Corridoi umanitari, l’esempio del Canada

L’intervista ad Alberto Mallardo, che di recente ha visitato il paese in qualità di operatore di Mediterranean Hope

Roma (NEV), 3 aprile 2017 – I corridoi umanitari promossi dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), dalla Tavola Valdese e dalla Comunità di Sant’Egidio sono stati la prima esperienza europea. Ma oltre oceano, in Canada, questa buona pratica risale agli anni Settanta. Ne abbiamo parlato con Alberto Mallardo, operatore presso l’Osservatorio sulle migrazioni che la FCEI ha aperto a Lampedusa, che a metà marzo ha portato a Toronto la testimonianza di Mediterranean Hope.

Da quanto tempo il Canada pratica i corridoi umanitari?

Le prime sperimentazioni in questo senso risalgono alla metà degli anni Settanta, quando l’opinione pubblica canadese venne scossa dalla drammatica situazione dei profughi che partendo da Vietnam, Cambogia e Laos, affrontavano il Pacifico per sfuggire ai campi di rieducazione del governo. Il Canada avviò allora un massiccio piano di accoglienza e in soli due anni migliaia di persone ottennero il permesso di soggiornare in Canada. Fin dall’avvio del programma le chiese canadesi hanno svolto un ruolo estremamente attivo e solidale. Ad esempio, fu la chiesa mennonita la prima a redigere un accordo formale che permettesse alle chiese e ad altre organizzazioni laiche di accogliere i rifugiati in autonomia.

Quali sono, nell’esperienza canadese, il ruolo del governo e il peso della società civile?

Nel rispetto del diritto internazionale, il governo canadese fornisce assistenza a migliaia di profughi attraverso il suo specifico programma per i rifugiati: il Government-Assisted Refugee. Parallelamente, però, la società civile può scegliere di fornire ulteriori opportunità alle persone vulnerabili che vivono all’estero, ricorrendo a uno specifico programma “privato”: il Private Sponsorship of Refugees. Dal 1978 a oggi più di 225.000 persone sono state messe in sicurezza grazie all’iniziativa della società civile.

Sebbene siano simili, i due programmi presentano delle differenze e rimangono tra loro indipendenti. Gli standard di accoglienza dei privati sono o uguali o superiori a quelli garantiti dal governo. Ma soprattutto, il coinvolgimento della popolazione che gli enti promotori della società civile riescono a garantire costituisce un capitale sociale fondamentale per favorire l’integrazione e rafforzare la coesione sociale delle comunità. Alcune ricerche mostrano infatti che le persone sostenute dalle sponsorizzazioni private tendono a integrarsi meglio e prima rispetto ai beneficiari aiutati dal governo.

Un modello apparentemente virtuoso. Che davvero non presenta criticità?

Alberto Mallardo

Nel campo dei corridoi umanitari e del reinsediamento l’esperienza canadese costituisce senza dubbio un modello. Ciò detto, le sue virtù dipendono anche dalle condizioni geografiche, perché a differenza della Grecia o dell’Italia il Canada non è una paese di “primo accesso” al centro di flussi migratori globali. Per completezza bisogna inoltre sottolineare che una narrazione estremamente positiva nei confronti delle politiche migratorie del Canada spesso non tiene conto del fatto che anche il governo canadese ha imposto delle limitazioni abbastanza stringenti agli ingressi nel paese. In questo contesto si inseriscono gli enormi ritardi burocratici che spesso frustrano la disponibilità dei partner privati a procedere ai reinsediamenti. Infine, molte realtà della società civile denunciano forti disparità di trattamento tra i rifugiati siriani e quelli che arrivano dall’Africa: se l’accoglienza di primi è stata accelerata grazie all’intervento del governo, rifugiati di altre nazionalità dovranno aspettare anni. Dunque sì, il Canada è un unicum da studiare, criticità incluse.

In Canada che tipo di dibattito pubblico ruota intorno alla pratica dei corridoi umanitari, o più in generale al tema delle migrazioni?

Durante l’ultima campagna elettorale il tema dell’accoglienza dei rifugiati ha influenzato in maniera rilevante il dibattito politico. Ma al contrario di quanto succede in Europa o nei vicini Stati Uniti, gli sfidanti hanno proposto misure per sostenere i rifugiati nel modo più rapido ed efficace, come in una sorta di asta al rialzo. L’identità del Canada è multiculturale e il nuovo primo ministro Justin Trudeau è riuscito a rispondere perfettamente al bisogno di un paese che vede nell’accoglienza non solo un obbligo internazionale ma anche un’importante opportunità di crescita economica. E i numeri lo confermano: un quinto dei canadesi è nato all’estero. Nelle principali città, da Toronto a Vancouver, quasi metà della popolazione è formata da minoranze. Eppure al contrario di tante periferie europee o statunitensi la parola d’ordine è integrazione.

Detto questo, esistono anche in Canada alcune forze che fomentano il risentimento nei confronti delle politiche di accoglienza. Di recente alcune moschee sono state oltraggiate da scritte sui muri, e proprio mentre mi trovavo in Canada ho assistito a manifestazioni che avevano come slogan “L’Islam è il male” o “Make Canada great again”. Tuttavia lo spirito del Canada è quello incarnato da Trudeau che ha detto: “A coloro che fuggono da persecuzione, terrore e guerra, il Canada vi accoglierà, indipendentemente dalla vostra fede. La diversità è la nostra forza. Benvenuti in Canada”.