Con circa 180.000 arrivi nel 2016, l’Italia si conferma il paese europeo più esposto alle migrazioni globali; lo scorso anno i morti durante i “viaggi della speranza” lungo la rotta mediterranea, sono stati oltre 5.000, con un aumento di circa 1200 vittime rispetto al 2015. Sono questi i dati essenziali sulle migrazioni verso l’Europa che William Lacy Swing, direttore dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – un’agenzia delle Nazioni Unite – ha reso pubblici lo scorso 6 gennaio.
Un ragionamento razionale sulle migrazioni globali, libero dai veleni della propaganda politica e orientato a cercare soluzioni sostenibili a un problema che resterà nella top list dei paesi dell’Unione europea anche nel 2017, non può che partire da queste cifre che rendono evidenti almeno tre considerazioni.
La prima è che i flussi migratori funzionano come vasi comunicanti: si può provare ad abbassare la pressione su uno di essi – come è accaduto chiudendo il passaggio dalla Turchia e sigillando il confine ungherese – ma al prezzo prevedibile e inevitabile di scaricarla su altri. Ed è esattamente quello che è accaduto all’Italia che, chiusa la rotta balcanica, ha finito per essere il principale hub di accoglienza di migranti e richiedenti asilo da quell’ampia area geopolitica che dalla regione subsahariana risale sino al Nord Africa e al Medio Oriente.
La seconda evidenza contenuta nei dati sulle migrazioni è, che nonostante morti in mare, accordi internazionali con i paesi di partenza, fili spinati e pattugliamenti navali, la pressione migratoria non diminuisce, semmai aumenta leggermente. La ragione è presto detta: ancora oggi per centinaia di migliaia di persone il rischio di passare mesi in balia dei trafficanti, di subire violenze di ogni genere e di rischiare la vita nella traversata su un barcone, è preferibile alla certezza delle guerre in atto, delle persecuzioni o della fame nei propri paesi. È la forza di queste spinte alla fuga ad alimentare costantemente i flussi migratori. Logica e realismo, pertanto, dovrebbero convincerci che, a dispetto di qualsiasi muro e pattugliamento navale, le migrazioni continueranno sino a quando la comunità internazionale non avrà garantito la stabilizzazione di paesi oggi in guerra, lacerati da conflitti interni o ridotti allo stremo economico e sociale. Pacificazione e sviluppo, insomma, sono i prerequisiti essenziali di ogni politica di contenimento dei flussi. Concentrarsi sul terminale del problema – gli arrivi – senza considerane l’origine non è solo un errore politico ma una violenza alla logica delle cose.
La terza evidenza è che in assenza di vie legali, migranti e richiedenti asilo ricorrono ai trafficanti e ai loro servizi, poco importa quanto rischiosi, criminali o eticamente ripugnanti. Ogni giorno gli operatori di Mediterranean Hope, il progetto per le migrazioni della FCEI – non fa differenza se impegnati al porto di Lampedusa, alla Casa delle Culture di Scicli (RG) o nella sede centrale di Roma – raccolgono testimonianze che suonerebbero incredibili se non fossero suffragate da ustioni, segni di violenze, foto che documentano la violenza seriale e sistematica connessa con il traffico umano. Di fronte a questi racconti si può ovviamente reagire dicendo che “la barca è piena e non c’è posto per altri naufraghi”. È la scorciatoia più facile da “vendere” a un’opinione pubblica preoccupata e talora orientata da efficaci campagne di marketing politico. Ma è anche quella meno sostenibile sotto il profilo del diritto, e cioè delle leggi in vigore, che nessun comizio e nessuna marcia possono mettere in mora. E le norme, quelle che hanno costruito la tradizione europea dei diritti umani, riconoscono il diritto d’asilo e la protezione internazionale.
Il problema è che attualmente – con l’unica eccezione “pilota” dei “corridoi umanitari” promossi dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia insieme alla Tavola valdese e alla Comunità di Sant’Egidio – non esistono vie d’accesso legali né per migranti né per rifugiati. È vero, la barca è già affollata ma piuttosto che ributtare in mare chi cerca di raggiungerla occorre chiedere soccorso a chi naviga nelle vicinanze. È quello che l’Italia sta facendo da mesi, sia pure con risultati onestamente sconfortanti. Ma non c’è strada diversa da questa, e confidiamo che il governo presieduto da Paolo Gentiloni, il politico che da ministro degli Esteri ha accolto centinaia di profughi arrivati in Italia proprio grazie ai corridoi umanitari, non intende cambiare direzione di marcia.
Ma questa sfida della razionalità e della legalità non si vince solo con gli strumenti della politica. Occorrono anche la chiarezza delle parole, la forza della testimonianza e la concretezza della diaconia che come uomini e donne di buona volontà sapranno esprimere.