Roma (NEV), 9 marzo 2017 – E’ un risultato storico quello del Sinn Féin, il partito cattolico e repubblicano del Nord Irlanda, che alle elezioni del 2 marzo scorso è arrivato secondo con il 28,9% dei consensi, appena dietro a un Partito Democratico Unionista calato al 29,1%. Solamente un anno fa il principale partito “protestante” aveva ottenuto ben 8 seggi in più del Sinn Féin; oggi 1 seggio separa i due partiti di maggioranza. A spiegazione sia della crisi di governo che ha portato a nuove elezioni sia di questo inatteso risultato elettorale è il quadro disegnato dalla Brexit. Perché se è vero che il 56% dei cittadini nordirlandesi ha votato per rimanere nell’UE, la sua appartenenza al Regno Unito condurrà il paese fuori dall’Europa resuscitando una frontiera fisica e simbolica tra “un’Irlanda cattolica europea” e “un’Irlanda britannica e protestante”.
Prima del voto l’Agenzia NEV aveva intervistato il pastore Norman Hamilton, ex moderatore della Chiesa presbiteriana irlandese. Per comprendere il ruolo che le diverse chiese e confessioni si attribuiscono in quest’intricato quadro politico, abbiamo sottoposto gli stessi problemi al pastore anglicano Adrian Dorrian, presidente della Commissione affari sociali della Church of Ireland, che con i suoi 249.000 membri è la seconda maggiore denominazione protestante del Nord Irlanda.
La preoccupa, anche come cristiano, la possibilità di nuovi conflitti in Nord Irlanda? Ritiene che la pace del 1998 sia in pericolo?
Credo che nessun cristiano dell’Irlanda del Nord, o chiunque altro, auspichi un ritorno alla violenza dei “Troubles”. L’accordo di pace del 1998 ha messo nero su bianco le regole per andare avanti, ma è importante notare che i principali gruppi paramilitari avevano chiesto il “cessate il fuoco” molto prima. Mentre sono preoccupato per la parte degli accordi che riguardano la condivisione del potere politico – un sistema che in questo momento non funziona – credo che nessuno, meno che meno i leader politici, desiderino un ritorno ai peggiori giorni di violenza.
Nel contesto disegnato dalla Brexit, c’è però il rischio che i politici irlandesi, nordirlandesi e britannici tornino a utilizzare l’identità religiosa dei cittadini per raggiungere i loro obiettivi.
In Irlanda del Nord religione e politica sono sempre state intrecciate. In termini numerici, il paese ha ancora un elevato numero di credenti praticanti, ma buona parte di coloro che magari non praticano più la propria fede conservano un’identità radicata nel background religioso. Non credo che questo debba essere visto come un pericolo. La Chiesa ha molto da dire nello spazio pubblico, ha una sua parte importante nel discorso civico. Certo alcuni politici rendono pubblica la propria fede attiva, ma questo non dovrebbe essere visto come un errore. In ogni caso la fede non dovrebbe costituire una tecnica di campagna politica, né dovrebbero farlo vecchie opinioni informate dalla fede.
In questo difficile momento, presbiteriani, cattolici e anglicani del Nord Irlanda hanno chiesto all’unisono un miglioramento del pubblico dibattito, richiamando la politica alle proprie responsabilità. Nel caso in cui, come auspicato dal cattolico Martin McGuinnes e da altri leader del Sinn Féinn, venisse indetto un unico referendum per decretare la permanenza di tutta l’isola nell’Unione europea, le posizioni delle diverse confessioni inizierebbero a differenziarsi?
Non prevedo un referendum sull’unità irlandese inquadrato nel contesto dell’UE, anche se qualsiasi consultazione elettorale sui confini includerebbe inevitabilmente anche l’UE, come parte di un discorso che è più ampio. La posizione della Chiesa d’Irlanda è che gli individui hanno il diritto e la responsabilità di esercitare il loro diritto di voto. Come scelgono di farlo è una questione di coscienza individuale. Questo non sarebbe diverso nel caso di un referendum sull’unità irlandese. Con le sue radici nella Chiesa d’Inghilterra, ma il suo ruolo unico nella storia e nel patrimonio irlandese, la Chiesa d’Irlanda ha molto da offrire sia alla società britannica sia a quella irlandese. Credo che questa caratteristica appartenga anche alle altre denominazioni irlandesi.
Prendiamo invece il caso contrario, se tutto prosegue senza interruzioni l’uscita del Nord Irlanda dall’UE trasformerà il confine tra le due Irlande in una frontiera esterna dell’Unione. Quali conseguenze avrebbe questo nuovo e, al tempo stesso, vecchio confine sul piano religioso?
Ricordo i posti di blocco tra le due Irlande: anche per questo oggi mi è difficile concepire una situazione in cui quel confine torni com’era. Tuttavia, se ciò accadesse, le conseguenze sarebbero pratiche, relative agli incontri e all’azione pastorale tra parrocchie e diocesi divise tra i due paesi. La ragione per cui questo problema non sarebbe religioso è semplice: nessun confine cambierà la missione del corpo di Cristo, né nella Chiesa d’Irlanda né in altre denominazioni. Nel mondo, moltissime province e diocesi anglicane si estendono su paesi diversi. Penso ai miei amici vescovi del Sud Sudan o dell’Egitto che ogni giorno attraversano dei confini. Non è semplice, ma la loro missione rimane invariata.
Qual è, dal suo punto di vista, la principale ragione dell’attuale crisi politica e culturale che si respira in Nord Irlanda?
Penso che il principale problema sia la mancanza di fiducia. Per generazioni, le fazioni politiche sono state l’una contro l’altra. La condivisione del potere nella sua forma attuale, che prevede esclusivamente governi di coalizione, è sempre stata precaria. Ritengo che i politici e la popolazione in senso più ampio stiano ancora cercando di imparare cosa significhi fidarsi di quelli provenienti dall’”altra parte del confine”, persone che per molti decenni sono state viste come “il nemico”. Tutte le relazioni proficue sono inquiete, il segno di un rapporto veramente forte non è la mancanza di conflitti ma la capacità di scioglierli. Confido sul fatto che la riconciliazione verrà, e che gli attuali problemi si risolveranno. Quando ciò accadrà, il risultato sarà una società civile più forte.