Roma (NEV), 22 febbraio 2017 – Raggiungere la famiglia cui vogliamo rendere visita non è semplice, dobbiamo addentrarci nel quartiere di Shatila, nato a sud di Beirut per i profughi palestinesi, oggi dimora per larga parte dei profughi siriani del Libano.
Le strade di Shatila sono piene di vita, immerse tra le bancarelle di spezie e tute sportive taroccate. Un movimento di case senza logica ha mosso questo quartiere nato per caso; niente è “razionale”, come la ragnatela di fili della corrente che si sviluppa sopra di noi. Anche Beirut è cresciuta senza pianificazione, la guerra prima e la speculazione edilizia poi hanno trasformato la città. Ma a Shatila semplici baracche sono diventate case e vecchi palazzi fatiscenti sono stati rinchiusi da nuovi muri di cemento che hanno tagliato le strade ed i vicoli, isolandoli dall’esterno. I profughi, prima palestinesi e oggi siriani hanno “riempito” questi buchi abbandonati, facendo la fortuna dei proprietari. Per questo motivo, per addentrarsi dentro il vecchio palazzo dove vive la famiglia siriana che vogliamo incontrare, occorre lasciarsi il sole alle spalle e percorrere passaggi che sembrano condurti sotto terra, tra vetri rotti, spazzatura e forte puzza di fogna. L’acqua che lacrima dalle vecchie tubature arrugginite crea pozze che non si asciugano mai, rendendo pesante l’aria che respiri. Per un attimo mi dimentico di essere a Beirut. I varchi di luce nel muro aperti dalle bombe mi mostrano interni invivibili, dove si accavallano generatori e cisterne d’acqua.
Samia e suo marito Ahmed che tira avanti facendo spremute in un bar di Beirut ci aspettano in cima alle scale bagnate con i loro 4 bambini. Ogni piano ha un corridoio di miseria, con porte fatte di stoffa e tavole di legno. Entriamo in casa, una piccola stanza divisa in due, un bagnetto e una cucina priva di finestre. L’aria è umida e insalubre. Per una simile “sistemazione” questa famiglia paga 200 dollari al mese, all’incirca la paga mensile di Ahmed. I bambini ci accolgono mangiando frutta, e dopo poco la più piccola di loro si chiude dentro un armadio come se giocasse a nascondino. Mentre parliamo con i genitori i suoi occhi entrano ed escono dall’anta che si apre e si chiude: ha bisogno di giocare, un bisogno fisico di scappare da quei quattro muri che l’hanno sequestrata dalla sua giovinezza. La TV è accesa, i programmi che vedono questi bambini sono sempre gli stessi e li guardano ininterrottamente, tutti i giorni. Non c’è spazio per loro in questo luogo, non possono andare a scuola né ci sono parchi per andare a giocare. Così la loro stanza da letto è anche il loro parco giochi, la TV la loro finestra con dentro il mondo. “Eccola la grande muraglia che stiamo costruendo”, penso tra me e me mentre osservo i bambini colorare i miei disegni, “comincio a comprenderne il movimento, l’estensione, la logica che la sviluppa come un serpente di filo spinato che taglia il pianeta tra ricchi e poveri”.
La settimana prima ero a Lampedusa e la “grande muraglia” me l’hanno raccontata dei ragazzi provenienti dalla Libia; mi parlavano mostrandomi sul loro corpo i segni delle violenze dei loro aguzzini. Ho visto scendere dal loro viso lacrime dello stesso colore di quelle che sommergono i racconti delle famiglie siriane in Libano.
Ci sono momenti in cui occorre capire che le cose che stai facendo hanno un’importanza ben maggiore di quello che pensi. Piccole azioni che possono diventare montagne. Oggi per noi di Mediterranean Hope è uno di quei momenti: perché siamo qui a Shatila per comunicare a questa famiglia che volerà via da tutto questo. Lunedì prossimo atterreranno a Fiumicino con un volo di linea, senza scafisti a lucrare sulla loro disgrazia. Viaggeremo insieme in libertà, riconoscendo un diritto che dovrebbe essere garantito ad ogni uomo di questa Terra.