Un’altra fibrillazione nel governo e un altro dibattito infinito – spesso tra sordi – sulle migrazioni mediterranee e sulle politiche di “search and rescue” (SAR) adottate dalla Guardia Costiera e dalle ONG.
I fatti sono sostanzialmente due. Innanzitutto la politica del ministro Minniti, sostenuto dal premier e dallo stesso Presidente della Repubblica, che da tempo ritiene che i flussi migratori debbano essere fermati “a monte”, e cioè nel luogo in cui i migranti si concentrano e incontrano gli “scafisti”, insomma in Libia. Da qui la sua “intesa” con il governo Serraj, che però esercita il suo potere solo su alcune regioni del paese nordafricano – sostanzialmente la Tripolitania – mentre altre come la vasta Cirenaica restano sotto il controllo del suo avversario, il generale Haftar, dell’Isis o di tribù e clan che da sempre si contendono il controllo delle zone petrolifere. Il piano Minniti prevede un asse diretto con il presidente Serraj che, in cambio di aiuti economici e tecnici e della fornitura di mezzi di soccorso italiani, si impegna a contrastare il traffico illegale di migranti.
In questa strada, già battuta ai tempi di Gheddafi, non c’è nulla di nuovo: sostenere un regime a patto che blocchi i flussi migratori.
Questa strategia nasce da una intenzione, magari secondaria e indiretta, che tuttavia va riconosciuta e apprezzata: il traffico di migranti, che sempre più spesso coinvolge anche donne e bambini, è un crimine contro l’umanità che deve essere combattuto con fermezza.
Gli operatori di Mediterranean Hope (MH), programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), che incontrano i migranti partiti con i gommoni degli scafisti, ci raccontano quotidianamente di violenze e torture per spremere da uomini, donne e bambini inermi l’ultimo dollaro di cui dispongono. E quando non hanno più niente se non il fiato per supplicare un po’ di pietà, i trafficanti ricattano i loro parenti.
I trafficanti di oggi non sono dei romantici passeur che arrotondano i loro guadagni con un’attività illegale ma una struttura economico criminale che usa i migranti come una merce; sono schiavisti come quelli che nei secoli scorsi battevano le rotte dall’Africa occidentale verso il nuovo mondo americano, con l’aggravante che i loro guadagni vanno ad alimentare traffici oscuri e criminali.
Ma per combattere questo mostro non si possono consegnare i migranti al suo gemello, e cioè a una terra senza legge in cui neanche il capo di un contestato governo territoriale come Serraj è in grado di garantire il minimo rispetto di elementari diritti umani per i profughi “respinti” e restituiti a chi li ha derubati, violentati e torturati per mesi. In questo ha perfettamente ragione il viceministro degli Esteri, Mario Giro, quando afferma che “fare rientrare quelle persone vuol dire condannarle all’inferno”.
E i corridoi umanitari – realizzati dalle chiese evangeliche insieme alla Comunità di Sant’Egidio nel quadro di un protocollo firmato dai ministeri dell’Interno e degli Esteri – hanno rappresentato un’alternativa legale e umanitaria all’inferno libico. Sia pure senza enfasi né orgoglio, bisogna però riconoscere che essi indicano una strada assai più concreta di tanti proclami al contrasto dello human trafficking. Una strada che l’Italia potrebbe potenziare e l’Europa finalmente adottare con quote ragionevoli e sostenibili divise per paese. Con questo obiettivo abbiamo lavorato in questi anni e su questo programma torneremo in occasione di un convegno internazionale che la Federazione delle chiese evangeliche sta organizzando a Palermo dal 30 settembre al 3 ottobre. Così i protestanti italiani ricorderanno le 368 vittime della strage del 2013, e lo faranno insieme a rappresentanti della Chiesa cattolica e delle chiese protestanti degli USA, della Germania, della Francia e di una decina di altri paesi europei che hanno già annunciato la loro presenza.
La polemica contro le ONG si consuma in questo scenario. Se qualcuno di questo mondo che è espressione di una società civile che non si accontenta dei dibattiti impegnati, ha avuto un qualche rapporto con i trafficanti è giusto che venga isolato e giudicato, anche con severità: non si può collaborare con chi programma lo sfruttamento brutale di centinaia di milioni di persone ogni anno, ricorrendo a violenze, stupri e ricatti.
Ma la realtà complessiva delle ONG è un’altra cosa e il semplice dato dei salvataggi in mare, per altro sempre coordinati dalla Guardia costiera, racconta una storia del tutto diversa da quella contrabbandata in questi giorni: secondo fonti della Guardia Costiera nel 2016 le ONG hanno recuperato complessivamente 46.796 migranti, più del doppio di quanti ne avevano soccorsi l’anno precedente (20.063). E nei primi 4 mesi del 2017 hanno salvato 12.646 persone, il 35% del totale.
Oscurare questo dato è politicamente strumentale ma soprattutto moralmente ingiusto. Il problema non sono le ONG né la loro prossimità alle acque territoriali libiche: la tragedia di oggi è la forza dei “push factors” che spingono centinaia di migliaia di persone a rischiare la vita pur di sfuggire alla disperazione della guerra, delle violenze e della fame.
E’ giusto porsi il problema di fermare o ridurre i flussi migratori “a monte” ma la strada non può essere quella di chi oggi vuole respingere i migranti in Libia e magari domani vorrà creare un muro lungo la riva sud del Mediterraneo. Un’enorme area geografica che va dalla Siria alla Guinea ha bisogno di stabilizzazione politica e di aiuti economici per la ricostruzione o lo sviluppo. Ed è questo che l’Europa potrà e dovrà fare con quel famoso “piano Marshall per l’Africa” di cui si parla da troppo tempo in sede UE, senza che però nulla accada. “Aiutiamoli anche a casa loro”, certo, ha un senso. Ma alla scorciatoia facilona e irrealistica invocata da qualcuno, dobbiamo aggiungere un “anche” essenziale e irrinunciabile, perché le migrazioni globali non si fermano con la facilità con cui si rilascia una dichiarazione ai giornali. Ma soprattutto mettiamoci in testa che “aiutarli anche a casa loro” non può significare scaricare il barile sulla sponda sud del Mediterraneo ma, al contrario, implica nuovi, onerosi impegni.