Il 22 gennaio a New York presso le Nazioni Unite si è svolto il IV Simposio sul “ruolo delle religioni e delle organizzazioni a carattere religioso negli affari internazionali”, con particolare focus sul tema delle migrazioni. E già questa è una notizia perché attesta che le comunità di fede sono oggi un attore importante sulla scena internazionale della solidarietà. Ma il dato che con più forza è emerso nel Palazzo di vetro è che il 50% delle risorse con cui paesi e istituzioni hanno gestito la “crisi migratoria” di questi anni proviene proprio da questo mondo delle fedi e delle spiritualità.
In un tempo che forse con troppa leggerezza abbiamo definito di “secolarizzazione”, i credenti e le loro comunità riescono a dare testimonianza della loro fede e, ciò che più sorprende, talora lo fanno insieme, ecumenicamente o con azioni coordinate a livello interreligioso.
E’ l’altra faccia delle religioni, opposta a quella dei fondamentalismi e dei radicalismi religiosi che seminano odio e minano la convivenza in tante aree del mondo: dal Medio Oriente all’Africa occidentale, dal sudest asiatico agli Stati Uniti dove, raramente come oggi, fioriscono movimenti radicali e settari che pretendono richiamarsi a una tradizione evangelica.
Quasi recuperando la sua anima originaria, il movimento ecumenico del XXI secolo non è solo concertazione di formule condivise ma soprattutto azione comune. E’ questo il “cuore” dell’ecumenismo di oggi, ed è stato importante che il Simposio di New York lo abbia affermato.
Dispiace tuttavia non aver letto nei resoconti nulla che faccia riferimento a quanto succede su questo fronte: sì, perché esistono già realtà ecumeniche di cristiani che stanno lavorando insieme per produrre accoglienza e contrastare politiche nazionalistiche e populistiche che fanno degli immigrati il grande capro espiatorio del XXI secolo. In questi anni cattolici, protestanti ed ortodossi hanno compiuto insieme gesti importanti come, ad esempio, incontrarsi sulle frontiere sulle quali si concentrano migliaia di migranti “intrappolati” in uno spazio chiuso che impedisce loro di andare avanti ma anche, spesso, di tornare indietro. E’ accaduto tra la Grecia e la Turchia, tra gli Stati Uniti e il Messico, lungo il confine ungherese. Accade anche nel Mediterraneo dove cattolici e protestanti hanno dato vita all’esperimento dei “corridoi umanitari” che si sta imponendo in Europa come un modello sostenibile e virtuoso di gestione degli arrivi dei migranti in condizioni di vulnerabilità.
Ciò che a New York sembra essere mancato è stato il richiamo alla concretezza di questi gesti, il racconto dell’azione operosa di credenti e chiese che interpretano ecumenicamente la loro testimonianza.
Tra i meriti del simposio, però, vi è il riconoscimento del valore e del significato nei percorsi dei migranti, che spesso viaggiano con una piccola Bibbia in tasca, o con un Corano e con un oggetto sacro della loro tradizione. Il nesso tra migrazioni e religiosità si fa sempre più stretto e imprescindibile. E ce ne accorgiamo nei nostri centri di accoglienza nei quali, troppo spesso, trascuriamo questa dimensione spirituale. Anche l’accoglienza, insomma, si fa post-secolare.