Roma (NEV), 22 novembre 2017 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene dall’Osservatorio di Lampedusa ed è a firma di Francesco Piobbichi, operatore di MH a Lampedusa e in Libano
Questo primo giro per l’Italia per presentare il libro dei disegni dalla frontiera si chiude a Scicli. Si ha così il tempo per tornare a casa, scrivere le prime impressioni per poi ripartire di nuovo. Fino ad ora mi hanno chiamato a raccontare i disegni diverse realtà, scuole, parrocchie, case del popolo e circoli associativi. Ogni racconto ha qualcosa di diverso dall’altro, spesso anche i disegni cambiano. Ma l’ultima volta è stata diversa, perché presentando i disegni alla Casa delle Culture ho ritrovato un po’ tutti quelli che animano questo esperimento narrativo di Mediterranean Hope. Eravamo tutti insieme, chi sta sulla frontiera di Lampedusa, chi accoglie come a Scicli, e chi sta oltre perché è impegnato con i corridoi umanitari. E poi c’erano le donne migranti, loro che spesso sono il soggetto principale del racconto erano lì, davanti a me. Alcune di loro hanno scelto di rivedere il viaggio, per altre era impossibile riviverlo. Troppo dolore. Sofferenza questa volta, che diventa difficile anche per me cercare di fissare in un foglio. Eppure, mi dico, devo provare a farlo, perché nulla di questa tragedia vada perso. Perché la storia di queste due madri alle quali il mare ha preso i loro figli nei giorni scorsi diventi mattone di pietra nel muro della memoria del domani. Penso che ci sia un modo di raccontare la sofferenza che deve rispettare la dignità delle persone vive e di quelle morte. Così le disegno, e narro il viaggio, non sono un artista né un attore, è una necessità comunicativa che ci impone questa ricerca, quella di operatori sociali che vogliono dotarsi di nuovi strumenti. Lo facciamo insieme, cercando di evitare quella pornografia del dolore che crea il mercato delle emozioni forti per poi voltare immediatamente pagina una volta fatto il pieno di condivisioni. Con i miei colleghi che lavorano sulla frontiera ci stiamo interrogando spesso su questi temi, e stiamo provando a costruire un metodo di comunicazione sociale collegato alle nostre pratiche che possa essere usato da tutti. Questo tema dovrebbe riguardare anche tutti quelli che lavorano con i migranti, proviamo a dargli voce attivando una forma elementare di comunicazione che non ha bisogno della lingua. I disegni infatti parlano a tutti, e come dimostrano i graffiti sulle caverne sono parte delle narrazioni e dell’evoluzione dell’umanità. In tempi di regressione come quelli che stiamo vivendo mi piace pensare al loro utilizzo come modo per curare l’odio e il razzismo. Chi viene a Lampedusa e parte da Palermo troverà al gate dell’aeroporto delle immagini di migranti. Tra loro una poliziotta che allatta un bambino con un biberon. Se non ricordo male quel bimbo è figlio di una donna morta in mare, ogni volta che la vedo mi chiedo sempre “se il volto di quel bambino nero fosse stato bianco, sarebbe stato coperto?” È da domande come questa che è nato il racconto disegnato della frontiera, e così “Welela”, “Il mare spinato”, “Ciao mamma sono vivo”, e tanti altri disegni sono diventati storia del viaggio. Il racconto è vita, e penso che la frontiera debba essere raccontata entrando in sintonia con chi ascolta, se gli imprenditori della paura parlano alla pancia del paese noi dobbiamo parlare al cuore. Per questo provo a portare le persone dentro i miei disegni proiettandoli dietro di me, perché possano provare almeno per qualche decina di minuti quello che come operatori sentiamo noi. Il raccontare ci evita di abituarci a questo senso di ingiustizia e impotenza che pervade la frontiera che separa i ricchi dai poveri, aiuta a restare umani chi lo ascolta e chi lo narra. È un atto di resistenza alle barbarie del mondo grande e terribile dentro il quale viviamo e di cui tutti dovremmo riappropriarci collettivamente.