Lampedusa, Agrigento, 4 maggio 2016 (NEV) – A differenza delle persone che vediamo sbarcare con i gommoni, quelle arrivate a Fiumicino con i corridoi umanitari hanno portato enormi valigie dentro le quali hanno messo le proprie cose. Sembra secondario questo aspetto, ma in realtà è importantissimo perché in quelle valigie non hanno messo solo la speranza ma anche la propria dignità, la propria storia personale, gli oggetti che ricordano loro da dove vengono. Hanno viaggiato da uomini e donne libere con un volo di linea, dove c’erano anche passeggeri “normali”, tant’è che non si distingueva il profugo siriano dall’uomo d’affari libanese. Se fossero arrivati con un barcone li avremmo accolti invece con mascherine, tute bianche e guanti di plastica per paura delle malattie! Dopo la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013 in molti hanno inondato i media di parole e comunicati, ma la strage non si è fermata, noi abbiamo deciso invece che qualcosa di concreto dovesse essere fatto.
Scrivo queste righe con ancora addosso la stanchezza degli ultimi giorni, mentre ancora molte delle persone arrivate in tutta sicurezza in Italia sono in viaggio verso le loro destinazioni finali. Sono molte le emozioni che mi attraversano, questa lista di nomi, fatta di storie, pianti e sorrisi mi lascia sentimenti contrastanti. Ero partito pochi giorni fa da Lampedusa per Beirut con il nodo in gola, facendo la conta dei morti nel Mediterraneo avvenuti negli ultimi giorni: 26, 87, 400… e oggi sono qui, all’aeroporto di Fiumicino a festeggiare il fatto che queste persone, tutte vulnerabili, siano arrivate in sicurezza dal Libano con il secondo volo organizzato per i corridoi umanitari. A Lampedusa in questi anni ho visto sbarcare persone infreddolite, scalze, assetate, sotto shock, in questo aeroporto non vedo emergenza, ma semplici persone in attesa dei controlli, bambini che giocano e disegnano aerei.
L’Europa dell’indifferenza già si è dimenticata di Aylan, il piccolo bambino curdo-siriano senza vita sulle coste della Turchia, noi no, e se da un lato la rabbia tiene vivo il ricordo, oggi riempie il cuore vedere che bambini come lui sono arrivati in sicurezza e si divertono a far scattare l’allarme dell’aeroporto. Sono cristiani, musulmani, fuggono da una guerra fratricida che in Siria ha messo i vicini di casa l’uno contro l’altro.
Da piccolo mi hanno insegnato che la guerra non viaggia mai da sola, che ha una sorella che si chiama miseria. In Libano di miseria ne ho vista tanta, insieme a malattie di ogni genere. Talmente tante patologie, che quando entri in un campo profughi già sai che incontrerai bisogni ai quali non si potrà dare risposta. Che dovrai trovare il modo per dire che non c’è speranza. Alcuni dei bambini arrivati con i corridoi umanitari, e che oggi dormono tra le braccia dei genitori, dovranno continuare a combattere per la propria vita, contro malattie terribili, tutto quello che abbiamo detto ai loro padri e alle loro madri è che in Italia avranno molte più possibilità che in Libano…, sembra poco, ma per loro è un miracolo. Li ho visti piangere e ridere di contentezza, ballare le loro canzoni tenendosi per mano, salutare i loro parenti con lunghi abbracci.
Partire, migrare, vuol dire per uomini e donne provare sofferenza accompagnata alla paura. Paura di entrare in un altro mondo, senza conoscere la lingua e le leggi del paese dove andrai. Ma la guerra e la miseria ti spingono via come un vento al quale è difficile opporsi.
I corridoi umanitari sono una goccia nel mare, ma sono in grado di aprire un dibattito politico in Europa di prima grandezza perché dimostrano che è possibile un’alternativa a quella di pagare governi autoritari per fare il lavoro sporco oltre i confini.