuta del Papa per noi è stato un momento meraviglioso e ci ha lasciato un bel ricordo, anche se ci hanno distrutto il campo di calcio. Noi la invitiamo a venirci a trovare per condividere con lei i momenti del nostro vivere quotidiano. Questa volta però la incontreremo in un altro posto, ma non al campo, non si sa mai! I dirigenti hanno fatto salti mortali per rimetterlo in sesto alla bene e meglio. Ce lo teniamo stretto.
Grazie per tutto quello che potrà e vorrà fare per noi, perché in Sicilia fu detto: “QUI SI FA L’ITALIA O SI MUORE”…… mi pare fu Garibaldi. Noi non vogliamo morire, ma vorremmo essere felici di potere giocare con felicità anche insieme ai giovani di colore che i nostri anziani chiamano turchi, anche perché lo abbiamo già fatto e danno pure dei bei calci e non solo al pallone….. Le mie caviglie ne hanno viste di tutti i COLORI.
Ancora grazie.
Il capitano. Ed altre centinaia di Carusi che la ammirano.
Notizia del 25 febbraio 2015
Ma voi li avete mai visti i cani di Lampedusa?
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 25 febbraio 2015 – I cani di Lampedusa sono unici. Sono il risultato di intrecci che nel corso degli anni sono avvenuti ogni volta che una nave ne abbandonava uno sull’isola. Sono grandi e vivono liberi, ogni tanto combinano qualche pasticcio, ma sono senza dubbio animali che hanno imparato a convivere con la popolazione locale e con chi arriva a Lampedusa. La maggior parte dei lampedusani li rispetta e non mancano le persone che si prendono cura di loro. Noi li chiamiamo “cani da turista”, perché riescono a farsi amare da molti turisti che prendono il sole sulle spiagge, ci fanno il bagno, ci giocano, si fanno accarezzare e poi alla fine gli portano via il panino con le panelle tra sorrisi e carezze. Il sole ed il mare fanno il resto.
In questi giorni i cani di Lampedusa li abbiamo visti girare nelle strade, come se fossero dei ciceroni per i ragazzini approdati sull’isola che camminano per il centro del paese. Cani di mare, si direbbe, costretti a vita a restare su di uno scoglio di transito dove passa l’umanità e pronti ad accogliere chiunque.
Lampedusa e i suoi cani non si sposteranno, continueranno a vivere di mare e turismo. Al tempo stesso, non si modificheranno nel breve tempo le cause che determinano l’emigrazione dall’Africa verso l’Europa. Cause che sono molte, complesse, e spesso lasciate crescere nel tempo senza che nessuno le affronti. In questi giorni i ragazzini approdati a Lampedusa con i quali abbiamo parlato, ci hanno riempito di storie tremende, tutte, o quasi, con lo stesso copione dove la violenza è il soggetto principale. Potremmo scriverle una per una e forse un giorno lo faremo, quando sarà il momento. Ma a noi piace raccontarvi di come questa isola dimostri la sua solidarietà alle persone approdate in questi ultimi giorni, della bellissima lettera che il capitano del Lampedusa Calcio ha scritto al Presidente della Repubblica, della partita di calcetto tra giovani isolani e africani. Di questo vogliamo parlarvi, vogliamo dirvi che mentre scriviamo queste righe siamo qui con Assad che ci fa vedere il video della sua canzone “Peace Party” (https://www.youtube.com/watch?v=YFOeFtUgtlM) e ne ha appena scritta un’altra che racconta del suo viaggio fino all’Italia e ringrazia i lampedusani che gli sorridono e gli fanno ciao (https://www.youtube.com/watch?v=5lVOk3GWF60&feature=youtu.be). Di questo ed altro ancora vorremmo parlarvi, dicendo che Lampedusa, dove le contraddizioni non mancano, ha un cuore che batte anche durante il freddo inverno.
E proprio in queste ore si è svolto un vertice tra Renzi e Hollande che avrebbero chiesto all’Europa il rafforzamento di Triton, vedremo se questo permetterà davvero un maggior supporto per il salvataggio delle vite in mare, di certo questa operazione non ridurrà le morti come già non riusciva a fare Mare Nostrum. Ci piacerebbe che un giorno ci fossero corridoi umanitari che ci passassero sopra la testa. Ci piacerebbe.
Intanto noi vi invitiamo a venire a Lampedusa se potete, almeno una volta nella vita venite a viverla se avete qualche soldo da parte. No, non troverete l’Isis che sbarca, o l’ebola, come scrivono i giornalisti scellerati, ma uno stupendo mare e stupende spiagge. Soprattutto troverete qui un’umanità che purtroppo si è persa nel resto di un’Europa spaventata dai suoi stessi fantasmi e troverete anche bellissimi cani che insegnano agli esseri umani il senso della vita e della libertà.
Notizia del 18 febbraio 2015
La maledizione di Lampedusa
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 18 febbraio 2015 – Come operatori di Mediterranean Hope, ormai residenti a Lampedusa da quasi un anno, notiamo come quei giornalisti che girano in questi giorni sull’isola facendo domande ai cittadini del tipo “hai paura dell’Isis?”, stiano dando un pessimo esempio d’informazione e stiano facendo molto male al tessuto economico di questa comunità, che certo non ha bisogno di altri allarmismi. Ancora una volta l’isola torna ad essere il palcoscenico per una classe politica che troppo facilmente si dimentica dei bisogni reali delle persone che qui vivono e lavorano. Lampedusa in questi decenni ha sopportato molto, assenza dello Stato, servizi inefficienti, corruzione, carovita, radar, tragedie che il resto d’Italia non può neanche immaginare, come quella del 3 ottobre 2013. Chiedere ora di prestarsi a recitare la parte dell’isola minacciata per giustificare un intervento armato in Libia ci sembra, francamente, davvero troppo.
Da qui, si può ben notare quanto sia facile accendere il palcoscenico della frontiera per mandare messaggi distorti all’opinione pubblica italiana. Abbiamo visto quanto sia semplice strumentalizzare le morti, le tragedie, le persone che prendono la via del mare per fuggire dalla miseria, da guerre e persecuzioni. Alcuni mesi fa l’allarme mediatico era l’ebola, titoli di giornali e campagne virali sui social network davano per certo che il virus sarebbe arrivato con i barconi. Ora invece è il terrorismo dell’Isis che arriverà, e se non lo farà con i gommoni lo farà con i missili (quali?) sparati dalla Libia da Jihadisti. Sia chiaro, il terrorismo esiste, ma nello spazio globale ogni luogo è raggiungibile dai suoi proiettili, dalle sue bombe. Facendo un banale esempio, la sua violenza arriva molto prima a Parigi che a Lampedusa. I media, però, hanno costruito l’immagine di quest’isola come fosse un imbuto dove tutto può accadere e tutto passa, hanno costruito un’isola talmente grande che potrebbe estendersi all’intero Mediterraneo. Su Lampedusa si addensano tutte le tragedie, anche quelle lontanissime. Questo modello comunicativo non è solo mediatico, è anche una scelta politica precisa che, ancora una volta, fa ricadere sulle spalle della comunità, e della sua Capitaneria di Porto che salva vite in mare, tutte le contraddizioni che interi continenti non sciolgono. Fatti epocali che con difficoltà gestisce uno Stato, sono invece affrontati da una comunità di poche migliaia di persone, che vive per lo più di pesca e turismo.
A volte ci viene da pensare che ci sia una maledizione su questo scoglio, una maledizione che giornalisti e governi riescono a rendere viva nel tempo, ad annaffiare in ogni stagione con nuove campagne della paura. Oggi, mentre scriviamo questo articolo, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU discuterà della Libia, ma non discuterà di come costruire un piano internazionale per evitare le morti in mare, non discuterà di come affrontare una tragedia umanitaria mondiale che vede in movimento 50 milioni di profughi. Oggi i governi discuteranno se sia giusto aggiungere una guerra ad un’altra guerra, e ne discuteranno gli stessi attori che per decenni hanno finanziato e fatto conflitti sconvolgendo interi continenti, impoverendo paesi, costringendo milioni di persone a lasciare la propria terra.
Noi siamo convinti che i lampedusani resisteranno alle tempeste mediatiche e continueranno ad andare avanti nonostante tutto. Noi con loro condivideremo questa sfida, questa sorte comune. Lampedusa Porto Salvo non è un luogo semplicemente fisico, è un destino comune per le persone che vivono su questa terra al centro del Mediterraneo.
Notizia dell’11 febbraio 2015
Condividiamo l’accoglienza
Di Marta Bernardini e Francesco PIobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 11 febbraio 2015 – La lettera che segue, scritta a caldo dopo l’ultima tragedia del mare, il 10 febbraio, insieme ai preti di Lampedusa don Mimmo e don Giorgio, è molto di più di un semplice appello. Essa rappresenta, almeno secondo noi, l’apertura di una riflessione sul modello di accoglienza nel nostro paese che per troppo tempo è stato separato dalla dimensione partecipativa di base. Oggetto di procedure burocratiche spesso incomprensibili, chiuso nei reticolati di luoghi separati dal resto della società e cresciuto nello spazio dell’emergenza, il modello di accoglienza italiano mostra tutti i suoi limiti. Oltre a questo, stando a Lampedusa in tutti questi mesi, abbiamo capito che questo approccio determina nell’opinione pubblica una separazione tra il “noi” e “loro”, una distinzione che è alla base di molti pregiudizi nel nostro paese. Così, chi oggi passa la frontiera di Lampedusa, chi si salva dal mare e raggiunge l’Europa, rischia di portarsi dentro il confine per tutta la vita.
E mentre scriviamo, arrivano ancora notizie di morti nel Mediterraneo. Persone a cui non si riuscirà a dare un nome, così come non si riesce a dare una risposta all’impellente richiesta di una vita possibile.
Lampedusa è espropriata della possibilità di accogliere quanti e quante arrivano dal mare in cerca di una speranza.
Chi vive su questo scoglio in mezzo al mare sa che è un luogo di approdo e di salvezza, ma troppo spesso i lampedusani vengono messi da parte rispetto a quanto accade sulla loro isola. Tranne qualche anno fa, quando ancora l’accoglienza la potevano fare quanti si adoperavano per offrire rifugio, un aiuto, un pasto caldo, oggi questo sembra impossibile.
I lampedusani non possono offrire aiuto sulla loro terra, subiscono le scelte fatte da altri, che sono lontani da qui, che non vivono su questo scoglio, non sanno cosa significa accogliere dal mare.
Nel 2011 l’accoglienza è stata fatta lo stesso, al meglio che si poteva, ma era una condizione di forzatura, di esasperazione, nella quale si è giocato sulla vita di quanti fuggivano dal loro paese e quanti in questo ci vivevano. È stata imposta una convivenza in perenne clima emergenziale, ben lontana da un’accoglienza degna e rispettosa come sicuramente qualcuno avrebbe voluto offrire. E poi a seguire sempre più rare le occasioni di interazione, un centro dai muri spessi e dalle reti invalicabili. Nessuna possibilità di fare un sorriso, di parlare, di vedere con i propri occhi e rendersi disponibili verso quanti hanno fatto viaggi della speranza e avrebbero tutto il diritto che qualcuno li accogliesse con sincerità e spontaneità, non solo tramite procedure militari o statali. Numerosi cittadini hanno più volte espresso la volontà di essere presenti e protagonisti agli arrivi, soprattutto offrendo opportunità di incontro e familiarizzazione con i bambini e le persone più vulnerabili. Questo tipo di relazione è inesistente, se non per il personale lampedusano che lavora al centro di accoglienza e si spende con energia nel suo lavoro. Ma come è possibile sapere che centinaia di persone sono arrivate su quest’isola e che non si può entrare in contatto con nessuno di loro? Loro chiusi dentro come criminali e tu lasciato fuori come un intruso. Sulla tua isola. Nel Porto Salvo.
E poi arriva la materialità dei corpi, l’incombente realtà della morte, il 3 ottobre. Un’altra volta le vite di chi scappa delle più atroci situazioni si interseca con quella dei lampedusani, coinvolti, chiamati, interpellati a fare e pensare qualcosa. Sfilata di autorità, che continuano a decidere lontano da qui, mentre qui qualcuno vive e qualcuno approda.
Oggi finisce Mare Nostrum, e la risposta è un nome vuoto. I soccorsi non bastano più ma le persone continuano ad arrivare. Mentre noi oggi ci alziamo, “travagghiamo”, mangiamo, guardiamo il telegiornale, andiamo in chiesa, facciamo la spesa, beviamo il caffè, prendiamo i figli a scuola, qui, sulla stessa isola dove abitiamo e dove abbiamo costruito le nostre vite, arrivano 29 corpi. Senza vita, ma con un nome, che però forse non verrà mai scoperto. E speriamo che i prossimi ad arrivare siano vivi. Ma ancora di più spereremmo che questo ci importi, ci interessi sapere cosa accade in questi pochi chilometri di isola. Non vogliamo sapere le notizie solo dalla televisione, per noi questo è reale, avviene ora. Vogliamo che ci sia un tessuto sociale che si rende conto di quello che accade e che se qualcuno vuole rendersi disponibile possa farlo, possa preoccuparsi per chi arriva, possa offrire del tè e un sorriso, possa vedere se ci sono bambini e bambine a cui dare qualcosa, oltre la meccanica accoglienza che offre lo stato. Vorremmo che se chiedessimo “come stanno? Serve qualcosa?”, si possa ricevere una risposta non affrettata e timorosa.
Non ci interessa la retorica o il buonismo, non ci interessano informazioni o fotografie, ci interessa l’umanità, la dignità, la vita e la speranza. Benvenuti a voi. Andate in pace a voi.
(don Mimmo e don Giorgio, preti di Lampedusa; Marta Bernardini e Francesco Piobbichi, Progetto Mediterranean Hope della FCEI. Lampedusa, 10 febbraio 2015)
Notizia del 4 febbraio 2015
La tratta delle donne: una schiavitù ancora attuale
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 4 febbraio 2015 – Non parliamo di prostituzione, ma di schiavitù e sfruttamento. Questa è la prima cosa da ricordare quando riflettiamo sulla condizione delle donne vittime della tratta. Osservando il fenomeno migratorio e la composizione degli arrivi si può immediatamente notare che la maggior parte delle persone sono uomini, generalmente giovani, ma soprattutto uomini. C’è però una presenza che non passa inosservata, quella di molte donne, spesso giovanissime, in stato di gravidanza o già accompagnate dai loro figli. La situazione delle donne che scappano da diversi paesi per raggiungere l’Europa è molto particolare. Sappiamo con certezza, dalle molteplici testimonianze raccolte nel tempo, che la maggioranza ha subìto ogni tipo di abuso, prima di tutto sessuale, da parte dei numerosi trafficanti nei quali si sono imbattute e dei quali, frequentemente, rimangono incinta. Ma non solo. Molte donne riescono a raggiungere l’Europa perché inserite in uno specifico traffico di esseri umani, quello della tratta e dello sfruttamento sessuale.
Prime tra tutte sono le donne nigeriane, più di 1200 sono arrivate in Italia via mare nel 2014 secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Un’interessante indagine di qualche settimana fa condotta da Al Jazeera riporta che circa l’80% delle donne nigeriane che arriva in Italia è già destinata alla tratta e allo sfruttamento sessuale (http://www.aljazeera.com/indepth/features/2015/01/nigerian-women-caught-italy-sex-trade-trap-201511810556919742.html). Una donna su tre a Benin City, in Nigeria, viene avvicinata da trafficanti locali che promettono un’opportunità di lavoro o studio in Europa e vengono così allontanate dalle loro famiglie immaginandosi di andare incontro ad un futuro migliore. Molte volte sono gli stessi familiari che si accordano con queste persone, generalmente figure molto stimate dalla famiglia, alle quali affidano la giovane donna per intraprendere il lungo viaggio verso l’Europa.
A raccontarci queste cose è Graziella Scalzo, coordinatrice dell’associazione Pellegrino della Terra con sede a Palermo, che in Sicilia si occupa di aiutare le donne vittime della schiavitù (http://www.pellegrinodellaterra.it/). “Chiaramente questo viaggio ha un costo che, da quello che ci viene raccontato, si aggira intorno ai 60.000-70.000 euro – spiega Graziella Salzo -. È un debito che viene stabilito e che paradossalmente assume proprio le sembianze di un contratto legale controfirmato davanti ad un avvocato. È quindi un contratto che riguarda la singola ragazza ma anche tutta la famiglia”. Si può quindi comprendere quanto questo traffico sia ben strutturato e consolidato con pratiche fortemente vincolanti per le donne che vi finiscono. Ma purtroppo il livello di coercizione non finisce qui. “Un altro vincolo che si crea – prosegue la coordinatrice del Pellegrino della Terra – ha anche maggiori ripercussioni sulla qualità di vita di queste donne, ed è il rito voodoo a cui vengono sottoposte prima della partenza, che è una protezione spirituale. Il voodoo è considerata una delle religioni ufficiali in Nigeria, quindi immaginiamo la valenza che ha per ciascuna di queste donne. Questo vincolo spirituale diventa una prigionia in una seconda fase, perché alle donne che cercano a un certo punto di ribellarsi a chi le ha ridotte in condizioni di schiavitù vengono poi avanzate delle minacce sulla propria persona. Ma quello che è ancora più difficilmente tollerabile è quando queste minacce vengono rivolte ai propri familiari”. Questa è solo la fase di iniziazione al lungo percorso che queste donne stanno per intraprendere. Scalzo prosegue nel racconto: “Il viaggio stesso è un’esperienza mortificante, devastante, dove le donne vengono sottoposte a dei maltrattamenti e a delle violenze fisiche. In alcune situazioni sono saltate fuori delle maternità da queste violenze. Donne da ammirare perché hanno portato avanti la loro gravidanza, però con la difficoltà di avere costituito un nucleo mono parentale, che spesso rimane tale per la paura di costituire nuovi legami”.
Una volta arrivate in Italia, o nel paese di destinazione, le donne vengono consegnate, sempre attraverso organizzazioni criminali, a delle madame che si occupano del loro sfruttamento. La madame è una donna generalmente più adulta, considerata una figura di riferimento e protezione, ma che in realtà è solo un’altra pedina all’interno del fenomeno della tratta. Inizia così la condizione di vera e propria schiavitù di queste donne, in uno stato di grande isolamento e marginalità.
La tratta appare quindi come un fenomeno fortemente organizzato e solido, non presente solo in quei paesi ad alta instabilità politica dove la mancanza di leggi permette a trafficanti e sfruttatori di portare avanti il loro business, ma anche perfettamente collegato con i paesi europei. Moltissime donne in Italia vivono attualmente in condizioni di schiavitù, e anche se associazioni come il Pellegrino della Terra offrono un aiuto concreto per combattere questo fenomeno, uscire dal circuito della tratta è un processo lungo e faticoso e spesso la stessa legge italiana non garantisce una sufficiente protezione. Graziella Scalzo conclude: “da donna vivo con mortificazione ogni volta che mi viene raccontata la lunga sofferenza a cui queste donne sono sottoposte. Sono condizioni di vita inaccettabili, una condizione di schiavitù che non dovrebbe più appartenere alla nostra storia attuale, che speravo facesse parte del passato ma si riattualizza quotidianamente. Ogni donna che varca la soglia del Pellegrino della Terra conferma che purtroppo la schiavitù ancora esiste”.
(Per vedere l’intervista https://www.youtube.com/watch?v=-OOqXdN4xKI) Notizia del 28 gennaio 2015
Ancora dentro il filo spinato
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Cosa succede alla frontiera europea dopo gli attentati di Parigi? E’ questa una domanda la cui risposta non va ricercata semplicemente nei grandi titoli dei giornali o nelle dichiarazioni dei rappresentanti dei governi, ma nelle tante piccole procedure che spesso passano nel silenzio generale, nelle circolari e nelle direttive dei ministri, o negli atti delle polizie di frontiera che spesso violano i principi che regolano gli ordinamenti giuridici. Atti e procedure che poi si trasformano in una prassi del sistema, alimentando – e alimentandosi – in un clima scioccato dall’azione terroristica. Il terrorismo esiste, e non bisogna avere la presunzione di banalizzare questo rischio che, nel quadro dei processi della globalizzazione, si estende a tutte alle frontiere. Il terrorismo nasce però anche dentro la Fortezza Europa e da qui emigra. Certo è che in nome di questa lotta al terrorismo, a rimetterci saranno prima di tutto i diritti e le libertà, come si può già vedere dagli ultimi episodi che riguardano la frontiera europea.
Se ne parla anche in Germania, e ai più alti livelli del governo: “Per quanto riguarda i profughi dalla Siria e di altri focolai di crisi – ha scritto sulla Süddeutsche Zeitung il ministro dell’interno Thomas de Maizière – si tratta di persone che sono fuggite dal terrore crudele di ISIS e di altri gruppi di barbari per cercare rifugio in Germania. Non dobbiamo sospettare delle vittime del terrorismo e, quindi, fare il gioco dei piromani populisti… La cancelliera Merkel vuole che la Germania appaia come un paese cosmopolita, liberale, aperto ai rifugiati. …Vogliamo fornire ai rifugiati di paesi in guerra civile come quelli da Siria e Iraq una protezione autentica e veloce, così che sia abbastanza chiaro che essi hanno una prospettiva di rimanere”.
E’ quasi un paradosso che mentre da Berlino arrivano queste aperture, altri paesi europei che accolgono numeri di rifugiati assai inferiori della Germania inaspriscono le loro politiche per l’asilo.
In Bulgaria, ad esempio, in vista dell’inasprimento del conflitto siriano e del terrore dell’ISIS, sono stati “richiesti ulteriori perfezionamenti alla rete di sicurezza nazionale e ai centri di accoglienza e detenzione nel paese. Si considera necessaria l’estensione del transennamento, lungo già 32 km, che separa dal territorio turco” (http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/04556.asp). Tutti segnali che fanno intravedere quali potrebbero essere le politiche messe in campo nei prossimi anni. A pensarci bene, anche le dichiarazioni del Ministro degli Esteri Gentiloni sull’allarme “immigrazione-terrorismo” rientrano in questo possibile schema.
Ripensando alla Giornata della Memoria appena celebrata, vengono in mente le incisive parole pronunciate un anno fa da Moni Ovadia: “il 27 gennaio – ha detto – sta diventando il giorno della falsa coscienza, della retorica. Il limite principale, e il grande equivoco, è di non aver capito, prima di tutto, che questa giornata non è stata istituita solo per gli ebrei. […] Parliamo della Germania ma magari ci dimentichiamo dei genocidi commessi dai fascisti italiani in Africa o della pulizia etnica nei paesi dell’ex Jugoslavia. La memoria ebraica non serve agli ebrei che lo sanno già, ma dovrebbe essere un paradigma, un immenso edificio della memoria che possa servire anche agli altri. […]”.
Memorie quindi ma anche denuncia del presente, dove la banalità del male rischia di riprodursi nell’indifferenza di quello che sta avvenendo nella nostra frontiera. Nelle carni lacerate sul filo spinato di chi prova ad entrare, nelle vite disperse nel Mediterraneo, nei profughi eritrei che vagano nel Sinai, nei bambini siriani morti di freddo nei campi profughi in Libano. Non possiamo limitarci a raccontare il male del mondo e di cullarci in una dimensione semplicemente etica; si tratta di vivere una tensione quotidiana che ci permette di affrontare il presente con coraggio. Oggi alcuni giornali rilanciano il pericolo di un’infiltrazione da parte dei terroristi dell’ISIS, penetrati in Libia nel caos generato dalla guerra, che sfrutterebbero il canale dell’immigrazione per raggiungere e attaccare il nostro paese. Non sappiamo da dove arrivino queste notizie, da quali fonti e quanto autorevoli; quel che sappiamo però, è che lanciare allarmi generici e ingiustificati, nel clima generale rischia di avere serie ripercussioni sul piano simbolico. Finito l’allarme dell’immigrazione che porta l’Ebola, arriva l’allarme dell’immigrazione che porta il terrorismo. Le persone migranti saranno così nuovamente trasformate e incasellate come pericolose, potenziali minacce per un’Europa che giustificherà azioni illegittime di respingimenti e violazione dei diritti.
Notizia del 21 gennaio 2015
Lampedusa torna ad essere luogo di approdo
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 21 gennaio 2015 – Scrivevamo poco tempo fa che il dispositivo della frontiera nel mondo globalizzato doveva essere interpretato come un dispositivo mobile, che risente dei rapidi mutamenti decisionali degli Stati e del contesto geopolitico. A quanto pare – almeno è la storia di queste ultime settimane – Lampedusa torna ad essere punto di approdo dei migranti. Dopo che per un lungo anno il dispositivo Mare Nostrum aveva messo l’isola ai margini della frontiera, tutto sembra ritornare a prima della tragedia del 3 ottobre 2013, data in cui un’imbarcazione con centinaia di persone si ribaltò provocando una delle più grandi tragedie del Mar Mediterraneo. Con la fine di Mare Nostrum, che di fatto rimane con una sola nave nel Canale di Sicilia, e con l’avvento di Triton, Lampedusa torna ad essere quella che è sempre stata da venti anni a questa parte, luogo di confine e frontiera. Saranno quindi principalmente le veloci imbarcazioni della Capitaneria di Porto a prendersi in carico il soccorso delle persone che chiedono aiuto in mare, mentre la Marina Militare avrà un ruolo sempre più ridotto con il passare del tempo. A Lampedusa si può quindi anche vedere come, a seconda delle fasi, siano gli stessi corpi dello Stato ad espandersi o a ritirarsi rispetto alla dinamica del confine. Un confine, con pochi diritti e pochi doveri, per chi vive in questa isola riempita di radar militari. E un confine anche per chi in questa isola arriva sano e salvo dopo una lunga traversata, e si trova costretto a lasciare le sue impronte ad un sistema di accoglienza che lo recinterà in Italia, impedendo a chi vuol arrivare nelle altre parti d’Europa di raggiungere la propria destinazione in maniera legale.
Come dicevamo, Lampedusa torna ad essere un luogo di approdo, seppure i media non se ne stiano ancora riinteressando, rendendo l’isola ancora una volta una rappresentazione costruita dall’esterno. Dai primi di gennaio ad oggi sono arrivate sull’isola circa 500 persone e molte, quasi 300, sono state “sistemate provvisoriamente” al Centro di primo soccorso e accoglienza di Contrada Imbriacola, che sembra aver riaperto i suoi cancelli anche se non “ufficialmente”. Ora il CPSA, dopo varie peripezie, è gestito dalla Misericordia di Isola Capo Rizzuto che si è aggiudicata la sua conduzione per i prossimi anni (http://www.misericordie.it/misericordie/news-dalla-confederazione/2043-le-misericordie-tornano-a-lampedusa.html). Proprio stamattina sono avvenuti i trasferimenti di circa 150 persone, via mare e via aerea, per diverse destinazioni, tra cui Sicilia e Sardegna. Attualmente al Centro rimangono circa 140 persone che probabilmente verranno spostate nei prossimi giorni.
La riapertura del CPSA, dovuta all’arrivo di persone provenienti principalmente dalla Libia, è uno degli effetti principali della chiusura di Mare Nostrum, mentre sembra allontanarsi sempre di più l’ipotesi di aprire corridoi umanitari protetti per chi fugge da guerre e miserie e cerca una speranza nella fortezza occidentale. Il destino delle persone che una volta lasciata Lampedusa approdano in Italia con il traghetto di linea o gli aerei, noi non lo sappiamo quasi mai, non sappiamo ad esempio se i tunisini sono stati respinti – come immaginiamo – e dove invece siano state portate tutte le persone che decidono di fare la richiesta di asilo politico. In più di un’occasione ci sono arrivate richieste di aiuto da parte di familiari per rintracciare i propri cari approdati in Italia, soprattutto i più giovani e i minori. La rete per avere queste informazioni non è mai abbastanza estesa, anche se sono tante le associazioni che si impegnano ad offrire un’assistenza e un accompagnamento dignitoso e attento. Infine possiamo confermare, almeno per quanto abbiamo potuto direttamente osservare vedendo la composizione dei flussi, che i siriani non passano più per la Libia come snodo principale per raggiungere l’Europa, e la maggior parte delle persone approdate provengono invece dall’Africa Centrale e Sub sahariana.
Nelle prossime settimane vedremo se questo flusso continuerà, è certo evidente che nonostante l’inverno rallenti le partenze, il numero di persone che provano ad attraversare il mare a rischio della vita non diminuisce; e Mare Nostrum di fatto è già concluso.
Notizia del 14 gennaio 2015
Parigi vista da Lampedusa
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 14 gennaio 2015 – Prendiamo parola o almeno proviamo a riordinare le nostre idee, alcuni giorni dopo gli eventi di Parigi e ci sforziamo di capire quali saranno i possibili effetti sulla frontiera dentro la quale lavoriamo, dopo che il cuore dell’Europa è stato colpito dall’ignobile azione terrorista.
Lampedusa, isola della salvezza, è anche isola messa al fronte dagli Stati e il filo spinato arrugginito che circonda i vecchi bunker fatti saltare in aria dagli inglesi dopo la seconda guerra mondiale è metafora di un futuro al quale si potrebbe andare incontro. Come lo è il centro di accoglienza che a seconda dello scenario politico muta forma, prende fuoco, si apre o si chiude con una storia nella quale si sono oltraggiati i corpi e la dignità di essere umani. Il marchio che la politica assegna alle persone che attraversano la nostra frontiera è un tatuaggio che ci si porta dietro per sempre. Soccorso o intercettato, naufrago o clandestino, profugo o integralista sono parole chiave per narrazioni differenti, ognuna delle quali può essere utilizzata per aprire o chiudere i confini, per respingere o salvare nel mare. Racconti, costruiti sul palcoscenico della frontiera e spesso utilizzati per rafforzare politiche di paura, che ingabbiano queste persone in caselle.
In questi giorni in molti hanno banalmente collegato il terrorismo al fenomeno dell’immigrazione, stabilendo un nesso che invece andrebbe indagato con più attenzione a partire dallo studio dei flussi. Primo, perché un terrorista che deve venire a fare un attentato non rischia la vita in mare ma ha certamente canali più sicuri per arrivare. Secondo, perché queste persone non sono solo musulmane ma molte sono anche di fede cristiana; e infine, perché molti islamici, come nel caso dei siriani o degli afgani, più che venire a portare terrore in Europa scappano dal terrore che vivono nel loro paese, un terrore che spesso noi stessi occidentali abbiamo contribuito a creare. Vedere così tanti profughi di guerra che oggi si spostano per il mondo, come non se ne vedevano dalla seconda guerra mondiale, ci induce a ritenere che ci sia in corso un conflitto globale non semplice da decifrare e da collocare nella schematizzazione mediatica. Se mettiamo su Google la parola Ucraina o Afghanistan, oppure Siria, Iraq, Egitto, Libia o Nigeria scopriremmo che ogni giorno ci sono morti, bombardamenti e attentati che sconvolgono questi paesi. Si potrebbe quindi individuare una cornice inquietante di qualcosa di molto più complesso del semplice scontro di civiltà del quale tutti parlano.
Ma non è solo sulla frontiera che andrebbe volto lo sguardo per comprendere i fenomeni di questi mesi, la globalizzazione infatti costruisce paradossi, come quello che vede l’Europa terreno di diffusione di nuovi terroristi, cresciuti non nelle scuole dove si impara a memoria il Corano ma nelle nostre scuole pubbliche, nei quartieri delle nostre città. Europei infatti, di nazionalità francese, erano i tre assassini che hanno portato morte nelle strade di Parigi, come europei sono molti di quelli che combattono in Iraq e in Siria sotto le bandiere nere dell’internazionale dell’Isis. Tutti questi elementi costituiscono un mosaico complesso attraverso il quale cercare di comprendere gli eventi senza tralasciarne le molteplici cause e le possibili conseguenze. Questo dovrebbe essere un metodo costante con il quale affrontare i cambiamenti della società che stiamo costruendo, riflettendo con consapevolezza sulle responsabilità che come persone abbiamo e vogliamo assumerci, per esempio affermare che la solidarietà deve essere più forte della paura e dell’odio. In questi giorni abbiamo sentito più volte agitare parole importanti, abbiamo visto milioni di francesi scendere in piazza rivendicando i diritti e le libertà, i valori costituenti della “civiltà europea” che sono anche diventati valori universali dopo la seconda guerra mondiale. Questi valori però non possono essere solo di alcuni e non di altri, non possono fermarsi alle nostre frontiere come è accaduto in questi anni. Questa a noi sembra un’ipocrisia sulla quale dovremmo riflettere insieme. Con quale coraggio innalziamo al cielo le luci luminose dei diritti dell’uomo, se poi le nostre frontiere sono chiuse con filo spinato per chi li rivendica ed i nostri mari sono pieni di cadaveri di innocenti?
Notizia del 7 gennaio 2015
Le nuove rotte dei migranti
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 7 gennaio 2015 – Era diventato abbastanza chiaro, già a partire dagli ultimi mesi, che le rotte dei migranti si stavano modificando. Meno chiaro appariva come questi cambiamenti si sarebbero sviluppati, non solo rispetto alle stesse rotte intraprese ma anche riguardo alle tecniche che i trafficanti avrebbero messo in atto. Come sempre, c’è da ricordare che quando si parla di migrazione ci troviamo di fronte ad un fenomeno che le economie criminali sfruttano sapientemente, riuscendo a massimizzare il proprio lucro valorizzando la violazione di quelle frontiere che l’Europa politica vorrebbe sempre più invalicabili.
Il 2015 si apre con l’ampliarsi di una nuova rotta, che trasporta prevalentemente profughi siriani in fuga da una delle peggiori guerre viste negli ultimi decenni. I siriani che scappano sono milioni, si fermano prevalentemente in Giordania e Turchia, mentre una piccola parte di questa grande fetta di profughi sceglie di arrivare in Europa per fare richiesta di asilo. Nelle città turche a ridosso con il confine siriano la situazione è di vera e propria emergenza, con continui arrivi di persone che si fermano cercando di sopravvivere come possono. Chi ha i soldi e può permetterselo da lì parte per l’Europa, i poveri invece sono costretti a restare. Per loro non c’è nessun presidio umanitario, non c’è possibilità di fare richiesta di asilo, e cosa ancora più sconcertante è che l’ONU, meno di un mese fa, ha annunciato di aver finito i soldi per le derrate alimentari stanziate per i profughi.
In precedenza, una delle rotte più battute dai migranti siriani era quella libica: si prendeva l’aereo, si arrivava in Tunisia e poi con la nave si partiva per Lampedusa. Un’altra rotta prevedeva il passaggio per l’Egitto. Il collasso dello stato libico, provocato dalla guerra civile da un lato ed i sempre più stringenti controlli dell’esercito egiziano dall’altro, sembrano aver fatto da “tappo” alla vecchia rotta. Anche la rotta balcanica sembra essere più difficoltosa, attraverso la Grecia e soprattutto la Bulgaria dove sono state costruite alte recinzioni con reti e filo spinato, come è stato ben descritto nella trasmissione “Piazza Pulita” di Corrado Formigli (http://www.la7.it/piazzapulita/video/le-rotte-dei-migranti-23-12-2014-143914). Per rispondere a queste difficoltà, l’innovazione degli “imprenditori delle tratte” è stata quella di affittare vecchi cargo mercantili, riempirli di profughi e bloccare il timone quando le navi si avvicinano alle coste italiane, abbandonando l’imbarcazione prima di essere intercettati. Ancora una volta, l’Europa di Frontex è stata messa in difficoltà, sia sul piano pubblico che mediatico, dalla capacità degli scafisti di innovare rotte e pratiche di trasporto. Sembrano quindi contare ben poco le parole del commissario all’immigrazione Avramopoulos che promette una nuova agenda per l’Europa sul tema dell’immigrazione a partire dalla prossima primavera (http://www.avvenire.it/Cronaca/Pagine/profughi-ue-forse-ci-prova.aspx?utm_content=buffer4b328&utm_medium=social&utm_source=twitter.com&utm_campaign=buffer). Staremo a vedere, anche se sappiamo che un fenomeno di una portata così ampia come quello che stiamo attraversando non si risolve solo sul piano tecnico. Ad oggi le politiche europee si sono concentrate sul trasformare i nostri confini in muri di filo spinato e sull’esternalizzazione delle frontiere. Occorre invece che questa vicenda venga affrontata sul terreno prettamente politico, aprendo corridoi umanitari protetti per i profughi siriani e non solo, e ripensando profondamente le politiche europee sull’immigrazione a partire dal trattato di Dublino. Il 2015 si apre con nuovi rischi, bisogna lavorare insieme per evitare di dover piangere migliaia di morti come accaduto nel 2014.
Notizia del 17 dicembre 2014
“Mediterranean Hope – Casa delle culture” apre le sue porte
A cura di Marta bernardinie Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 17 dicembre 2014 – “Mediterranean Hope – Casa delle culture” ha ufficialmente aperto le sue porte a Scicli (RG). Nella limpida e assolata giornata di venerdì 12 dicembre, un convegno intitolato “L’Europa e il Mediterraneo: religioni, culture, dialogo” ha dato il via alle numerose iniziative che animeranno la Casa delle culture, oltre alla presenza di alcuni ospiti che già vivono negli appartamenti da qualche settimana.
Il convegno si è svolto nella prima parte presso Palazzo Spadaro, luogo storico della bellissima cittadina barocca, segno del legame significativo instaurato tra il progetto Mediterranean Hope e la cittadinanza, come ha sottolineato lo stesso pastore della comunità metodista di Scicli Francesco Sciotto. Di grande spessore gli interventi che si sono susseguiti nella mattinata. Primo tra questi il presiedente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) pastore Massimo Aquilante, che in un discorso ispirato e intenso ha ricordato quanti muri costruiamo intorno a noi e quanto questi siano difficili da abbattere, e come Mediterranean Hope possa essere una sfida importante nella direzione del “coraggio della proposta e pazienza del cambiamento”. Ulrich Moeller, rappresentante della Chiesa evangelica della Westfalia ha raccontato come anche nelle chiese in Germania ci sia una particolare attenzione ai rifugiati e richiedenti asilo e molte comunità locali si occupino direttamente della complessa situazione dei migranti, dovuta soprattutto alla regolamentazione europea di Dublino III. Moeller ha quindi sottolineato che le chiese italiane non sono sole in questa sfida, anzi proprio grazie a Mediterranean Hope è iniziato un legame di collaborazione molto stretto e proficuo. Samuel Amedro, rappresentante della Chiesa evangelica del Marocco ha offerto uno sguardo illuminante sulla situazione del paese, soprattutto su tutte quelle persone che vivono oggi senza documenti, senza una casa e un’identità alla mercé del lavoro nero e illegale. Queste persone sono migranti che non sono riusciti a trovare un luogo che gli accogliesse e offrisse una strada, sono i risultati “amari della globalizzazione e delle politiche europee circa l’immigrazione”. Queste persone senza identità e senza patria sono prima di tutto responsabilità dell’Occidente, dell’irrigidimento delle frontiere per proteggere un benessere raggiunto anche grazie a quei paesi che oggi bussano alle porte dell’Europa per chiedere di sognare un futuro migliore. La mattinata si è conclusa con l’intervento di Vincenzo Lamonica della Caritas di Ragusa che ha presentato alcuni dati sui numeri reali dell’immigrazione, per essere informati con precisione e non cadere in facili semplificazioni e allarmismi.
Il convegno è poi proseguito nel pomeriggio proprio nei locali della Casa delle culture, un ampio spazio commerciale degli anni sessanta riportato alla sua originale bellezza, affacciato su una delle vie principali di Scicli, corso Mazzini. Mediterranean Hope ha quindi ridato vita e valore a un luogo storico, restituendo alla popolazione uno spazio di incontro, solidarietà e cittadinanza attiva. Il pomeriggio si è aperto con un saluto del moderatore della Tavola valdese Eugenio Bernardini: “finché si spera si è vivi, finché si spera si progetta, si guarda al futuro. Mediterranean Hope è una risposta, piccola ma concreta, che abbiamo voluto dare come chiese evangeliche in Italia”. A seguire l’intervento dell’antropologo Osvaldo Costantini che ha presentato la situazione specifica dell’Eritrea e delle cause che spingono la maggior parte della popolazione a migrare, a partire dal servizio militare forzato fino a progetti di vita che cavalcano l’immaginario di un’Occidente ricco così come i media lo presentano. Andrea Torre del Centro Medì di Genova ha offerto un’analisi della composizione demografica dei paesi da quali partono i migranti, composizione che nei prossimi anni determinerà una forte pressione se non si attueranno politiche volte a soddisfare la domanda di lavoro delle giovani generazioni. Torre ha inoltre evidenziato come la crisi economica e le guerre stiano mutando profondamente la “tipologia” di migranti, non più semplicemente migranti economici ma rifugiati e profughi, e contemporaneamente in Italia si assista a un fenomeno emigrazione verso il nord Europa di giovani italiani e al ritorno nel proprio paese d’origine di molti immigrati, soprattutto dell’est Europa.
A concludere il convegno Paolo Naso dell’Università La Sapienza di Roma, che ha sottolineato l’importanza delle analisi e dei dati per comprendere il fenomeno migratorio ma soprattutto la necessità di ricordare che dietro questi numeri ci sono storie di persone, la maggior parte giovanissime, che lasciano il proprio paese. Storie che si incontrano anche alla Casa delle culture, come quella della piccola Ester Sara, bimba nata proprio in questi giorni dalla mamma della Costa D’Avorio sfuggita alle persecuzioni politiche a cui il marito era sottoposto e di cui oggi non si sa più nulla. Questa come tante altre, impresse sui volti dei 14 minori, tra i quali una ragazza, oggi presenti nella Casa di Scicli, giovani tra gli 11 e i 14 anni provenienti da Gambia, Ghana, Nigeria, Marocco, Siria, Bangladesh, dai volti stanchi ma anche pieni di speranza. Paolo Naso ha voluto riflettere sulla nuova figura del migrante, che non è né il migrante classico come potevano esserlo i nostri nonni, ma neanche il classico rifugiato. La figura del migrante è in generale oggi una sintesi di questi due profili. Chi fugge oggi ha subìto violenze di ogni genere, torture, abusi. Noi consideriamo rifugiato una persona che è già stata vittima di queste atrocità ma non una persona che lo sarà sicuramente. Interveniamo su persone che sono già state “corpi da macello” senza riuscire a proteggerle prima che lo diventino. Cambia la figura del migrante da una parte e dall’altra viene appiattita all’immaginario che ormai i media continuamente trasmettono, quella dello sbarco. Risulta sempre più necessario riflettere sulle situazioni dei paesi dai quali si migra per comprendere chi arriva oggi in Europa. Alla fine del convegno si è festeggiato insieme al ritmo di musiche popolari e di diverse tradizioni, riempiendo di danze, sorrisi e gioia il nuovo spazio di solidarietà e cultura di Mediterranean Hope.
Questi e molti altri gli spunti della giornata di inaugurazione della Casa delle Culture, che da oggi sarà colorata di iniziative, eventi, progetti ma anche di giovani, famiglie, storie per offrire un luogo sicuro e di accoglienza come impegno e testimonianza delle chiese evangeliche in Italia.
Notizia del 10 dicembre 2014
Lampedusa prende a calci l’isolamento
Di Marta Bernardini e Francesco PIobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 10 dicembre 2014 – Finisce 3 a 1 la partita del campionato giovanile nel quale gioca il Lampedusa Gsd, piccola squadra isolana che è riuscita con caparbietà a vincere meritatamente questa partita contro il Carini, ma soprattutto a vincere una battaglia più grande: riportare il calcio a Lampedusa. La storia di questa squadra è una storia di determinazione, resistenza e amore per il calcio. Quando due anni fa arrivò sull’isola papa Francesco si decise di ospitare l’evento presso il campo di calcio locale. Per rendere più agibile e sicuro l’incontro si decise di “abbattere” le recinzioni dello stadio e accogliere così un gran numero di partecipanti. Finita la manifestazione, al momento di ripristinare la funzionalità dell’impianto, emerse una diatriba burocratica tra il Comune di Lampedusa e la Capitaneria di Porto che ancora oggi, mentre scriviamo, attende di essere risolta. Di fatto, le recinzioni non poterono essere ricostruite e il campo non fu considerato a norma per il campionato. Nonostante questo, però, i dirigenti della squadra non si sono persi d’animo e hanno deciso di disputare comunque gli incontri recandosi in Sicilia. Con un enorme dispendio di soldi e di energia, la società sportiva e i giovani di Lampedusa hanno giocato in trasferta per tutto lo scorso campionato, chiedendo ospitalità proprio alla squadra di Carini che domenica scorsa li ha visti come avversari. Quest’anno, fortunatamente, le cose sono andate diversamente. La società infatti ha pensato di aggirare gli intoppi burocratici costruendo in maniera “autorganizzata” le recinzioni dell’impianto sportivo stipulando una convenzione temporanea con il demanio dopo aver chiesto l’autorizzazione al Comune. Così quest’estate, mentre i turisti si gustavano l’isola, i lampedusani ricostruivano le recinzioni del proprio stadio per permettere ai giovani dell’isola di trovare un’alternativa alle lunghe giornate invernali.
Mentre raccontiamo queste vicende, proprio vicino allo stadio, una macchina sta demolendo le barche dei migranti che sono arrivate in questi anni, una montagna di storie senza voce, diventata nel tempo un simbolo scenografico che deformava l’identità di Lampedusa. Una sorta di palcoscenico della frontiera per rappresentare l’isola dell’emergenza e spaventare il resto d’Italia sulle possibili “invasioni” di “clandestini”. Ora l’isola dell’emergenza sta lasciando il posto alla Lampedusa reale, dove riemergono piccole grandi storie come quella del campo di calcio. Lampedusa si sta così lentamente svestendo dell’immagine che i media le hanno costruito addosso, e lo sta facendo in modo pragmatico, giorno per giorno, spesso lontano da telecamere e grandi titoli sui giornali.
Elio Silvia, il presidente della società sportiva, racconta a Mediterranean Hope qualcosa di molto importante di tutta questa vicenda: “abbiamo costruito questo percorso per rompere l’isolamento, per far conoscere nuove esperienze ai giovani lampedusani. La nostra storia è solo all’inizio, ma ci piacerebbe lavorare con progetti basati sullo scambio con altre realtà nazionali ed europee”. In questi anni a Lampedusa sono venute molte associazioni presentando i loro progetti, in pochi però hanno ascoltato queste voci e raccolto questi bisogni. Lampedusa terra di frontiera è anche un luogo per capire quello che avviene nel resto del paese, dove spesso si progetta in maniera settoriale. Senza uno sguardo d’insieme sul territorio e i suoi bisogni, si finisce involontariamente per creare categorie che poi vengono abilmente messe l’una contro l’altra. A pensarci bene, il calcio e lo sport, potrebbero davvero essere un punto d’incontro e di scambio importantissimo. La disponibilità per lavorare in questa direzione da parte di una società sportiva, che è riuscita con la forza delle proprie convinzioni a rendere vivo e pulsante uno stadio di calcio in mezzo al Mediterraneo, non deve essere considerata una cosa di poco conto. Diamo una mano allora a queste persone per “prendere a calci l’isolamento”, valorizzando la conoscenza e lo scambio partitario come antidoto contro la paura e l’ignoranza.
Notizia del 3 dicembre 2014
Un’alternativa a Lampedusa: l’impegno dei giovani sull’isola
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 3 dicembre 2014 – Alternativa Giovani è un’organizzazione di volontariato nata nel 2001 da giovani studenti di Lampedusa e che nel corso del tempo è diventata una colonna storica delle attività sociali dell’isola. Conoscere questa associazione ci ha permesso fin da subito di iniziare a comprendere la realtà isolana, riuscendo ad accedere a uno sguardo interno alle dinamiche che la caratterizzano.
Incontriamo Alternativa Giovani (http://www.alternativagiovani.it/) nella loro sede, dove c’è l’unica radio dell’isola, Radio Delta, e uno spazio adibito a doposcuola per bambini. Filippo Mannino, uno dei principali volontari dell’associazione, è un giovane avvocato che dopo anni di lavoro e praticantato a Roma è tornato nel luogo dove è nato. La storia di Radio Delta sembra quella delle radio libere che in Italia sorgevano a cavallo degli anni ‘70. Nata nel 2008 quasi per gioco, è diventata un importantissimo punto di riferimento per l’isola e vi collaborano venti conduttori che si alternano ai microfoni in modo volontario. La nascita di questa radio ha inoltre permesso di far arrivare le frequenze di altre 12 radio nazionali che ora trasmettono sul territorio. Prima, per ascoltare la radio occorreva sintonizzarsi con lo Scirocco che portava il suono delle sponde sud del Mediterraneo.
Alternativa Giovani lavora anche su diversi progetti, impegnandosi con serietà e consapevolezza in diversi ambiti sociali e culturali dell’isola. La prima attività, finanziata con i fondi otto per mille delle chiese valdesi e metodiste, è quella di tutoraggio scolastico rivolto ai bambini delle elementari per contrastare i fenomeni di abbandono e di devianza giovanile. Il secondo, finanziato dal Ministero delle politiche sociali, è un progetto per gli anziani volto a promuovere una nuova idea di vecchiaia e rafforzare la solidarietà tra le vecchie e le nuove generazioni. Di prossimo avvio, un terzo progetto finanziato dal Ministero della gioventù, avente l’obiettivo di fare cittadinanza attiva con i giovani delle scuole superiori. Non si contano poi tutte le attività ricreative e di solidarietà portate avanti dall’associazione nel corso del tempo, come essere in prima linea, senza cercare le telecamere, durante gli approdi dei migranti, soprattutto negli anni più difficili per l’isola. Un lavoro quindi fortemente radicato sul territorio, ma anche attento a comprenderne i bisogni, cercando di offrire pratiche di intervento attivo nei più svariati ambiti, culturale, sociale, educativo, ricreativo e comunicativo.
Filippo Mannino, nell’intervista a Mediterranean Hope (https://www.youtube.com/watch?v=b4-ddOoZvWQ), racconta: “Come giovani ci impegniamo per essere utili alla società, preferendo investire i lunghi pomeriggi invernali in qualcosa di utile. Lampedusa e le isole Pelagie in generale, sono isole che hanno bisogno di forze nuove, che hanno bisogno di giovani e nuove mentalità per andare avanti”. Mannino prosegue sollevando le difficoltà che riguardano Lampedusa: “Questo territorio ha tantissimi disagi dovuti alla questione dell’insularità principalmente. Per cui pensiamo che sia fondamentale l’apporto e il contributo che può essere dato dai giovani su diversi aspetti della vita, l’ambiente, il sociale, gli anziani, la cultura”. Proprio rispetto al progetto con gli anziani, risulta fondamentale l’impegno e l’interesse nel costruire e riscoprire l’identità dell’isola, anche attraverso la memoria storica di chi da tanti anni vive in questo scoglio e ne ha visto i molteplici e veloci mutamenti. “Si può raccontare e riscoprire l’identità dell’isola – continua Mannino – proprio con quello che stiamo facendo, andando ad ascoltare gli anziani, registrando quello che è il loro vissuto, le loro esperienze di vita, come si viveva una volta, com’era Lampedusa tanti anni fa”. L’interesse non è però solo quello di riscoprire il passato dell’isola ma anche di promuovere dialogo e solidarietà tra vecchie e nuove generazioni, sperando che attraverso il racconto e l’incontro si possa tramandare qualcosa che altrimenti rischierebbe di andare perduto, qualcosa che invece fa parte della storia di questo scoglio nel cuore del Mediterraneo e che potrebbe costituirne il più fertile terreno per la creazione di un’identità comune.
Mannino ci racconta anche cosa significa vivere a Lampedusa, lo “scoglio” appunto come usano chiamarlo, un’isola che “ha lati positivi e lati negativi”. Per chi ci è nato e cresciuto è meno difficile viverci perché si impara ad abituarsi a quello che questo luogo offre, ma certo gli aspetti negativi dell’insularità non mancano. La scelta obbligata di un certo percorso scolastico, la sanità e l’assenza di un punto nascite, la difficoltà dei trasporti, il carovita. “Però poi – conclude Mannino – hai un mare che altre località non offrono, hai uno stile di vita che è molto più sano, un quieto vivere che in una città non puoi trovare facilmente”.
Notizia del 26 novembre 2014
Un’isola per i diritti di tutti
Di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa si tinge ancora di iniziative belle e importanti per la popolazione dell’isola. La stagione estiva è finita ma c’è ancora la presenza di associazioni ed eventi che coinvolgono gli abitanti. In questi giorni il lavoro intenso e ispirato di IBBY Italia ha riacceso la passione e la speranza di riuscire ad avere una biblioteca per bambini e ragazzi in questo luogo nel cuore del Mediterraneo, decisamente affamato di conoscere il mondo anche attraverso la lettura. IBBY (International Board on Books for Young People) è un’organizzazione internazionale no-profit che si impegna a far incontrare i più giovani con il mondo dei libri, difendendo il diritto alla lettura, una lettura di qualità in grado di far conoscere ai più piccoli altre realtà e tradizioni per sviluppare una cultura del confronto, della pace e della tolleranza. Come si legge dal sito ufficiale di IBBY Italia (http://www.bibliotecasalaborsa.it/ragazzi/ibby/) “i libri possono aiutare un bambino che cresce in un contesto difficile ad avere una migliore qualità della vita”, ed è proprio a partire da questa idea che è nato il progetto di una biblioteca a Lampedusa.
Una delle responsabili, Deborah Soria, racconta il percorso di questi anni in un’intervista a Mediterranean Hope: “Quando c’è stata la crisi del 2011 sentivo dell’arrivo di tante persone tra cui sapevo esserci tanti minori, quindi ho iniziato a pensare alla loro accoglienza. Siccome IBBY usa la letteratura in modo che i ragazzi soffrano di meno nei cambiamenti e nelle differenze nella loro vita, lavora anche con i migranti, con le persone che hanno subito grandi traumi come un terremoto, pensando che la lettura possa diventare un luogo sicuro” (vedi canale YouTube di Mediterranean Hope). Inizia così una raccolta internazionale di libri “senza parole”, in grado di parlare e interagire con bambini di tante lingue diverse, alcuni dei quali fanno parte di una mostra che sta girando il mondo – “Libri senza parole. Destinazione Lampedusa” – e altri sono nella biblioteca dell’isola. Ma il progetto si è poi andato ampliando con la scoperta che a Lampedusa non era presente una biblioteca per ragazzi, nonostante i bambini fossero più di mille. Considerando l’impegno di IBBY per garantire ai più piccoli il diritto di leggere è iniziata quindi una fase per istituire una biblioteca che contenesse libri per i bambini italiani oltre che di altre provenienze. “L’idea – continua Soria – era quella di fare una biblioteca nel centro del Mediterraneo e dai cui partissero nuovi modi di accogliere attraverso la letteratura i bambini di quest’area”. Da più di due anni un gruppo di energici volontari è impegnato per lo sviluppo di questo spazio vitale di lettura, confronto e crescita e svolge diversi camp in cui attraverso iniziative pubbliche e nelle scuole venga diffusa la cultura e l’amore per i libri.
L’impegno e la passione sono grandi, ma le difficoltà non mancano. Lo spazio adibito alla biblioteca non è ancora del tutto pronto ad accogliere i bambini in un luogo che sia sano e bello, e nonostante il Comune detenga in fondi adeguati per il progetto ancora non si sa con precisione quando inizieranno i lavori e quindi quando si potrà avere una biblioteca funzionante a tutti gli effetti. La determinazione di IBBY è forte ma non è sufficiente per portare avanti un impegno che deve essere sentito prima di tutto dal territorio e dalla popolazione di Lampedusa. Sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze dell’isola i primi a pagare l’assenza di una biblioteca, sono i primi a cui viene negato un diritto che deve essere di tutti, quello di leggere, imparare, sognare attraverso uno spazio che sia pubblico e di tutta la cittadinanza.
Il lavoro di IBBY in questi giorni non è stato solo di offrire iniziative guidate da preparatissimi volontari con i più svariati talenti, non è stato solo quello di consigliare con passione i libri ai diversi piccoli lettori che si sono precipitati ogni giorno nella biblioteca, ma è stato anche quello di intessere relazioni con il territorio, le associazioni, i genitori, gli insegnanti, affinché questa diventi una battaglia di tutti i lampedusani per il futuro dei propri figli. Deborah Soria sottolinea l’importanza della lettura in un luogo come Lampedusa: “crescere con i libri significa essere capaci di conoscere i pensieri degli altri e percepire che gli altri sono come noi e quindi avere molta meno paura della vita. Nascere su un’isola e non avere accesso a nessuna altra forma di pensiero è gravissimo, da qui quindi questa voce è più forte perché si percepisce che Lampedusa è un posto speciale”. L’impegno dovrebbe quindi spettare prima di tutto agli adulti, per permettere ai propri figli di accedere a diverse forme di pensiero e aprirsi al mondo al di là di queste coste bellissime. La forza prorompente di IBBY e dei volontari, ma anche gli occhi luccicanti dei bambini e ragazzi che in questi giorni si sono recati in biblioteca ha dato la spinta per creare un gruppo di volontari che nei prossimi mesi continuerà a tenere il servizio attivo. Speriamo che l’iniziativa possa estendersi sempre di più alla popolazione e assumere un carattere continuativo nel tempo.
Proprio in questi giorni da Lampedusa è partita anche un’altra importante iniziativa, una carovana italiana per i diritti dei migranti, per la dignità e la giustizia (http://carovanemigranti.org/) nata in sinergia con i Movimento Migrante Mesoamericano e le madri del Centroamerica che cercano i propri figli scomparsi nella pericolosa e mortale traversata del confine tra Messico e Stati Uniti. Un altro evento per difendere i diritti dei più vulnerabili, affinché possano vivere in condizioni umane e dignitose. Colpisce in modo feroce la testimonianza di Mounira Chagrani, portavoce delle famiglie tunisine che cercano i parenti scomparsi dopo le primavere arabe. Mounira cerca disperatamente da anni il figlio sfuggito alle persecuzioni politiche nel 2011, e con lui altri giovani che sono approdati a Lampedusa e di cui non si ha più traccia. Sono tanti i percorsi di difesa dei migranti e di quanti sfidano i più tremendi pericoli per costruirsi un futuro migliore. Lampedusa diventa quindi nuovamente luogo simbolico in cui poter chiedere la difesa dei diritti dei più deboli, madri che cercano i propri figli dispersi, o figli più fortunati che però non sanno di avere il diritto a crescere in un mondo di confronto, apertura e tolleranza.
Mediterranenan Hope ha come obiettivo di essere al centro di tutte queste iniziative, di portare una testimonianza viva e appassionata affinché non ci si limiti a difendere i diritti di alcuni e non di altri, perché è solo superando le barriere del “noi” e del “loro”, del diverso da me, che si può costruire un fronte comune per la difesa dei diritti che devono essere garanti a tutti, grandi e piccini.
Notizia del 19 novembre 2014
Nessun ghetto, ma solidarietà che integra
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 19 novembre 2014 – Più di una settimana è passata dagli scontri e dalle tensioni nel quartiere di Tor Sapienza a Roma e purtroppo non è che l’inizio. Abbiamo seguito le vicende di questi giorni con non poca preoccupazione così come l’evolversi del sistema di accoglienza in Italia al cessare di Mare Nostrum. Quanto è accaduto a Tor Sapienza ci sconforta ma ci obbliga a riflettere sulla direzione in cui sta andando il nostro paese rispetto alle politiche di accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo. La situazione nel quartiere di Roma porta alla luce un grande limite che da tempo diverse associazioni che lavorano con i migranti denunciano, cioè la creazione di “zone ghetto” in cui povertà e disagio si accumulano e dove i rifugiati vivono separati e isolati dal territorio in cui sono inseriti. La divisione tra “italiani” e “stranieri”, tra “noi” e “loro”, acuisce la percezione di essere cittadini e non-cittadini con trattamenti diversi, alcuni “avvantaggiati” dalla disponibilità di alloggi, pasti, sostegni economici e altri invece lasciati nelle difficoltà della crisi e della povertà. I rifugiati e richiedenti asilo, visti da molti italiani come “privilegiati”, sono in realtà trattati come cittadini di “serie b” a cui il diritto di richiedere protezione viene spesso negato, o avviato con procedure lente e immobilizzanti. Mesi di attesa senza essere persone libere di costruire la propria vita, decidere se raggiungere altri paesi europei, ricongiungersi ai familiari, cercare un lavoro o un alloggio. Attese passate in centri di accoglienza che spesso faticano a seguire individualmente i percorsi di ogni richiedente asilo perché le risorse sono insufficienti rispetto alle necessità, o perché, invece, finiscono nelle tasche di chi specula sulla pelle dei migranti, inseriti a centinaia in luoghi a libertà limitata. I richiedenti asilo sono spesso trattati come ospiti temporanei ai quali non serve conoscere la realtà in cui vivono, il paese in cui sono approdati, la città in cui sono stati trasferiti, il quartiere in cui sono stati alloggiati. I centri di accoglienza vengono così percepiti come qualcosa di estraneo alla storia del territorio, un luogo in cui si sovrappongono le necessità di fasce deboli della popolazione a quelle di chi già vi abita. Queste situazioni sono poi aggravate da una campagna mediatica che disinforma e crea allarme, insistendo sulla paura legata all’ordine pubblico, ai reati e alle violenze. Non solo, l’arrivo visibile di aiuti ai migranti, come pasti e beni primari, sembra contrapporsi all’invisibilità che spesso circonda chi vive situazioni di estrema povertà nelle nostre città, aumentando rabbia e frustrazione tra i cittadini. Questa continua separazione tra italiani e stranieri mette profondamente gli uni contro gli altri, crea una gara a chi è più in difficoltà e quindi avente diritto di un aiuto da parte dello stato e non solo. Diventa una “guerra tra poveri” come è stato spesso detto e scritto (http://ilmanifesto.info/la-retorica-della-guerra-tra-poveri/), una lotta in cui nessuno può uscirne vincitore, trasformandosi spesso anche in una xenofobia strumentalizzata da forze politiche di estrema destra.
Allora si dovrebbe iniziare a scardinare questa divisione tra “noi” e “loro”, lavorare affinché prima di tutto i propri vicini, altrettanto bisognosi, non rimangano sconosciuti da additare ma persone con cui fare fronte comune per chiedere insieme che i propri diritti siano rispettati. Persone quindi, non categorie. Diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione, alla cittadinanza, alla libertà di spostamento possono davvero essere diritti solo di alcuni e non di altri? Non sono diritti da garantire a tutti gli essere umani, che siano di una provenienza o di un’altra? Che abbiano subito violenze in paesi di guerra o vivano la povertà e il degrado nelle nostre città? Partendo da queste riflessioni dovremmo forse anche noi criticare il modello di “accoglienza per gli immigrati”, ragionando invece di una solidarietà e di un’accoglienza che cerchi di rivolgersi a tutte le persone in difficoltà, non cancellando le differenze ma valorizzandole. Separare “categorie” della popolazione significa frammentare l’idea stessa di società, spezzare la forza di un’umanità che invece potrebbe essere travolgente se costruita insieme, condividendo battaglie, sconfitte e rivendicazioni. Le politiche di accoglienza si stanno limitando a chiudere le persone nei centri, annullando la loro possibilità di interagire con la realtà circostante, e allo stesso tempo i media continuano a mostrare solo un aspetto del fenomeno migratorio, senza dare mai voce ai protagonisti. Migranti visibilmente debilitati vengono raccolti dalle imbarcazioni in mare, fatti attendere giorni prima di essere portati sulle nostre coste, dove vengono “accolti” da forze dell’ordine dispiegate come se arrivasse un esercito nemico o una possibile infezione. E poi ancora persone separate, spostate, numerate, trasbordate, ricollocate, distribuite in diversi luoghi. Nessuna parola sul perché fuggono dalle guerre, niente sulle loro storie, queste persone si materializzano nel presente televisivo e vi restano confinate, senza passato né futuro. Questo è il ritorno al pre Mare Nostrum. La fine dell’operazione è già visibile nei luoghi di approdo e si inserisce in questo contesto di spersonalizzazione, inferiorizzazione e separazione dei migranti. Questo è il destino di chi ha la fortuna di arrivare salvo, gli altri invece, i morti, spariscono per sempre.
Possiamo veramente credere che questi siano trattamenti per privilegiati? Queste persone private della loro soggettività, in attesa di essere riconosciute come esseri umani portatori di diritti, sono persone in sospeso, vittime di un sistema lento e contraddittorio. I rifugiati e richiedenti asilo, attraverso questi percorsi di accoglienza, vengono resi diversi dagli altri cittadini, diventano prima un soggetto debole, poi un nemico su cui riversare la frustrazione sociale. Perché striscioni, urla e indignazione non vengono rivolte alle politiche del nostro paese che ci fanno subire una crisi da cui non riusciamo a uscire? Perché non ci rendiamo conto di essere strumenti di odio invece che poter diventare una forza prorompente e costruttiva per rivendicare insieme i diritti che sono di tutti?
Ci sentiamo diversi da chi approda sulle nostre coste ma in realtà vogliamo tutti poter avere un futuro migliore, la possibilità di costruircelo liberamente e con le nostre forze. Invece di capire che non siamo poi così estranei, ci urliamo addosso, favorendo le politiche dell’odio e della separazione.
Da esseri umani, da cittadini, da cristiani, dobbiamo percorrere un’altra strada. Lo dobbiamo fare partendo dai nostri territori, dai nostri quartieri, dalle nostre città, dal nostro paese. Il lavoro che stiamo avviando a Scicli con “Mediterranean Hope – Casa delle culture” va proprio in questa direzione. La costituzione di un luogo di mutuo soccorso dove vivere la solidarietà tra persone, in cui sperimentare la convivenza tra diverse esigenze e ricchezze, quelle di chi arriva nel nostro paese e di chi già vi abita. Da giorni ci viene rimproverato di collocare la Casa delle culture nel centro storico del paese, sotto gli occhi di tutti, cittadini e turisti, nella zona commerciale e ricca della città. Ci viene chiesto di spostare questa iniziativa, «umanamente lodevole», in periferia o perché no affacciata sul mare. La convinzione del nostro progetto però non cambia ed è anzi opposta a questo modo di pensare: noi stiamo costruendo un luogo di incontro, di integrazione, di solidarietà per tutti. Non vogliamo acuire situazioni di disagio ma affrontarle insieme senza nasconderci e senza creare nuovi ghetti e nuove povertà. Perché aiutarsi non può essere qualcosa fatto lontano dagli occhi ma deve essere una chiara presa di coscienza e di impegno che riguarda tutto il territorio e tutti i cittadini.
Notizia del 12 novembre 2014
Le frontiere mobili del Mar Mediterraneo
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 12 novembre 2014 – Frontiere esterne e frontiere interne, barriere e procedure burocratiche che i migranti si portano addosso, ma non solo questo, anche nuove proposte e metodi di ricerca sul campo per analizzare e comprendere a fondo un fenomeno che cambia continuamente. Questo è il percorso che Fulvio Vassallo sta sviluppando da anni e che ha preso forma nel convegno internazionale dal titolo “Le frontiere mobili del Mediterraneo” tenutosi nei giorni scorsi a Palermo. Vassallo introducendo i lavori ha ricordato come cambiano le frontiere, attraverso procedure, linguaggi, dispositivi giuridici e burocratici che si modificano in continuazione a seconda delle diverse fasi politiche, che investono i paesi del Mediterraneo. Il professore Alessandro Dal Lago invece si è concentrato sul rapporto tra migrazioni contemporanee e la guerra. “Nel 2005 – ha detto Dal Lago – assistevamo ad un’epoca in cui i conflitti armati erano già diffusi, ma non erano ancora emersi come questione principale. Il tema migratorio veniva collegato ai grandi fenomeni sociali ed economici, non all’aspetto della guerra”. Partendo dalla questione della guerra nella sponda sud del Mediterraneo Anas El Gonati, del Sadeq Institute di Tripoli, ha analizzato le varie rotte dei migranti partendo proprio dalla questione libica, raccontando di come le recenti elezioni stiano determinando una nuova fase molto conflittuale nel paese. “Negli ultimi mesi in Libia – racconta il giovane ricercatore – per la prima volta è caduto il velo che nascondeva la situazione nel paese e oggi ci troviamo di fronte ad una serie di contraddizioni”. El Gonati ha ricostruito in termini storici ed economici la vicenda libica partendo dall’insediamento di Gheddafi fino ai giorni nostri, descrivendo come i processi politici avviati in quel periodo abbiano mutato antropologicamente il paese, il suo apparato statale e comunicativo, contribuendo all’attuale fase di caos ora padroneggiata dalle tribù. A ricostruire invece i passaggi della catena del traffico umano che contraddistingue oggi la Libia è stata Nancy Porsia. La giovane giornalista, che si trova al confine tra Tunisia e Libia, ha mostrato un quadro generale rispetto all’industria del traffico umano in Libia e di come questa industria si adatti al contesto socio politico e militare in continuo cambiamento nel paese. Molto interessante è stata la spiegazione della giornalista sulle motivazioni per cui nel 2014 la Libia è diventata un veicolo per i trafficanti. “In molti hanno puntato il dito contro Mare Nostrum come elemento attrattivo, esso però non è l’unico fattore. E’ vero che con il minimo dello sforzo i trafficanti garantivano il passaggio in Europa preoccupandosi di gestire una breve tratta di mare. Ma l’elemento principale invece è considerare l’anarchia in Libia, che diventa opportunità d’ingresso e di passaggio. La rotta da Sud è più facile, acque più basse e meno pericolose”. Porsia ha raccontato poi di come lo stato di anarchia in Libia stia permettendo a trafficanti non professionisti di improvvisarsi professionisti promettendo viaggi low cost. Ha concentrato invece il suo intervento sulla questione delle categorie tra il “noi” e il “loro” la professoressa Clelia Bartoli: “normalmente la ridefinizione del confine avviene attraverso le guerre. È possibile – si è chiesta – ripensare queste categorie in modo non belligerante avendo una visione più utile rispetto al chi rientra nel noi?”. Prima di ogni lotta di classe, riprendendo Bourdieu, la Bartoli ha affermato che “c’è una lotta di classificazione. Per questo è necessario costruire una rete transnazionale che comunichi. Questo rende possibile un’autonomia di circolazione che ridefinisce il noi attraverso un processo di libertà. Molto interessanti infine le relazioni della professoressa Sciurba e del professor Santoro che hanno approfondito il tema delle nuove contraddizioni aperte dal diritto soggettivo dei rifugiati e richiedenti asilo e le riflessioni del professor Paolo Cuttitta sulla relazione tra il tema dell’accoglienza e del controllo nelle frontiere mobili nel tempo di Mare Nostrum.Questi sono alcuni degli interventi interessanti e approfonditi che hanno caratterizzato il convegno tenutosi all’Università di Palermo. Risulta evidente quanto il fenomeno migratorio sia complesso, quanti fattori lo compongano e vi interagiscono, ampliando la prospettiva di analisi e comprensione molto di più di quanto si riesca a fare tramite l’informazione resa dai media nazionali.(Materiali del Convegno disponibili su: http://mediterraneanhope.wordpress.com/2014/11/12/le-frontiere-mobili-del-mediterraneo/)
Notizia del 5 novembre 2014
“La giusta verità” sulla Casa delle culture a Scicli
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 5 novembre 2014 – Ieri sera presso la chiesa metodista di Scicli si è svolta un’assemblea aperta alla cittadinanza organizzata dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), per ripristinare “la giusta verità” rispetto all’apertura di Mediterranean Hope – Casa delle culture. All’assemblea, moderata dall’operatrice di Mediterranean Hope Giovannella Scifo, erano presenti il presidente della FCEI, pastore Massimo Aquilante, e il pastore di Scicli Francesco Sciotto.Questo incontro, organizzato a qualche giorno di distanza da quello indetto dalla cittadinanza il 31 ottobre, aveva il principale obiettivo di incentivare il dialogo con quanti in questi giorni hanno raccolto delle firme contro l’apertura del centro.Massimo Aquilante ha iniziato l’assemblea ricordando quando a fine settecento Wesley scrisse al parlamentare inglese William Wilberforce, che aveva iniziato la battaglia contro la tratta degli schiavi, queste parole “a meno che Dio non ti abbia messo in movimento per questa cosa specifica, tu andrai incontro all’opposizione degli uomini e del diavolo. Ma se Dio è per te chi sarà contro di te?”. Il pastore Aquilante ha utilizzato il racconto di questo scambio epistolare per ricordare il lavoro che da decenni la chiesa di Scicli svolge nel territorio, configurandosi come “una risposta a Dio che ci mette in movimento”. Aquilante ha proseguito: “noi non siamo interessati a giochetti di politicanti, giochetti di parte, divisioni ideologiche. Ci interessa invece lavorare insieme ai nostri connazionali, ai nostri concittadini di Scicli, per contribuire alla crescita culturale, civile, sociale, e perché no, spirituale della città”.Non serviva aspettare la tragedia del 3 ottobre scorso per dare vita a un progetto come Mediterranean Hope, questo era già nella mente della FCEI, che ormai da molti anni si spende con programmi di accoglienza e integrazione per i migranti. Questo progetto si sta sviluppando in due direzioni di impegno. La prima riguarda l’informazione attraverso l’Osservatorio a Lampedusa, intesa come capacità di raccontare la questione delle migrazioni oggi, con tutte le sue sfaccettature e cambiamenti. Il pastore Aquilante ha sottolineato come le persone che arrivano nel nostro paese non siano più in prevalenza migranti economici ma quanti sono costretti a scappare da violenze, guerre e persecuzioni. La peculiarità dell’Osservatorio a Lampedusa è quella di parlare non solo all’Italia ma anche fuori dal nostro paese, per raggiungere le chiese sorelle in Europa affinché si possano cambiare insieme le attuali politiche di immigrazione, risvegliando la coscienza di ogni credente e cittadino.Il secondo aspetto di Mediterranean Hope è invece legato al lavoro di Scicli. A Scicli Mediterranean Hope intende lavorare sull’integrazione, ma – ricorda Aquilante – superando i semplici slogan. “L’integrazione è una sfida faticosa che tende a costruire non solo l’incontro ma la crescita, la convinzione che si può vivere insieme mettendo a frutto ciò di cui ognuno è portatore. E noi vogliamo essere portatori del principio democratico. Quello che vogliamo fare con la Casa delle culture – ha proseguito il presidente della FCEI – è mettere a disposizione ciò che abbiamo affinché la cittadinanza di Scicli possa crescere rispetto al problema specifico delle grandi migrazioni, perché è questa la storia che ci troviamo a vivere in questo tempo.” Aquilante ha inoltre ribadito che il progetto Mediterranean Hope è interamente sostenuto con i fondi dell’8 per mille delle chiese valdesi e metodiste, smentendo l’accusa rivolta in questi giorni che l’intento del lavoro che si svolgerà a Scicli sia quello di approfittare di soldi statali speculando sulla pelle dei migranti. Il pastore Francesco Sciotto è poi intervenuto per sottolineare l’importanza di utilizzare per la Casa delle culture uno spazio storicamente importante per la città, situato nella zona centrale e commerciale e ora adibito per qualcosa di nuovo e interessante. “Noi questo spazio lo stiamo restituendo alla città. E lo vorremmo riempire dialogando con la città di Scicli, immaginandoci insieme spazi di socializzazione, che non siano solo risposte alle esigenze del territorio ma anche spazi di divertimento, di gioia e condivisone.” Il pastore Sciotto ha poi riflettuto su come la presenza di migranti in alcuni luoghi abbia permesso la scoperta di nuove e antiche abilità che i territori non si immaginavano di avere: “noi non vogliamo fare assistenzialismo ma riattivare vitalità e fantasia.” Il pastore di Scicli ha anche ribadito che per noi è forte la consapevolezza che l’immigrazione sia diventata un business, aspetto che abbiamo sempre criticato e denunciato, ma “con il nostro lavoro vorremmo dimostrare che è possibile attivare forme di accoglienza senza lucrare sulla pelle dei poveracci”. Inoltre, le accuse che sono state rivolte alle nostre chiese in questi gironi, cioè di occuparci solo di migranti e non pensare agli italiani, sono inaccettabili, ancor di più in un territorio come quello siciliano dove i progetti di sostegno per le fasce più deboli della popolazione sono numerosissimi.Tra gli intervenuti all’incontro il presidente del Consiglio Comunale Guglielmo Ferro ha rimarcato come l’assenza dei firmatari della petizione popolare contro la Casa delle culture sia stata un’occasione persa e un gesto sminuente verso la sensibilità di tutta la cittadinanza.
Notizia del 29 ottobre 2014
Mediterranean Hope: Un centro di accoglienza solidale
Lampedusa, Agrigento (NEV), 29 ottobre 2014 – Sarà un centro di accoglienza interculturale e solidale, sarà un luogo in cui le persone che vivono situazioni di crisi potranno trovare aiuto senza distinzione di cittadinanza, religione e cultura d’origine.
Il centro di accoglienza che aprirà a Scicli non sarà un luogo separato e chiuso, ma un luogo aperto ai bisogni del territorio, alla partecipazione di chi pensa che la solidarietà sia più forte della rassegnazione e della paura. Finanziato completamente dall’8 per mille delle chiese valdesi e metodiste, senza nessuna convenzione economica con lo Stato, la struttura avrà un primo piano nel quale collocare le attività di solidarietà per e con il territorio mentre i piani superiori saranno destinati ad un pronto soccorso abitativo per le famiglie sciclitane colpite dalla crisi e per progetti di inserimento per i rifugiati e richiedenti asilo che approdano in Italia.
Il progetto è inoltre collegato alle attività che la Chiesa evangelica metodista di Scicli svolge a sostegno della popolazione locale, sarà portato avanti da operatori sociali di Scicli che verranno regolarmente assunti e da volontari provenienti sia dalla Sicilia che dal resto del mondo.
Il concetto nuovo che questo progetto vuole affermare è quello di un intervento sinergico tra le azioni di solidarietà rivolte alle persone costrette a fuggire da paesi afflitti da guerre e persecuzioni e persone che vivono in una situazione di crisi economica nel nostro paese. Molte delle attività del progetto, come la mensa interculturale, lo spaccio alimentare che prevede sia una distribuzione di prodotti alimentari per le famiglie in difficoltà sia uno spazio dedicato ai gruppi di acquisto solidale, sono pensate per sostenere persone colpite dalla crisi tanto quanto le filiere corte di produzione agricola a kilometro zero, dando supporto agli agricoltori locali che si trovano in difficoltà .
Rivolti a tutti saranno anche gli sportelli sociali rispetto alla casa, alla cittadinanza e ai diritti, così come l’ambulatorio popolare, dove si pensa di avviare l’esperienza del dentista sociale per offrire cure odontoiatriche a quanti non possono permetterselo.
In tempi di crisi il centro di accoglienza solidale diventerà quindi un luogo in cui sarà possibile progettare e sperimentare nuove forme di solidarietà e di mutuo soccorso tra cittadini, senza tralasciare l’elemento di arricchimento interculturale che strutture del genere possono avere per l’intera economia sciclitana e siciliana.
Un progetto di tale portata, la sua dimensione innovativa, è senza dubbio una sfida in un momento in cui riemergono nella nostra società le paure arcaiche di un tempo. Paure che vanno comprese e alle quali occorre dare risposte chiare, senza perdere la centralità del messaggio di amore, solidarietà e speranza che Cristo ci insegna ogni giorno.
Con il progetto di Mediterranean Hope si vuole ribadire fermamente che la solidarietà, soprattutto nei momenti più difficili, è lo strumento più forte per affrontare il presente e progettare il futuro, ed è in questa prospettiva che lavorerà il centro di accoglienza a Scicli.
Notizia del 22 ottobre 2014
Spese militari e politiche dell’accoglienza: una riflessione necessaria
A cura di Marta Bernardini e Francersco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 22 ottobre 2014 – Ci sarebbe da chiedersi perché in Italia l’opinione pubblica sia concentrata su quanto si spende per i migranti e non lo sia altrettanto per i sistemi di guerra che si stanno sviluppando nel nostro Paese.Se c’è un luogo in cui questa domanda si pone oggi in tutta evidenza è Lampedusa, isola di salvezza da sempre ma anche di reclusione, frontiera aperta o reticolato che respinge. In questi giorni nell’isola si sta discutendo e ci si sta confrontando sulla presenza di radar, sia su quelli installati da tempo sia su quelli che sostituiranno i precedenti. In tempi recenti una vicenda simile è avvenuta in Sicilia rispetto al sistema di telecomunicazioni satellitare MUOS, questione tuttora aperta e tema caldo per la politica siciliana.
Lampedusa, in questi giorni, ha visto scendere dalla nave tre grandi camion verdi dell’aeronautica militare che trasportavano un nuovo radar, un evento che ha provocato forte preoccupazione tra gli abitanti dell’isola, che chiedono delucidazioni per gli effetti che questi sistemi, presenti sia sul lato di ponente che di levante dell’isola, possono avere sulla salute della cittadinanza. L’associazione Askavusa e le mamme di Lampedusa sono state gli organizzatori di una raccolta firme (http://askavusa.wordpress.com/) e di una iniziativa pubblica nella quale si è informata la popolazione locale dei rischi derivanti dall’esposizione alle onde radar. Le associazioni chiedono innanzitutto trasparenza sugli atti e sugli effetti dei radar sui cittadini e si sono attivate per spegnere almeno uno di questi sistemi, viste le sentenze del TAR che hanno disposto per altre regioni il rispetto del principio di cautela per la popolazione. Questa lotta sarà un processo lungo, fatto di ricorsi, perizie e controperizie.
Il sistema radar che l’Italia sta sviluppando, di cui quello di Lampedusa è una parte, costerà quasi trecento milioni di euro. Una cifra elevata, ma se consideriamo che l’Italia spende ogni giorno circa 70 milioni di euro per le spese militari e per gli armamenti (http://www.voltairenet.org/article185247.html), ci rendiamo conto che quella dei radar è solo la punta di un iceberg. Una cifra colossale che, come dicevamo, non è oggetto di discussione nell’ambito pubblico pur di fronte ad un periodo di forte crisi, dove invece il tema dominante sembra essere l’estrema spesa per le politiche di accoglienza dei migranti e rifugiati politici.
Ma quanto si spende per i migranti e per le politiche di accoglienza? C’è da dire, prima di tutto, che ragionare in termini economici fa passare in secondo piano l’importanza di investire per garantire i diritti a una vasta parte della popolazione. Le persone vengono ancora una volta oggettivate e rese numeri all’interno di un bilancio.
Un esempio lampante è dato dalla vicenda di Frontex. Come scrive il portale Redattore Sociale (http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/464412/Per-la-Fortezza-Italia-una-spesa-7-volte-maggiore-dell-aiuto-ai-rifugiati) la maggioranza della spesa europea non è per l’accoglienza ma per la lotta all’immigrazione clandestina e per i dispositivi di controllo delle frontiere, che spesso sono sviluppati con finanziamenti europei per essere poi utilizzati in ambito militare (http://www.meltingpot.org/UE-nuovi-investimenti-per-programmi-militari-di-chiusura.html#.VEdvEvmsXDs).
Per quanto riguarda l’Italia, il rapporto più dettagliato che conosciamo è quello pubblicato da Lunaria, che si riferisce al periodo tra il 2005 e il 2012 e che, quindi, non tiene conto dei costi di Mare Nostrum, la cui spesa è di circa 100 milioni l’anno, molto inferiore ad esempio a quella di 185 milioni della missione in Afghanistan (http://www.analisidifesa.it/2014/07/il-governo-stanzia-446-milioni-per-le-missioni-oltremare/). Nel rapporto di Lunaria si evidenzia come nel 2011, nonostante i cittadini stranieri paghino contributi consistenti sia per il livello pensionistico che per i servizi, alle politiche di accoglienza venga destinata una risorsa minimale della spesa, si parla dello “0,017% della spesa pubblica complessiva rispetto allo 0,034% di incidenza degli stanziamenti destinati alle politiche del rifiuto” (http://www.cronachediordinariorazzismo.org/i-diritti-non-sono-un-costo/spendiamo-troppo-per-accogliere-gli-immigrati/).
Purtroppo mancano degli studi più aggiornati sui reali costi delle politiche di contrasto all’immigrazione e le politiche di accoglienza nel nostro paese, e a volte la connessione tra i due temi è talmente stretta da risultare impossibile separare le voci. Mare Nostrum, ad esempio, è un’operazione che è stata pensata sia per il salvataggio dei migranti ma anche per il contrasto delle organizzazioni criminali che programmano i viaggi dei profughi in fuga. I dati dell’inchiesta di Lunaria ci dicono che in Italia, dal 2005 al 2012, gli stanziamenti ordinari destinati alle politiche di accoglienza e di inclusione sociale dei migranti si aggirano intorno ai 123,8 milioni di euro l’anno, pari a circa la metà di quelli mediamente destinati alle politiche del rifiuto, circa 247 milioni l’anno.
Allo stesso modo, manca un’analisi dettagliata delle denunce fatte a quegli enti ed associazioni che continuano a speculare sulla pelle dei rifugiati e richiedenti asilo, così come è assente uno studio adeguato sulla qualità degli interventi rispetto a tutte quelle procedure considerate emergenziali (http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2014/05/06/news/la_grande_truffa_dei_centri_accoglienza-85402037/?fb_action_ids=857593834271725&fb_action_types=og.recommends).
A Lampedusa, il legame tra processi militari e politiche di accoglienza sembra essere più evidente che altrove. Ma, come ricordiamo sempre, quest’isola è un pezzo di Italia, e quello che succede alla frontiera determina effetti anche al centro. Il costo più alto rimane comunque quello della perdita di vite umane, più di 3000 dal solo inizio del 2014.
Notizia del 15 0ttobre 2015
“Mos Maiorum” e l’irrigidimento europeo
Acura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 15 ottobre 2014 – A pochi giorni dalle commemorazioni del 3 ottobre, data in cui l’anno scorso persero la vita in un tragico naufragio 368 persone vicino alle coste di Lampedusa, si comincia a delineare il sistema degli interventi di controllo delle frontiere europee,
Proprio il 3 ottobre scorso, sull’isola, diversi politici hanno fatto molte dichiarazioni impegnative per commemorare i morti in mare e offrire promesse di cambiamento. Lo stesso era già successo lo scorso anno. Ma quello che invece emerge ancora una volta è una netta distanza tra le parole e la realtà dei fatti. Le notizie di questi giorni ci dicono che dal 13 al 26 ottobre è partita “Mos Maiorum”, un’operazione congiunta di polizia, lanciata dalla Presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea, per controllare le principali rotte di immigrazione illegale all’interno delle frontiere d’Europa.
Un’operazione che a nostro avviso colloca ancora una volta il tema dell’immigrazione come questione di ordine pubblico, utilizzando la retorica della lotta agli “scafisti” come elemento giustificativo per portare avanti azioni che rischiano di colpire i più deboli. Una filosofia d’intervento che appare ben lontana dall’idea di progettare corridoi umanitari e sviluppare forme di accoglienza degna per difendere e tutelare migliaia e migliaia di profughi e richiedenti asilo che continuano a scappare da paesi in guerra.
Mos Maiorum avrebbe lo scopo, come espresso dal documento del Consiglio dell’Unione Europea (http://www.statewatch.org/news/2014/sep/eu-council-2014-07-10-11671-mos-maioum-jpo.pdf), di raccogliere informazioni sulle rotte migratorie, sulle pratiche illegali di passaggio delle frontiere e sulle organizzazioni criminali di trafficanti di uomini. Di fatto, con il dispiegamento di 18.000 funzionari di polizia, questa sembra essere più che altro un’ispezione capillare di tutti i migranti presenti nei paesi europei, con rigidi controlli alle frontiere, nelle stazioni, aeroporti, centri di accoglienza, alla ricerca degli “immigrati illegali” più che dei criminali o dei trafficanti. Migranti resi illegali dagli stessi paesi che dovrebbero garantire loro il diritto di richiedere asilo e protezione e che invece spesso, per lungaggini burocratiche o per un sistema che non permette libertà di movimento all’interno dell’Europa, li lascia in uno status precario da un punto di vista giuridico e umano.
Non è la prima volta che operazioni come questa vengono messe in campo. Diverse le associazioni, gli operatori, gli avvocati che stanno seguendo quanto sta accadendo in diverse parti d’Italia, dove, a differenza del passato recente, si è ricominciato a prendere le impronte digitali ai rifugiati, rendendo così impossibile per molti di loro ricongiungersi con le proprie famiglie in altre nazioni europee (http://lacittanuova.milano.corriere.it/2014/09/29/foto-e-impronte-adesso-i-profughi-vengono-schedati/#more-13912).
Mos Maiurom rientra a pieno titolo in questa nuova fase di controllo dell’immigrazione, dove pare che i migranti siano tornati ad essere il nemico pubblico, elemento che trova riscontro nella proliferazione di centri di reclusione nel vecchio continente. Questa nuova operazione, traducibile come “la morale degli antenati”, quasi a voler separare chi fa parte della storia europea e chi invece vi si intromette con una presenza “indesiderata”, sembra rappresentare perfettamente quell’atteggiamento di irrigidimento delle frontiere che spinge anche la decisione di cancellare Mare Nostrum e portare avanti invece Frontex Plus e Triton, operazioni queste ultime che non salvano e soccorrono ma controllano e respingono, aumentando ancora di più l’altissimo numero di morti.
Non si può che guardare con preoccupazione alla direzione che stanno assumendo le politiche di immigrazione europea, sia all’interno che all’esterno delle sue frontiere, politiche miopi e fallimentari che nascondono dietro a espressioni “antiche”, moderne violazioni dei diritti universali. Notizia dell’8 ottobre 2014
“Libera la Natura” a Lampedusa
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 8 ottobre 2014 – In questi giorni si è svolto a Lampedusa “Libera la natura”, progetto dell’Associazione LIBERA nomi e numeri contro le mafie che attraverso una staffetta che coinvolge i giovani e le scuole possa promuovere lo sport come strumento di aggregazione. Una corsa per le strade di tante città, in quelle terre “liberate” dalle mafie, che si chiude a Lampedusa, luogo di transito, di sofferenza e di speranza per tante persone che cercano di approdarvi.
Questa staffetta a Lampedusa assume un significato particolare, diventa un momento di ricordo per tutti coloro che non hanno raggiunto il traguardo desiderato, arrivare sulle coste del nostro paese, luogo di salvezza e rifugio. Una corsa che promuova lo sport come strumento formativo in cui si impara la lealtà, il rispetto delle regole, la sconfitta ma anche la determinazione a raggiungere degli obiettivi.
Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, in un’intervista a Mediterranean Hope racconta http://www.youtube.com/watch?v=Lx9SNBFlw_8 : “Ho detto ai ragazzi ‘siate orgogliosi di essere di questa isola’. Questa è un’isola che ha accolto tanta gente, che è stata penalizzata, giudicata, a volte etichettata ma questa è anche un’isola dove io ho toccato con mano che cos’è, non solo accogliere le persone, ma anche riconoscerle”.
Da anni Libera fa iniziative a Lampedusa insieme al Gruppo Sportivo del Corpo Forestale perché lo sport, prosegue don Ciotti, “aiuta a socializzare, aiuta a conoscere, aiuta ad essere persone responsabili. È bello correre insieme e il grido della pace, della legalità, della libertà, della giustizia va percorso, la pace va per-corsa”. E durante la staffetta di Lampedusa viene usato un testimone fatto con i legni delle barche che sono naufragate su queste coste “per ricordarci – racconta don Ciotti – che questa è una responsabilità che dobbiamo sentire profondamente dentro le coscienze di ciascuno di noi. Vengo qui volentieri con i miei due grandi riferimenti, che hanno segnato un po’ la mia vita, il Vangelo e la Costituzione Italiana”.
A parlare dell’iniziativa è anche Nicola Teresi di Libera, che a Mediterranean Hope racconta http://www.youtube.com/watch?v=RXVHMUq-JIQ come lo sport diventi veicolo per lanciare messaggi di “legalità, rispetto, giustizia sociale, riflessione sul ruolo della criminalità e della confisca dei beni”. Lampedusa è un luogo significativo in cui si intreccia l’aspetto della marginalità sociale e il fenomeno della migrazione e Libera cerca di promuovere una cittadinanza partecipata e attiva che sia stimolo per un cambiamento. L’associazione nasce per stare dalla parte degli ultimi, delle vittime, è non può non prendere posizione ed esprimere vicinanza anche a tutti coloro che perdono la vita in mare o che iniziano nuovi percorsi in Italia ed Europa.
L’impegno di Libera è volto anche a stare vicino a quanti, una volta approdati nel nostro paese, rischiano di entrare in circuiti di sfruttamento del lavoro sotto il caporalato, combattendo situazioni di schiavitù lavorativa e purtroppo spesso anche sessuale. Così, obiettivo dell’associazione, prosegue Teresi, “è fare dei beni confiscati alle mafie un’occasione di sviluppo e welfare soprattutto per chi ha sofferto come queste persone. Sarebbe bello mettere insieme le tematiche dell’asilo politico e dei beni confiscati, speriamo diventi una pratica presto”.
Nel discorso di inaugurazione della staffetta a Lampedusa don Ciotti ha parlato ai ragazzi e alle ragazze dell’isola con queste parole: “Correte ragazzi, sentitevi liberi, sentitevi vivi, corriamo tutti insieme in staffetta facendo ciascuno la propria parte e passandoci di mano in mano il testimone della nostra responsabilità e del nostro impegno. Abbiamo solo questa vita per amare, per amarci, per impegnarci e per essere più accoglienti. Abbiamo solo questa vita per costruire un po’ più di libertà e giustizia per tutti” https://www.youtube.com/watch?v=Lx9SNBFlw_8&feature=youtu.be.
Notizia del 1 ottobre 2014
Lampedusa “a piedi scalzi”
A cura di Marta Bernardinie Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 1 ottobre 2014 – Il Lampedusa in Festival è un piccolo grande festival che con il passare degli anni cresce in qualità e contenuti. Quest’anno possiamo dire che si sia sviluppato anche come uno spazio pubblico estremamente partecipato, con una buona presenza di ospiti europei. I film in concorso, provenienti da molte parti del mondo, hanno offerto uno spaccato sul tema delle migrazioni in rapporto con la complessità del sistema globale determinando, per chi li ha seguiti, un mosaico di punti di vista, compresi quelli non scontati e troppo spesso taciuti dei migranti in prima persona. Fra i film proiettati, segnaliamo “Superstiti e bare: il tradimento dell’Europa” di Enrico Montalbano che racconta le tragedie del 3 e dell’11 ottobre e il film di Nicanor Haor, tornato a Lampedusa per presentare il lavoro realizzato con “Boats 4 people” e per parlare della situazione attuale dei migranti e dei campi in Tunisia. Commovente e da proiettare ovunque “The Land between” di Davide Fedele, un film che racconta il percorso dei migranti subsahariani che si fermano in Marocco nella speranza di riuscire ad arrivare in Europa saltando le recinzioni che circondano l’enclave spagnola di Melilla. Racconti di speranza di persone in attesa di saltare una rete altissima con filo spinato che ci fanno capire quanto e come l’Europa sia ormai divenuta una frontiera armata. Molto bello anche “Va’ Pensiero – Storie Migranti” del regista Dagmawi Yimer un racconto di chi subisce le violenze razziste in Italia e che si addentra, senza cadere nel vittimismo, nelle viscere del nostro paese. Un percorso narrativo all’interno del quale si ricostruisce una continuità storica tra il nostro presente e la storia del colonialismo. Questo film, proiettato a Lampedusa, assume però una connotazione diversa da qualsiasi altro luogo di questo paese. Dagmawi Ymer infatti è arrivato proprio sulle coste di quest’isola come migrante qualche anno fa, a piedi scalzi – come lui stesso racconta in un’intervista a Mediterranean Hope (https://www.youtube.com/watch?v=8uJbr5FO39c) – e ritorna per raccontare la “giusta” Lampedusa con uno sguardo dignitoso. “Lampedusa ha un forte legame con me – ci racconta – è un ritorno per restituire quella dignità che perdi quando sbarchi. È un ritorno di chi sta oggi su quest’isola da uomo libero”. Lampedusa, terra dell’inizio o della fine, frontiera o confino, a seconda della storia e dei tempi, come ci racconta Giuseppe Pugliese di SOS Rosarno (https://www.youtube.com/watch?v=_QNxcsCg3Jo), che invece ritorna qui da militante dopo che suo nonno e suo padre furono confinati durante il fascismo nello stesso camerone dove oggi presenta il suo progetto di creare una cooperativa agricola con i lavoratori migranti di Rosarno, per rompere la catena dello sfruttamento dei caporali e della grande distribuzione.Il Lampedusa in Festival di questi giorni non è stato solamente una rassegna cinematografica o uno spazio di dibattiti, ma è stato un prolungato e vivo spazio di discussione che ha messo insieme ricercatori, attivisti, registi e artisti con i problemi e i bisogni di un’isola che vive profonde contraddizioni e si sente troppo spesso abbandonata a se stessa.
Notizia del 24 settembre 2014
La solidarietà che cancella la paura
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 24 settembre 2014 – La triste conta dei morti nel Mediterraneo di queste ultime settimane è pesantissima. Si parla di più di 700 persone, 500 in due diversi incidenti sulle coste libiche, 200 in un altro incidente al largo delle stesse coste e diverse decine nel canale di Sicilia negli ultimi giorni. Più di 2000 da inizio dell’anno e 23mila in un decennio.
Sono cifre da guerra, una guerra dell’indifferenza, una guerra senza cannoni, dove si affida al destino il compito di premiare e punire persone e popoli che fuggono da conflitti e persecuzioni. L’Europa resta indifferente a tutto questo e invece di aprire corridoi umanitari persevera nella sciagurata scelta di affidare il controllo delle frontiere a Frontex.In questi mesi, con Mediterranean Hope, siamo stati al molo di Lampedusa quando ci sono stati gli approdi, abbiamo visto da vicino le persone che scappano dai loro paesi, abbiamo sentito l’odore della miseria, visto lo sguardo della speranza e la voglia di libertà di queste donne, uomini e bambini. Abbiamo dato loro acqua e speranza, li abbiamo accolti con solidarietà, senza mascherine sul viso o guanti di lattice, perché il terreno della solidarietà cancella la paura.
Sappiamo chi sono gli scomparsi, sappiamo che tra queste 700 persone c’erano molti minorenni, molte donne e bambini. Il mare, di notte, mette paura, l’orizzonte inghiotte luci e preghiere, le onde che sbattono sulla nave fanno capire quanto l’essere umano sia vulnerabile davanti alla natura. La maggioranza di queste persone non sa nuotare, ma anche saper nuotare serve a poco quando si resta per ore, soli, in mezzo alle onde. Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo in molti si erano illusi che le antiche tragedie della storia finissero. Che l’umanità avrebbe cancellato per sempre dal proprio cammino le persecuzioni, le tragedie indicibili che l’avevano sconvolta. In quella Carta, proprio per impedire che a seguito delle persecuzioni si riproducessero quei tristi eventi, fu introdotto il diritto a chiedere asilo per tutti gli esseri umani. Fu un salto in avanti enorme nella storia dell’umanità, veder riconosciuto per tutti il diritto a chiedere protezione come rifugiati e profughi.
In questo momento, l’ONU stima 50 milioni di profughi nel mondo per effetto delle guerre, a questi occorre aggiungere altri 100 milioni di persone che nei prossimi anni si sposteranno a causa dei cambiamenti climatici. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno che per dimensioni e vastità non si è mai prodotto nel corso della storia dell’umanità. Un fenomeno, questo, che porta la società moderna di fronte ad un bivio, davanti al quale si dovrà scegliere tra la strada dell’indifferenza e dell’egoismo o quella della solidarietà e dell’accoglienza. Sappiamo che questi morti, purtroppo, non saranno gli ultimi, evitiamo però di classificare questi drammi come frutto di una tragedia naturale, le persone non se lo meritano.
Questi esseri umani, questi fratelli e sorelle, sono morti per una precisa scelta politica di cui l’Europa e le sue decisioni sull’immigrazione sono responsabili, non meno di chi costringe queste persone a scappare dalla propria terra. In questo scenario, però, ognuno e ognuna di noi può avere un ruolo diverso, promuovendo una cultura dei diritti, dell’accoglienza e della solidarietà.
Notizia del 3 settembre 2014
Il “Lampedusa in Festival”
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 10 settembre 2014 – Quando sul continente sembra essere finita l’estate, l’isola di Lampedusa può ancora godere di tutta la bellezza della sua posizione, di giornate luminose e di eventi che ormai caratterizzano l’identità dell’isola.
Anche quest’anno si terrà il “Lampedusa in Festival” (25-30 settembre), ormai alla sua VI edizione, organizzato dal collettivo Askavusa che da anni offre una testimonianza forte e decisa su diversi temi di attualità, primo tra tutti quello della migrazione. Un “piccolo festival di Comunità, migrazioni, lotte, turismo responsabile e storie di mare”, come viene descritto nel sito ufficiale dell’evento (http://www.lampedusainfestival.com/).
Ci troviamo al Museo delle migrazioni (PortoM) per parlare del “Lampedusa in Festival” con Giacomo Sferlazzo di Askauvsa. Il Museo è stato realizzato dal collettivo, raccoglie diversi oggetti appartenuti ai migranti e recuperati nei più svariati posti ed è uno dei pochi luoghi a Lampedusa che cerca di costruire e mantenere una parte importante della storia dell’isola. Giacomo Sferlazzo, in un’intervista a Mediterranean Hope https://www.youtube.com/watch?v=KpBINv61aiU, racconta che il tema del Festival di quest’anno sarà incentrato sulle “strategie di gestione dei flussi migratori” sempre più orientate verso “una militarizzazione dei territori” da cui i migranti scappano ma anche nei quali approdano. Così, per il collettivo, dietro le politiche migratorie in atto sembrano celarsi politiche di controllo del Mediterraneo e delle frontiere, all’interno di veri e propri scenari di guerra e conflitti.
L’intento del Festival e l’impegno di Askavusa va sicuramente oltre l’isola di Lampedusa, ma è anche – e forse soprattutto – all’interno di essa che vuole stimolare una riflessione profonda sui meccanismi politici e mediatici che la riguardano direttamente. Sferlazzo racconta di come nel 2011, nel periodo delle primavere arabe, Lampedusa si sia trovata ad avere una presenza di circa 8000 giovani tunisini, quasi il doppio della popolazione lampedusana, i quali, invece di aver ricevuto una degna sistemazione ed essere stati trasferiti in altri luoghi più idonei, sono stati trasformati nell’immagine dei migranti “invasori”, giustificando le politiche dell’emergenza che ne sono conseguite. Foto e video di quel periodo vengono ancora oggi riproposti dai telegiornali e da diversi quotidiani, anche se attualmente sull’isola non vi è la presenza di alcun migrante. Lampedusa rimane così un luogo simbolico altamente mediatizzato e strumentalizzato a palcoscenico politico, attraverso il quale è stato costruito un immaginario ormai solidificato agli occhi dell’Italia e dell’Europa, permettendo di cavalcare l’onda dell’”invasione” per giustificare irrigidimento delle frontiere, respingimenti, allarmismo sanitario e sospensione dei diritti.
Sferlazzo riflette anche su come si intreccino le politiche migratorie con il tema dei diritti umani, questi ultimi spesso utilizzati per nascondere vere e proprie azioni militari più che umanitarie: “è evidente che le guerre non sono fatte per i diritti o per la democrazia ma sempre per scopi economici”. Così, prosegue Sferlazzo, le persone più agiate possono permettersi altri canali per migrare e invece quelle che arrivano nel nostro paese sono “masse di disperati che l’Europa non vuole accogliere”, lasciando che muoiano nel proprio paese o nei lunghi viaggi tra deserto e mare.
La realtà migratoria e quella dell’isola sembrano allora in qualche modo intrecciarsi: Lampedusa rimane, da un lato, costantemente sotto i riflettori e, dall’altro, viene abbandonata a se stessa, al suo destino di piccola isola lontana dall’Italia ma nel cuore del Mediterraneo.
L’immagine che viene costruita dell’isola sembra quindi colpire direttamente anche gli stessi lampedusani – prosegue Sferlazzo -, come a volerli scoraggiare a vivere su un’isola dalle molte difficoltà, di collegamenti, di caro vita e benzina, di scarsità dei servizi, di calo di attrazione turistica, il tutto accentuato dalla presenza (o possibile invasione) di migranti, per aggiungere tensione a una quotidianità con le sue criticità, quasi a “voler ridurre i servizi sull’isola per facilitarne un processo di militarizzazione”.
Anche quest’anno, quindi, il Lampedusa in Festival, con proiezioni, eventi e dibattiti, permetterà di riflettere su diverse questioni di fondamentale interesse per tutti, lampedusani e non.
Notizia del 3 settembre 2014
Lampedusa chiede diritti, non strumentalizzazioni mediatiche
A cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 3 settembre 2014 – Lampedusa non ci sta ad essere dipinta come l’Isola che non c’è, non ci sta ad essere il palcoscenico dell’emergenza, così come i media l’hanno costruita alimentando nel resto del paese l’idea dell’invasione. Lampedusa non ci sta più a recitare questa parte e prova per la prima volta a reagire.
Quest’estate, più volte, i media hanno utilizzato il nome “Lampedusa” nelle notizie che parlavano delle tragedie in mare, anche quando queste avvenivano a centinaia di miglia dalle sue coste. Così, ancora una volta, la Lampedusa dell’emergenza è cresciuta geograficamente nella dimensione mediatica fino a diventare enorme quasi quanto la Sicilia, fino a lambire le coste della Libia e dell’Egitto, della Tunisia e di Malta.
Occorrerebbe chiedere ai giornalisti un’attenzione particolare sulle notizie, ma la semplificazione mediatica ha imposto talmente tanto il suo linguaggio che ogni azione da parte delle istituzioni locali in questo senso cade nel vuoto. Giustamente l’amministrazione è preoccupata di questa dinamica, lo sono i lampedusani, e lo sono gli imprenditori che vivono di turismo. E lo sono perché tutto questo produce un danno ad una popolazione che vive quasi esclusivamente di turismo. Ci è capitato spesso sentire i turisti che vengono sull’isola dire che non si aspettavano questa Lampedusa che sembra Rimini o Riccione, ci è capitato spesso sentirli raccontare di come i loro parenti ed amici li sconsigliassero di fare questa vacanza “rischiosa”, e ci è capitato spesso di dover rispondere alla domanda “perché i media raccontano queste bugie?”. La risposta a tutto questo va forse ricercata in un clima che in questi decenni ha fatto dell’isola una sorta di laboratorio mediatico nel quale i politici ottenevano visibilità con dichiarazioni ad effetto. E’ stato sconvolgente assistere sui social network a come una notizia falsa accompagnata da un’immagine cruenta sia rimbalzata tra i profili di mezza Italia in poche ore. Una “bufala” condivisa da 27 mila persone che in tono allarmistico annunciava tre casi di ebola a Lampedusa. Una notizia falsa ma percepita come reale, diffusa ad arte in un momento in cui in molti decidevano dove andare in vacanza, determinando così molte disdette negli alberghi lampedusani. Si vedrà a fine stagione, con dati alla mano, quanto dannosi siano stati questi eventi per l’isola.Certo è che Lampedusa, terra di frontiera, non deve fare i conti solo con il caro benzina ed il caro vita, che sono le vere emergenze dell’isola, non deve fare solo i conti con la difficoltà degli spostamenti e con la crisi economica che restringe i flussi turistici. Lampedusa deve fare i conti anche con una campagna mediatica che da anni entra nella mente degli italiani con le solite retoriche, riuscendo a far diventare reale l’isola che non c’è.Poco conta quindi che in questa isola, proprio per effetto dei soccorsi in mare, di approdi ne sono avvenuti ben pochi, poco conta che il centro di primo soccorso e accoglienza è stato riaperto solo per poche ore questo luglio.
Stufi di tutto questo gli imprenditori lampedusani questa volta hanno reagito – come racconta in un’intervista a Mediterranean Hope Angelo Mastracchia (https://www.youtube.com/watch?v=N-mtqP6ez6U) – ed hanno chiesto 10 milioni di risarcimento all’uomo di Torino, autore della bufala mediatica sull’ebola, che intanto era già stato denunciato dalla polizia postale per procurato allarme.
Sembra una cosa di poco conto questa, ma in un’isola come Lampedusa non lo è. Invece delle lamentele che nulla producono o della ricerca del capro espiatorio da sacrificare nella piazza pubblica del paese per scacciare la sfortuna, si è sviluppata un’azione collettiva basata su un processo reale e partecipato contro un clima mediatico che rischia di danneggiare l’economia dell’isola. Azioni come questa che legano insieme diritti e doveri, partecipazione civica e presa di responsabilità collettiva possono determinare per la comunità lampedusana quel salto in avanti necessario per chiedere più attenzione da parte di uno Stato che è troppo lontano dai bisogni di Lampedusa e maggior attenzione da parte dei media. Sarà un processo lungo e tortuoso ma la strada intrapresa ci sembra quella giusta.
Notizia del 13 agosto 2014
Alla ricerca dell’identità
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento, 13 agosto 2014 (NEV) – Dopo qualche mese di vita e lavoro a Lampedusa si iniziano a conoscere le bellezze e le contraddizioni di questo scoglio in mezzo al mare. Dopo mesi di ascolto e attenzione si inizia a comprendere lo spirito lampedusano, dei suoi cittadini, spesso lampedusani per scelta. La storia che caratterizza l’isola, il suo destino di essere terra di transito, di approdo e salvataggio, sembra aver influito sulla stessa identità di Lampedusa. O meglio, sulla sua non ancora ben definita identità.
L’isola è però caratterizzata da una vivace varietà di associazioni e iniziative che in diversi modi cercando di restituire, o costruire, memoria e identità a questo luogo. Pensiamo all’Archivio Storico di Lampedusa o al Museo delle Migrazioni. Non meno interessante, in questa direzione, è la mostra fotografica organizzata dalla Chiesa, a un anno dalla visita del Papa a Lampedusa, nel luglio scorso. La mostra va però oltre tale singolo evento, è molto di più: è una metafora dell’isola, dei suoi rapporti storici con il mare, del suo essere terra di frontiera e quindi di salvezza. Molto interessante l’intervista fatta da Mediterranean Hope a Don Mimmo, Parroco di Lampedusa (https://www.youtube.com/watch?v=tvDz7SErZqM).
Lampedusa, ancor prima che con il fenomeno migratorio di questi ultimi decenni, ha dovuto fare i conti con gli elementi naturali, con la durezza di un vento che porta via la terra e scopre le rocce vive, togliendo speranza ai giovani arbusti. Un’isola segnata, così come la pelle di chi vive qui tutto l’anno, da sole, vento e mare. Un luogo dove da sempre il naufrago viene accolto e rifocillato. È la legge del mare, è una legge fondativa del concetto stesso di umanità che qui si afferma. Le piazze che si riempiono di migranti e le case che si aprono per accoglierli, forme familiari di solidarietà e spazi pubblici attraversati e riconfigurati da migliaia di persone, com’è successo nel 2011 con le primavere arabe. Lampedusa “Porto Salvo” – così si chiama il Santuario dedicato alla Madonna dell’isola – è molto più di un messaggio profondo di umanità accogliente e solidale, è una pratica concreta, perché Lampedusa in questi anni ha salvato molte vite, vedendone molte altre spezzate dallo stesso mare che la bagna.
Ed è proprio la tragedia del 3 ottobre che sembra segnare per la prima volta l’identità dell’isola, costringendo i suoi abitanti a misurarsi con un evento sconvolgente, che porta la sofferenza ad elemento tangibile, materiale. Nella mostra presso la chiesa di Lampedusa c’è tutta questa storia, una storia restituita questa volta non con le immagini dei media, che per anni hanno costruito e alimentato la cultura dell’emergenza, ma con gli “obbiettivi” dei lampedusani. Sguardi che si fermano nelle foto e raccontano una storia che è al tempo stesso ricerca e rielaborazione – anche se forse non troppo consapevole – di una identità collettiva in quanto lampedusani. Un’identità ancora incerta e di difficile sintesi, proprio perché attraversata da continui flussi di persone, che siano in fuga dalle guerre, cariche di speranze e sogni, in cerca di un luogo unico in cui costruire una vita diversa, in visita momentanea. Questa mostra, con molto coraggio, ha il pregio di lavorare in questa difficile direzione, ponendo domande senza fornire risposte, aprendo interrogativi seri su come affrontare la modernità del fenomeno migratorio, come trasformare l’industria dell’accoglienza in una pratica solidale e civile, come riappropriarsi di un’immagine dell’isola che i media troppo spesso deformano, come trovare una strada comune tra chi è in difficoltà, che sia nato in questa terra o che vi approdi.
Notizia del 23 luglio 2014
Accoglienza dignitosa e corridoi umanitari
di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento, 23 luglio 2014 (NEV) – Al largo delle coste libiche, 62 persone tratte in salvo e 60 morti, 18 luglio. A sud di Lampedusa, tragedia in mare, 20 morti in un barcone per asfissia, 20 luglio. Altro naufragio nel canale di Sicilia, 180 morti e 61 salvati, 22 luglio. Iniziano così i nostri racconti, quasi che queste morti siano la premessa necessaria per scrivere e ci troviamo, impotenti, davanti ad un’umanità che tramonta. Raccogliamo e condividiamo su facebook messaggi di madri disperate che raccontano delle telefonate fatte dai propri figli, che danno coordinate per chiedere di essere soccorsi nelle acque del Mediterraneo.
Il continuo parlare di morti rischia di trasformare una tragedia epocale, che si consuma proprio alle nostre porte, come normale quotidianità, un po’ come le morti sul lavoro ormai viste dall’opinione pubblica come naturali, come se tutto questo dramma fosse un temporale durante il quale ogni settimana piovono vite. Tutti oramai sanno che le migrazioni hanno delle cause e delle motivazioni, che c’è una fuga da guerra e miseria che rende l’Europa, agli occhi di molte persone, una terra promessa. La “Fortezza Europa”, però, è una terra chiusa, costringe chi scappa dalle guerre a prendere la rischiosa rotta del mare quando, invece, la cosa più semplice sarebbe aprire dei corridoi umanitari. In un’intervista a Mediterranean Hope (https://www.youtube.com/watch?v=b858suBHpQA&feature=youtu.be), Alessandra Ballerini, avvocato specializzato in diritti umani e immigrazione, dice “è come se la Fortezza Europa puntasse sulla morte, è come se noi sperassimo che queste persone arrivino morte, arrivino cadaveri, così è un problema di meno. Ecco, questa cosa deve finire, perché le persone non devono essere costrette a rischiare la propria vita e consegnare la vita dei loro figli alla mafia che gestisce tutto questo. Queste persone devono potere, se devono scappare dai loro paesi, avere la certezza di approdare nella Fortezza Europa vivi.” Non solo la certezza di arrivare vivi, ma anche in un luogo di accoglienza e protezione dei loro diritti, calpestati e violati nei paesi da cui scappano.
Il tema del diritto ad essere accolti per profughi e richiedenti asilo è quindi un altro lato della medaglia, una volta approdati in Italia i migranti vengono inseriti in un sistema che, invece di accogliere, vive di emergenza e improvvisazione. Un sistema che qui a Lampedusa tocchiamo con mano ogni volta che vediamo approdare le persone al molo Favaloro. Il Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa (CPSA) è un esempio paradigmatico di quello che è il sistema di accoglienza nel nostro paese. Un centro che ad oggi non è formalmente aperto anche se al suo interno ci sono centinaia di persone ospitate senza nessun criterio. Una situazione che porta Terre des Hommes ad esprimere “grande preoccupazione per la situazione allarmante che si sta registrando a Lampedusa, dove a seguito dei recenti arrivi sono attualmente trattenute oltre 300 persone, tra cui moltissimi bambini, persino neonati, nel CPSA di Contrada Imbriacola. Ufficialmente il centro non è ancora stato riaperto per essere destinato all’accoglienza, anche perché non è stato incaricato un nuovo ente gestore, dopo la chiusura di dicembre 2013 […]. Di fatto, quindi, i bambini non ricevono al momento adeguata protezione e alle famiglie non è offerto alcun servizio di ascolto e supporto alla persona, prezioso in una fase delicata come la primissima accoglienza”. Non molto diverso il comunicato di Save the Children Italia, che chiede “l’immediato trasferimento – dal CPSA di Lampedusa – dei migranti e soprattutto delle persone più vulnerabili come i bambini poiché il centro non può garantire una accoglienza in condizioni di sicurezza, sino a che non si concludano i lavori di ristrutturazione e venga definita una gestione interna tale da scongiurare ogni rischio del ripetersi di situazioni aberranti come quelle che hanno portato a disporne la chiusura”.
Nell’intervista a MH, Alessandra Ballerini interviene anche su questo argomento, esprimendo un giudizio molto netto sull’intera vicenda: “soffro tutte le volte che vedo delle persone trattenute. Su quest’isola soffro a maggior ragione perché vedo donne e bambini trattenuti e perché vedo, privati della libertà e della dignità, delle persone che molto spesso sono rinchiuse senza aver commesso nessun reato ma, come direbbe Erri De Luca, ‘colpevoli di viaggio’. Di un viaggio forzato dalla necessità di sopravvivere. La loro ‘colpa’ è quella di essere arrivati ed essere arrivati vivi, noi poi li rinchiudiamo nei centri, dai quali poi vengono trasferiti e da altri centri scappano. E fa male vedere, come ancora oggi succede qui a Contrada Imbriacola – dove si trova il CPSA di Lampedusa – dei bambini di due o tre anni in gabbia”.
Una gabbia che non è solamente fisica, ma anche il frutto di una politica emergenziale dentro la quale l’Europa sta perdendo la propria anima, scrivendo una delle più brutte pagine della sua storia.
Notizia del 9 luglio 2014
“Non danneggiamoli a casa loro”
di Marta bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento, 9 luglio 2014 (NEV) – Erano circa mille i migranti arrivati l’altro ieri a Lampedusa. Quasi tutti eritrei e giovanissimi. Il loro viaggio è durato mesi, tra deserto, mare, soprusi e violenze. Ma anche questa volta il sistema mediatico si è fermato all’approdo, senza far trapelare nulla della profondità delle loro storie. Storie fatte di un prima e un dopo, di fattori che costringono alle migrazioni e del futuro di ogni migrante che, dopo aver messo piede in Italia, incontra un sistema di accoglienza purtroppo inadeguato.
Di questi temi abbiamo parlato con Valerio Landri, direttore della Caritas di Agrigento, con il quale abbiamo anche collaborato per l’accoglienza solidale di quanti negli ultimi giorni sono approdati al molo Favaloro di Lampedusa. Landri, in un’intervista a Mediterranean Hope (https://www.youtube.com/watch?v=knUsek7hdJY&feature=youtu.be) spiega l’importanza di ragionare sui fattori che determinano le migrazioni, perché “ogni migrazione – dice – è differente dalle altre” ed è necessario capire quali siano le cause che la determinano, per poter avere una visione più completa ed intelligente del fenomeno. Un’attenzione, la sua, che investe anche il campo comunicativo, rifacendosi alla Carta di Roma varata nel 2008 dall’ordine e dal sindacato dei giornalisti per promuovere l’uso di una terminologia adeguata sul tema dell’immigrazione. Landri sottolinea quindi la criticità di vocaboli come “clandestino” ed “invasione”, cercando invece di introdurre un linguaggio accogliente, che smonti quello emotivo e respingente che produce paura sociale.
Per riflettere sulle cause che spingono migliaia di persone a migrare dal proprio paese, il direttore porta l’esempio significativo dei pomodori in Ghana, del coltan in Congo, o delle produzioni dei biocarburanti nell’Africa subsahariana. Esempi che dimostrano molto bene come le nostre economie occidentali, imponendo la loro logica di profitto e sfruttamento sociale ed ambientale, devastino le economie locali, costringendo intere comunità ad abbandonare i propri territori. In questo contesto, il concetto di “aiutarli a casa loro” dovrebbe essere trasformato in quello di “non danneggiarli a casa loro”, sviluppando un’etica di produzione e consumo responsabile. Per Landri, quindi, il fattore migratorio è in qualche modo una “richiesta di restituzione di quanto abbiamo preso fino ad ora e continuiamo a prendere” dai paesi che sfruttiamo. Tale elemento apre, all’interno del percorso della solidarietà e accoglienza, una riflessione sulla decrescita felice intesa come il “ridimensionare le nostre prospettive di crescita, rinunciando a ciò che essenziale non è e rivedendo i nostri bisogni, molto spesso non reali ma indotti”.
Il fenomeno migratorio dovrebbe essere quindi visto nella sua complessità, tenendo conto dei fattori che lo determinano, l’uso di un linguaggio appropriato, la riflessione sulla produzione e il consumo responsabile e la possibilità di sostenere percorsi migratori dignitosi, anche attraverso i corridoi umanitari.
Notizia del 2 luglio 2014
Un semplice non eroe
di Marta berbnardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa, Agrigento (NEV), 2 luglio 2014 – Costantino Baratta è un muratore lampedusano, vive su quest’isola da 27 anni ed è considerato da molti un eroe. A lui però questa etichetta non piace, è un’etichetta che gli fa vivere male il ricordo della giornata del 3 ottobre, data della tragedia in cui morirono a ridosso delle coste di Lampedusa più di 300 persone. Costantino soffre nel sentirsi chiamare eroe perché, racconta in un’intervista a Mediterranean Hope (https://www.youtube.com/watch?v=gX54n97D1tM), se fosse partito mezz’ora prima con la barca forse avrebbe salvato più vite.
Costantino era uscito quella mattina presto con un amico sul suo peschereccio quando inaspettatamente si è trovato a soccorrere i naufraghi in acqua, riuscendo a salvarne più di una decina. Quel giorno sono state tre le barche di lampedusani che hanno tratto in salvo i migranti e quella di Costantino, più veloce e leggera, è riuscita in poco tempo a far salire a bordo i naufraghi, seminudi, infreddoliti e pieni di nafta. Sono stati loro a salvare l’ultima donna rimasta viva, Luam. Ogni persona sopravvissuta porta con sé una storia lunga e complessa, storie che rimangono vive nella memoria di molti lampedusani, anche attraverso contatti costanti via telefono e Facebook.
Lampedusa in questi 20 anni si è trovata “costretta” a diventare la frontiera tra nord e sud del mondo. All’inizio il fenomeno era gestito direttamente dagli isolani, poi con il passare del tempo è diventato una costante mettendo l’isola, e l’Italia, di fronte all’emergenza. In questi decenni non sono mancate le contraddizioni, in un’isola già carica di non poche difficoltà si sono aggiunte quelle di migliaia di migranti. Nonostante questo, la popolazione ha manifestato una solidarietà straordinaria con i “ragazzi” (così come li chiama Costantino), uno spirito di accoglienza di cui difficilmente si ha testimonianza in altre parti d’Italia e d’Europa. Un’accoglienza fatta di pane, pasti, bevande calde e di condivisione di spazi pubblici e privati (https://www.youtube.com/watch?v=RY_AhPL49N0).
Nel 2011, a seguito delle primavere arabe, migliaia di migranti furono lasciati per mesi dal Governo a Lampedusa e la popolazione isolana rispose mettendo in campo le risorse che aveva, offrì cibo, assistenza e ospitalità in maniera del tutto spontanea a più di 5000 migranti. Una solidarietà umana che si è riscontrata anche da parte dei pescatori lampedusani, che per anni hanno salvato vite in mare nonostante leggi come la Bossi-Fini che per questo li accusava di favorire l’immigrazione clandestina.
Costantino Baratta, racconta tutto questo con una eccezionale umiltà. Dalle sue parole, però, non emergono solamente solidarietà e sofferenza, emerge anche l’aspetto della violenza che pervade queste rotte. Abitare in una zona di “frontiera” gli ha permesso di comprendere, anche sulla sua pelle, degli elementi che invece faticano ad entrare nella riflessione e nel dibattito pubblico di questo paese. Uno fra tutti è quello sulla condizione delle donne migranti, delle violenze che subiscono durante il viaggio della speranza. Così Costantino Baratta ci racconta (https://www.youtube.com/watch?v=PYSNkzgfDg8): «una ragazza, come migliaia di ragazze che sono state qui a Lampedusa, che decide di fare questo viaggio già sa che subirà violenze, in Eritrea, in Sudan, in Libia. Questo ci ha fatto capire che scappano da una situazione veramente brutta. Queste donne hanno un grande coraggio. Nell’arco di questi anni, andando all’ospedale – prosegue Baratta – ho trovato ragazze incinte, ragazze violentate dagli scafisti, dagli organizzatori dei viaggi. Vivono queste violenze eppure partono e le ho viste a Lampedusa sorridenti, perché forse avevano capito che arrivate qui erano libere. Sanno che subiranno questo, eppure lasciano il loro paese sapendo che non potranno tornarci più, non vedranno più le madri, i fratelli, le famiglie».
Proprio in questi giorni è arrivata la notizia di un’ulteriore tragedia in mare, una trentina di persone morte nella stiva di una barca nel canale di Sicilia. Purtroppo non si ferma il numero di vittime nel mar Mediterraneo. Una tragedia epocale che noi raccontiamo e alla quale non si deve rimanere indifferenti. Ai morti non ci si deve abituare e neanche alle politiche di irrigidimento delle frontiere. Delle risposte più efficaci sono possibili, e i corridoi umanitari possono essere una di queste, per cui vale la pena impegnarsi attivamente e far sentire la propria voce.
Notrizia del 18 giugno 2014
“Porto l’orto a Lampedusa”: un centro sociale a cielo aperto
di Marta berbnardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa (Agrigento), 18 giugno 2014 – Portare l’orto a Lampedusa è una sfida. Lo è innanzitutto perché è un lavoro sociale e in quanto pratica collettiva ha bisogno di giusti tempi e spazi nei quali svilupparsi in forma partecipativa. In quest’isola ora rocciosa, come ci racconta Pasquale (vedi intervista https://www.youtube.com/watch?v=dq0PJg1J-4I&feature=youtu.be), una volta l’agricoltura era l’attività principale insieme alla pesca: in inverno si coltivava e in estate si pescava, c’erano allevamenti e Lampedusa, prima che venisse completamente disboscata per il commercio del carbone a fine Ottocento, era verdissima.
Oggi il verde è una presenza marginale, ma gli odori di Lampedusa svelano una vegetazione ancora viva e in grado di risorgere rigogliosa. Vedere la vastità di terre incolte lascia perciò senza parole. Queste terre rappresentano un patrimonio da condividere che potrebbe offrire all’isola nuove opportunità e vita. In questi decenni, l’economia di Lampedusa si è trasformata velocemente, dalla sussistenza agricola ed ittica si è passati alla commercializzazione del pesce per poi diventare prevalentemente turistica. Una trasformazione che ha rischiato di far dimenticare saperi, storia, e radici dell’isola. Per fare un esempio, mentre in tutta Italia il turismo si è rinvigorito con la riscoperta dei prodotti locali agricoli, ciò non è ancora avvenuto a Lampedusa proprio perché manca la materia prima, i prodotti della terra.
Il progetto “Porto l’orto a Lampedusa” dell’associazione “Terra! Onlus” (www.terraonlus.it), insieme a Legambiente, si pone come obiettivo proprio quello di riscoprire e recuperare l’agricoltura locale, cercando di investire sulla terra come spazio pubblico partecipativo in cui legare filiere corte e diritti, partecipazione e salvaguardia del territorio. Creare orti sociali aperti, dare l’opportunità ai cittadini lampedusani di ritornare alla terra è il punto centrale del progetto, che si sosterrà attraverso la forma del crowdfunding, cioè del finanziamento collettivo. Il ritorno alla terra oggi non deve essere interpretato come una semplice riscoperta del passato, come ci dicono i responsabili del progetto, ma come spazio di rigenerazione di welfare in una società che offre per le “figure vulnerabili” sempre meno opportunità. Maria Leduisi (per intervista vedi http://youtu.be/-6G8787pUQ4), responsabile del Centro diurno per i disabili psichici di Lampedusa, ci racconta come la terra sia una possibilità per costruire un percorso di integrazione sociale e dignità fra soggetti, non solo disabili psichici, ma anche giovani e cittadini che possono così ricostruire relazioni e sviluppare un profondo senso di appartenenza al territorio.
Il ritorno all’attività agricola, secondo Fabio Ciconte, coordinatore del progetto (vedi intervista vhttp://youtu.be/MbTcsr5vRuk), può essere la scintilla che in tutto il paese riaccenda una riflessione condivisa rispetto all’utilizzo della terra come bene comune, come un “centro sociale a cielo aperto”. A Lampedusa, gli ortaggi e la frutta arrivano con la nave, e quando la nave non arriva per l’ostilità dei venti, gli scaffali dei negozi si svuotano rapidamente. Questi beni hanno quindi prezzi più alti che nel resto d’Italia, e spesso vengono prodotti con il sudore degli stessi migranti che in questa isola approdano come punto d’inizio del loro percorso migratorio. I migranti, una volta arrivati in Sicilia, Puglia, Calabria, finiscono facilmente nelle catene dello sfruttamento delle campagne italiane, sotto i caporali, in condizioni di vita paragonabili alla schiavitù. Rosarno, Nardò, Foggia, Saluzzo sono alcuni dei luoghi in cui i lavoratori agricoli hanno intrapreso, in questi anni, percorsi per affermare i propri diritti, e tali esperienze non vanno dimenticate quando si parla di ritorno alla terra e di agricoltura sostenibile.
Si fa strada allora l’idea di un prezzo equo per i prodotti agricoli, che tenga insieme sia i diritti di chi produce che quelli di chi consuma, all’interno di una concezione alternativa dell’economia agricola. Ancora una volta Lampedusa diventa un luogo di sperimentazione e confronto tra pratiche e progetti, uno spazio pubblico ad alto valore simbolico che lancia un messaggio che dovrebbe far riflettere. Ci sarà qualcuno in grado di ascoltare?
Notizia dell’8 giugno 2014
Iniziative, memoria e accoglienza
Lampedusa (Agrigento), 11 giugno 2014 – Lampedusa, giorno della festa della Repubblica. La via principale del centro abitato, via Roma, è piena di persone che passeggiano, turisti e lampedusani siedono ai tavolini fuori dai bar, entrano ed escono dai negozi riaperti per la stagione estiva. All’improvviso, davanti l’obelisco, un gruppo di ragazzi e ragazze con magliette bianche e jeans si mettono a ballare tra la folla. Scopriamo così che alcuni giovani del liceo scientifico, l’unico liceo di Lampedusa, hanno voluto preparare il loro primo flash mob (https://www.youtube.com/watch?v=k2gCZ2T_7eQ#t=10) su ispirazione di quello organizzato a Roma sui diritti di cittadinanza.
Non sono poche le iniziative che diverse associazioni di Lampedusa organizzano, soprattutto nel periodo estivo, ma questo evento è un po’ diverso. Nasce direttamente da un’idea di giovani lampedusani che vogliono esprimersi apertamente sul diritto di cittadinanza per tutti quegli amici e compagni nati in Italia ma non riconosciuti come italiani. Yadira Torrente, una delle ideatrici del progetto, in un’intervista fatta a Mediterranean Hope (per il video vedi https://www.youtube.com/watch?v=qGFPJA0CtBc)ci racconta che l’idea di fare il flash mob assume un significato aggiunto a Lampedusa “perché – dice – penso che sia il posto più adatto per parlare di questi fenomeni, perché Lampedusa è il punto di frontiera dell’Italia e dell’Europa specialmente, e il diritto della cittadinanza credo debba essere di qualsiasi individuo nel mondo, ci dovrebbe essere un diritto universale di cittadinanza per chiunque, specialmente per una persona che nasce in Italia e si sente italiana”.
Lampedusa è anche un’isola dalle molte contraddizioni e punti di vista. Il tema degli stranieri è un tema che divide, sia per come se ne parla, sia per come lo si affronta. E’ difficile individuare un’unica identità lampedusana, l’isola è caratterizzata più che altro da un’identità plurale, dinamica, che è mutata e si è adattata ai diversi fenomeni che storicamente l’hanno attraversata.
E qualcosa rimane indelebile, suo malgrado, nella storia di Lampedusa: è la tragedia del 3 ottobre scorso, quando, proprio davanti alle coste dell’isola, perirono 368 migranti mentre cercavano di approdare sulla terra ferma. A raccontare questa storia, a riavvolgerla e poi riproporla è stato il giornalista della Rai Valerio Cataldi che nei giorni scorsi, nella stessa scuola frequentata da Yadira, ha proiettato il suo docufilm “La neve la prima volta” (https://www.youtube.com/watch?v=XX2At-y1bpc), nel quale si affronta questa triste vicenda. Cataldi racconta a Mediterranean Hope (vedi l’intervista https://www.youtube.com/watch?v=daK06QUVEcU) l’esperienza di quel tragico evento, momento così forte da non dover essere dimenticato, e della nascita del “Comitato 3 ottobre”, al quale ha aderito anche la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) (http://www.comitatotreottobre.it/). Un nutrito gruppo di persone, giornalisti, operatori umanitari, cittadini, ha dato vita al Comitato affinché non si ripetano le tragedie nel Mediterraneo, e ha presentato una proposta di legge per fare di quella data la Giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza. Tra le diverse iniziative organizzate dal Comitato ce ne sono alcune volte a sensibilizzare sul tema dei corridoi umanitari, del trattamento nei centri di accoglienza e le scuole sono spesso luogo privilegiato per diffondere un’informazione approfondita e stimolare una cultura dell’accoglienza perché, dice Cataldi, “il nostro paese continua a chiamare emergenza un fatto strutturale, che andrebbe affrontato in modo organico e in realtà ogni volta si cercano di mettere toppe, si aprono edifici cadenti per ospitare queste persone e non si riesce a trovare una definizione e dare una forma concreta e dignitosa alla parola accoglienza”.
Il giorno del 3 ottobre rimane indelebile nella memoria di chi era presente, il mare ha restituito i corpi di uomini, donne e bambini tra la sofferenza dei familiari sopravvissuti ma anche dei cittadini di Lampedusa: “Il mare ci ha aiutato a comprendere la tragedia – racconta Cataldi – è stato un modo con il quale il mare ha voluto farci vedere, farci capire che la tragedia esiste, è reale, è concreta, è fatta di carne e ossa, bambini, donne, uomini. Questo ha cambiato la mia percezione dei fatti, nonostante questi argomenti li conosca da tanto tempo e Lampedusa la frequenti da molto prima del naufragio”. Alla luce di questo avvenimento è nato quindi il Comitato 3 ottobre che ora sta preparando diverse iniziative per la stessa data di quest’anno, affinché si possano ricordare con dignità i 368 migrati morti in mare, molti dei quali non ancora identificati. Alle 4 del mattino, ora del naufragio, insieme ai familiari delle vittime verranno liberate in cielo delle lanterne, seguirà una commemorazione laica e un corteo per la città. Nell’arco della giornata ci saranno diversi eventi con numerose partecipazioni, e affinché – prosegue Cataldi – sia una “giornata dedicata alle vittime di quella tragedia, ai partenti, ai superstiti, stiamo costruendo un programma incentrato sulla riflessione, vorremmo cercare di costruire una cosa che abbia una dignità e che consenta di rilanciare il fatto che bisogna agire e fare delle cose concrete”.
E’ possibile visionare il programma dettagliato e contribuire all’evento tramite il sito http://www.kapipal.com/comitato3ottobre.
(Mediterranean Hope)
Notizia del 5 giugno 2013
Intervista a Jim Winkler, presidente del National Council of Churches USA
a cura di Marta Bernardini e Francesco Piobbichi
Lampedusa (Agrigento), 4 giugno 2014 – Se si traccia una linea retta da Lampedusa verso gli Stati Uniti, ci si accorge che l’isola è alla stessa altezza di Los Gatos, piccola cittadina californiana teatro di un incidente aereo nel quale morirono 28 “deportati” messicani, alla fine degli anni ‘40. I 28 lavoratori messicani stavano per essere forzatamente rimpatriati dagli USA a causa del loro permesso di soggiorno, scaduto al termine del contratto di lavoro stagionale. Questa storia risuona a noi attualissima attraverso il testo del cantautore Woodie Gutrhie, scritto immediatamente dopo quell’evento (http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=1825).
A collegare queste due città è il collettivo Askavusa (http://askavusa.wordpress.com/) che a Lampedusa ha creato un “Museo delle Migrazioni” composto da oggetti ritrovati dopo il passaggio sull’isola di diversi migranti. Vestiti, scarpe, pentole, libri diventano elementi evocativi per narrare l’immenso e terribile fenomeno dell’immigrazione: gli indumenti dei migranti, intrecciati tra loro, compongono una cartina globale che racconta storie, emoziona e fa riflettere. Lampedusa, Los Gatos, le reti di Melilla, America ed Europa, nord e sud del mondo, reti, muri, mari e deserti tracciano linee difficili da superare, nelle quali, però, nascono anche solidarietà umana, libertà e speranza.
Così, mentre i ragazzi e le ragazze di Askavusa raccontano come l’isola sia diventata una frontiera fatta di contraddizioni, Jim Winkler, presidente del National Council of Churches USA (NCCCUSA), spiega come alcune chiese evangeliche negli Stati Uniti aiutino concretamente i migranti provenienti dal Sud America ad attraversare il confine messicano, allestendo punti di rifornimento di acqua e altri beni nelle pericolose tratte di interminabile deserto. Jim Winkler è venuto a Lampedusa, insieme al presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) Massimo Aquilante, per conoscere il progetto Mediterranean Hope della FCEI e i fenomeni migratori che riguardano il Mediterraneo, portando con sé l’esperienza delle chiese degli Stati Uniti. Nelle giornate di visita all’isola ha avuto modo di conoscere la storia di questo luogo, le vicende che l’hanno attraversata e che tutt’ora l’attraversano, le risposte dei lampedusani, le diverse associazioni e i soggetti che lavorano sul territorio.
In un’intervista fatta in collaborazione con Radio Delta (l’unica radio di Lampedusa, in larga parte finanziata dall’8×1000 della Chiesa valdese http://www.radiodelta.org/) Winkler racconta come il progetto Mediterranean Hope “possa aiutare soprattutto i migranti e tutte quelle persone di buona volontà, affinché possano lavorare insieme per affrontare questa crisi e le molte difficoltà che arriveranno nei prossimi anni a causa della instabilità politica globale, il cambiamento climatico, la povertà. Noi dobbiamo essere pronti – continua – a rispondere con programmi come questo alle difficoltà che si presenteranno in futuro”.
Winkler considera questo progetto un ponte: “ora – afferma – possiamo dire che in Italia c’è un buon esempio, che a Lampedusa abbiamo degli amici che hanno aperto le loro porte e le loro braccia a chi ha bisogno. Noi non siamo gli unici ad affrontare situazioni come queste ma ci sono esperienze simili in tutto il mondo, c’è solidarietà. Tornato a casa ho quindi intenzione di raccontare, alle chiese degli Stati Uniti così come alle istituzioni, questa vostra storia e la buona notizia di questo progetto”.
Continuando a parlare del fenomeno migratorio, il presidente del NCCCUSA racconta come la migrazione sia storia biblica e come per la fede diventi essenziale il modo in cui si risponde ai bisogni dei migranti. “Noi – prosegue Winkler – da cristiani, dobbiamo realmente capire chi lascia la propria terra, e dobbiamo accogliere lo straniero e dargli ospitalità. Detto questo, io credo che la chiesa sia la prima a dover rispondere ai bisogni dei migranti, a indicare la strada e essere d’esempio per poter lavorare mano nella mano con gli altri soggetti della società: il Governo, le realtà laiche, le associazioni umanitarie. Insieme dovremmo essere capaci di integrare i migranti nella nostra società, rispettando i loro desideri e fornendo educazione, casa, sostegno sanitario, lavoro, affinché possano avere un futuro migliore”.
In conclusione gli è stato chiesto di dare testimonianza della sua esperienza negli Stati Uniti: “Credo che in realtà sia Lampedusa, con la sua storia, a essere da esempio. Qui per molti anni avete sperimentato le migrazioni e ora dovete agire con rispetto, dignità, buona volontà e non rispondere con razzismo, diffidenza e paura. Io sono colpito – continua Winkler – dalla risposta di Lampedusa, e Lampedusa, nel mezzo del Mediterraneo, ha una lunga storia di persone che sono venute qui da tutte le parti del mondo, una storia davvero interessante. Io credo che siate voi ad insegnare qualcosa a noi. Nonostante vent’anni di migrazione i lampedusani sono rimasti calmi, hanno continuato ad accogliere, non solo i migranti ma anche i turisti. Siete un buon esempio per tutto il mondo”.
In questo video la canzone interpretata da Arlo Guthrie e Pete Seeger “Deportee (Plane Wreck at Los Gatos)”: http://www.youtube.com/watch?v=F8lRf6fATWE
Trascrizione integrale dell’intervista rilasciata da Jim Winkler a Radio Delta il 28 maggio 2014
Benvenuto a Lampedusa e a Radio Delta Jim, quali sono state le tue prime impressioni sull’isola?
La mia impressione è che Lampedusa è un bellissimo paese, una bellissima isola, con buon cibo, persone amichevoli e spero di tornare a visitarla un giorno.
Cosa pensi del progetto Mediterranean Hope?
È un bellissimo progetto, spero che si possa rafforzare e che possa aiutare soprattutto i migranti e tutte quelle persone di buona volontà, affinché possano lavorare insieme per affrontare questa crisi e le molte difficoltà che arriveranno nei prossimi anni a causa della instabilità politica globale, il cambio climatico, la povertà. Noi dobbiamo essere pronti a rispondere con programmi come questo alle difficoltà che si presenteranno in futuro.
Quale pensi che dovrebbe essere il ruolo delle chiese nell’affrontare il fenomeno migratorio?
Io penso che la Bibbia sia molto chiara rispetto alle migrazioni: noi dobbiamo essere responsabili di accogliere lo straniero e trattarlo con dignità. Facendo riferimento allo straniero nello Scritture, dobbiamo pensare che, guidato da Dio, Abramo è partito dalla sua nazione, che è attualmente l’Iraq, per andare in quella che ora è Israele, così come Mosè ha portato gli ebrei fuori dall’Egitto. La migrazione quindi è storia biblica e per la nostra fede diventa essenziale come noi rispondiamo ai migranti. Noi, da cristiani, dobbiamo realmente capire chi lascia la propria terra, e dobbiamo accogliere lo straniero e dargli ospitalità. Detto questo, io credo che la chiesa sia la prima a dover rispondere ai bisogni dei migranti, a indicare la strada e essere d’esempio per poter lavorare mano nella mano con gli altri soggetti della società: il Governo, le realtà laiche, le associazioni umanitarie. Insieme dovremmo essere capaci di integrare i migranti nella nostra società, rispettando i loro desideri e fornendo educazione, casa, sostegno sanitario, lavoro, affinché possano avere un futuro migliore.
Se dovessi scegliere, cosa porteresti a casa da questa esperienza a Lampedusa?
Sicuramente questo progetto è un buon esempio da riportare negli Stati Uniti. Noi abbiamo tante persone nelle chiese degli Usa che lavorano seriamente con coloro che vengono soprattutto dall’America latina e dal Messico, e in un certo senso questo progetto è un ponte. Ora possiamo dire che in Italia c’è un buon esempio, che a Lampedusa abbiamo degli amici che hanno aperto le loro porte e le loro braccia a chi ha bisogno. Noi non siamo gli unici ad affrontare situazioni come queste ma ci sono esperienze simili in tutto il mondo, c’è solidarietà. Tornato a casa ho quindi intenzione di raccontare, alle chiese degli Stati Uniti così come alle istituzioni, questa vostra storia e la buona notizia di questo progetto.
E invece cosa lasci tu a noi, cosa puoi insegnarci?
Io credo che in realtà sia Lampedusa, con la sua storia, a fare da esempio. Qui per molti anni avete sperimentato le migrazioni ed ora dovete agire con rispetto, dignità, buona volontà e non rispondere con razzismo, diffidenza e paura. Io sono colpito dalla risposta di Lampedusa, e Lampedusa, nel mezzo del mediterraneo, ha una lunga storia di persone che sono venute qui da tutte le parti del mondo, una storia davvero interessante. Io credo che siate voi ad insegnare qualcosa a noi. Nonostante vent’anni di migrazione i lampedusani sono rimasti calmi, hanno continuato ad accogliere, non solo i migranti ma anche i turisti. Siete un buon esempio per tutto il mondo.
Notizia del 30 maggio 2014 Nella mattinata di mercoledì si sono svolti a Catania, presso il Cortile del Palazzo della cultura, i funerali multireligiosi delle 17 vittime del naufragio avvenuto nel mediterraneo il 12 maggio scorso.I funerali delle vittime – 12 donne adulte, 3 uomini adulti e 2 bambine di origine nigeriana, siriana ed eritrea – sono stati celebrati con la presenza dell’arcivescovo metropolita di Catania, monsignor Salvatore Gristina, l’imam di Catania Keith Abdelhafid e alcuni esponenti della comunità copta ortodossa.Diverse le personalità intervenute, oltre il sindaco di CataniaEnzo Bianco, quali un esponente della Caritas, un portavoce della comunità di S. Egidio, un rappresentante del Ministro degliInterni, il capo della Protezione Civile della Regione Sicilia e infine un migrante sopravvissuto a uno dei tanti naufragi avvenuti nel mediterraneo, il maliano Félix Asante. Erano presenti due rappresentanti della chiesa battista e valdese di Catania, il pastore Salvatore Rapisarda e il presidente dell’Associazione Regionale battista di Sicilia e Calabria Silvestro Consoli. Consoli racconta che «le bare, una volta collocate in un’area apposita del cimitero comunale di Catania, saranno disposte rivolte verso la Mecca – come affermato dall’Imam Keith Abdelhafid».Durante la celebrazione i rappresentanti, prosegue Consoli, «hanno condiviso alcune riflessioni sul fenomeno migratorio, come la responsabilità dei paesi ricchi nell’iniqua distribuzionedelle ricchezze della Terra, la criticità della politica europea, la presenza dell’operazione di soccorso italiana nel mar mediterraneo e il dramma della tratta degli esseri umani». Per maggiori informazioni http://www.abcs-chiesebattiste.net/cristianesimo-societa/c-s-050-catania-giorno-funerali-17-migranti/ Foto di Silvestro Consoli 30 maggio 2014, Mediterranean Hope Notizia del 17 maggio 2014
Piccola imbarcazione con 19 giovani migranti arriva a Lampedusa
Roma (NEV/MH), 17 maggio 2014 – Stamattina alle 6.30 circa, un gruppo di migranti è arrivato a Lampedusa con una piccola imbarcazione, approdando a Cala Pisana.
Il gruppo era composto da 19 giovani uomini, in buone condizioni di salute, 17 dei quali sono marocchini, oltre un algerino e un camerunese. Tra loro sicuramente un minore accompagnato dal fratello. Molto probabilmente la piccola imbarcazione è partita dalla Tunisia.
Il gruppo, arrivato sull’isola, ha cercato beni di primo confortocome acqua e cibo tra i cittadini lampedusani recandosi poi nel piazzale della chiesa cattolica, dove il parroco Don Mimmo non ha esitato ad accoglierli, fornirgli acqua e assistenza, facendo telefonare alcuni migranti, probabilmente per avvisare le loro famiglie.
Le forze dell’ordine sono intervenute successivamentecon tranquillità, rivolgendosi loro in più lingue, arabo e francese.
Alle 10.30 circa il gruppo è stato accompagnato con un pullman al porto, per essere condotto con una motovedetta della Guardia di Finanza ad Agrigento.
(Mediterranean Hope)