Roma (NEV), 26 aprile 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “lo sguardo” proviene dal Libano, alla vigilia della partenza dell’ottavo gruppo di profughi siriani che giungerà in italia grazie ai corridoi umanitari promossi da FCEI, Tavola valdese e Comunità di Sant’Egidio.
“Centoventi o poco più”. E’ il numero della persone che in questi giorni lasceranno il Libano su un volo di linea, arrivando in Italia in sicurezza grazie ai corridoi umanitari. E’ un numero che come operatori di Mediterranean Hope abbiamo già incontrato: su un’altra lista di vite umane, stilata a Lampedusa. Altre nazionalità, altri nomi: non erano in ordine alfabetico, non erano digitalizzati in Excel, erano scritti a penna su un foglio di carta tenuto in mano da un ragazzo arrivato dal mare. Su quella lista letta ad alta voce c’erano i nomi dei suoi compagni di viaggio scomparsi, nomi inghiottiti dalle onde dell’oblio, nomi che non verranno restituiti: le vittime della tragedia del 3 novembre 2016, un naufragio in cui persero la vita “un centinaio” di esseri umani. Anche loro, prima di partire, erano “120 o poco più”. Come il gruppo che domani atterra a Fiumicino. Anche loro erano uomini, donne e bambini in fuga da guerra e miseria. “120 o poco più” è, infatti, il numero delle persone che mediamente entra in un gommone che parte dalla Libia: persone spinte una sull’altra con le gambe aperte, incastrate tra loro per massimizzare ogni spazio e far guadagnare più soldi ai trafficanti.
Ogni volta che, da Beirut, pensiamo a Lampedusa, proviamo un sentimento ambivalente. Felicità e rabbia: felicità perché organizzando i corridoi umanitari diamo una possibilità al futuro delle persone che abbiamo di fronte; rabbia perché ci rendiamo conto che altre macabre liste si sarebbero potute evitare. Qui in Libano, il giorno prima della partenza, vediamo valigie che si gonfiano di storie, bambini sorridenti vestiti a festa che giocano nel piazzale mentre attendono di partire con i bus per l’aeroporto. Li portiamo via da una guerra, quella siriana, che li ha spinti via; da un confine, quello libanese, che li recinta nella miseria. Ridono quando l’aereo parte e applaudono quando toccano terra.
Di tutt’altro tenore sono le storie di viaggio che raccogliamo a Lampedusa, le storie dei sopravvissuti che vengono dalla Libia. Su entrambe le frontiere le persone che fuggono dalla terra dove sono nate ci appaiono come alberi dalle radici tagliate. Persone come Fatem, che ha partorito a Raqqa in condizioni estreme, ricucita “come una camicia di jeans”. Bambini come Fadil, che ti fissa negli occhi e ti dice: “Doctor, portami da mio padre!”. Giovani come Suhaila, che nel suo tugurio di Sabra – campo palestinese nella periferia di Beirut – per cui paga 300 dollari al mese d’affitto, ci dice: “Il mio futuro ormai è andato, voglio darne uno ai miei figli”. E ha 28 anni. Difficile chiudere gli occhi, difficile non avere le orecchie, in situazioni come queste. Questi frammenti di storie umane non sono numeri che scivolano via, sono volti che rimangono impressi nella coscienza.