Arizona, USA (NEV), 27 aprile 2016 – Siamo seduti su una panca al Comedor, rifugio per migranti a Nogales, Messico, sulla frontiera con l’Arizona. La colazione servita dai volontari e dai gesuiti è finita da poco, c’è ancora il profumo del riso, dei fagioli e dei chimichanga appena fritti. Con altri volontari ci apprestiamo a fornire vestiti e altri beni di prima necessità. Tu mi guardi con i tuoi occhi grandi e verdi, un volto giovane e sincero. Occhi così in questo angolo di mondo ancora non li avevo visti. In inglese mi racconti che la tua famiglia non è qui, che tua mamma l’hai persa ma è troppo difficile per te parlarne. Ti dico che puoi usare lo spagnolo con me perché sono italiana e lo capisco facilmente, mi sembra che i tuoi occhi diventino ancora più grandi dalla gioia di poterti esprimere nella tua lingua. Allora inizi a raccontarmi di più, con un sorriso che brilla come il verde dei tuoi occhi.
Fernando ha 19 anni, i capelli schiariti dal sole e lo sguardo ancora da ragazzo. Mi dice che è stato fermato negli USA senza documenti, ha passato alcuni giorni in un centro di detenzione e poi è stato deportato in Messico ma dall’altra parte del paese, lontano da qui. Lui è del Salvador e lì non ha più famiglia, e mi fa capire che è questo il motivo per cui è scappato, ma la voce gli si blocca in gola. Mi dice che ora il Messico lo conosce benissimo perché è in viaggio da due mesi e ha attraversato tutto il paese con il treno, “con questa mappa” mi dice e dal taschino della sua giacca di jeans tira fuori un piccolo pezzo di carta quasi trasparente, mi sembra quello che si trova nei Baci Perugina. E’ una mappa grande come il palmo della sua mano e ci sono segnate con dei puntini blu alcune “Case del migrante” presenti in Messico. Ma non è solo quella piccola mappa che lo ha guidato, mi mostra allora una foto sullo schermo rovinato del suo cellulare. “E’ mio figlio, ora ha 7 mesi. Devo tornare da lui a Los Angeles”. Fernando mi dice che domani, o forse dopodomani, attraverserà la frontiera, e lo farà da solo perché non ha soldi da dare ai trafficanti. Ora la voce si blocca a me. Sappiamo entrambi quanto è pericoloso il deserto, che sono più le probabilità di non farcela, ma lui sorride, guarda me e la foto di suo figlio. Mi ringrazia per averlo ascoltato, per averlo abbracciato e avergli augurato buona fortuna. Non riesco a pensare che domani cercherà di saltare il muro. Ora è qui con me, con i suoi occhi verde speranza, speranza di vedere un figlio che probabilmente il suo bel papà coraggioso e sorridente non lo conoscerà mai.
Oggi è il mio ultimo giorno qui al Comedor, come ogni volta mi si stringe il cuore e saluto tutti dicendo che li porterò con me in Italia, a Lampedusa. Questa mattina, come ogni mattina, il missionario gesuita Ivan, diventato ormai un caro amico, prima che la colazione venga servita, prende il microfono e parla di diritti. Dopo aver mostrato un video, chiede alle persone quali sono i loro diritti secondo loro. “Diritto alla famiglia, a migrare, a lavorare, diritto al cibo, alla salute, alla libertà, a essere rispettati e non essere discriminati”. Questo dicono diverse voci di persone sedute nella mensa. Ivan chiede “Chi si sente illegale qui?”. Nessuno risponde, ma qualcuno abbassa gli occhi. “Non è illegale scappare dalla violenza, non è illegale chiedere protezione, voi non siete criminali per questo, ma persone portatrici di diritti”, dice il giovane missionario. La sua voce è chiara e ferma. Un uomo prende coraggio e chiede: “Ma come possiamo far valere i nostri diritti?”. Ivan risponde con tre parole: parlare, denunciare e unirci. “Insieme abbiamo la forza, facciamo la differenza, possiamo cambiare le cose dicendo la verità e facendolo insieme – dice il missionario dagli occhi color cioccolato. Alla gente non piace la verità perché molti non vogliono che le cose cambino, ma con la verità trasformiamo noi stessi e quello che ci circonda. Noi non abbiamo paura di dire la verità”. Perché al Comedor non si servono solo due pasti caldi al giorno ma si raccolgono anche le storie delle persone, le denunce degli abusi, delle violenze, e si parla di diritti.
Prima di andare via una persona mi chiama, mi mostra la sua maglietta, è della nazionale italiana. E dico “Sì Italia!”, lui mi guarda e mi dice “Siamo tutti latinos no?, e io gli stringo la mano e rispondo “Si, e siamo tutti hermanos – fratelli”. Nel mio ultimo giorno ho fatto il pieno di vita, di coraggio, di voglia di lottare ma anche di ingiustizia e sofferenza. Mentre faccio le valigie sapendo di poter attraversare il mondo con il mio passaporto europeo penso a Fernando e spero che il deserto sia stato clemente con lui.