Roma (NEV), 14 marzo 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana lo sguardo proviene dalla “Casa delle Culture” di Scicli (RG)
Sono trascorsi già sei mesi dal mio arrivo alla Casa delle Culture a Scicli. Ho scelto di trascorrere qui un anno come volontaria e giorno dopo giorno mi accorgo di come io, e le altre ragazze che stanno facendo la mia stessa esperienza, ci troviamo catapultate in un mondo di emozioni e di esperienze totalmente “estranee” al nostro modo di vivere.
Quella che voglio raccontarvi è l’esperienza vissuta con Abraham, un bambino eritreo di 8 anni arrivato sulle coste siciliane insieme alla mamma e al fratellino appena nato. All’inizio Abraham è rimasto per qualche giorno alla Casa delle Culture da solo perché la mamma era in ospedale con il neonato, per controlli medici.
Una mattina vedo Abraham affacciato al balcone della sua camera guardare verso la piazza, assorto nei suoi pensieri. Decido quindi anch’io di uscire in balcone a godere del caldo sole siciliano. Mi avvicino per guardare insieme a lui il paesaggio, ma soprattutto per cercare di instaurare una relazione. Non è facile farlo per me che sono una grande chiacchierona, in quanto Abraham parla solo tigrino, anche se si sta impegnando a studiare l’italiano. Sento che stiamo comunque vivendo un momento di grande complicità. Ne ho la certezza quando dopo qualche minuto Abraham mi prende la mano e puntando con il mio dito la cupola di una chiesa mi dice “choufi!” (che in arabo vuol dire “guarda”). Non realizzo subito perché mi stia indicando la chiesa, ma poi mi fa capire di volerci andare. E così decidiamo di andare con Abraham ed altri a fare una passeggiata.
Appena giunti di fronte alla chiesa, Abraham si ferma. La guarda con i suoi grandi occhi di bambino e inizia a sorridere. Mi prende la mano e mi trascina di corsa dentro. Appena entrato i suoi occhi si illuminano e comincia a guardare da una parte all’altra. Mi aspetto che voglia sedersi su uno dei banchi per pregare e invece Abraham mi sorprende nuovamente. Corre verso il centro della navata, guarda in alto, socchiude gli occhi, si inginocchia e comincia a baciare il pavimento tre volte poggiandovi la fronte. Subito dopo, traccia il segno di una croce per terra e la bacia. Lo guardo confusa, non capisco questo suo modo di pregare, ma lo lascio fare. Lui si rialza, si volta verso di me e noto nel suo sguardo una luce diversa, lo percepisco quasi sollevato. Mi si avvicina, io gli accarezzo teneramente la testa e subito dopo corre fuori. Andiamo a mangiare un gelato e a giocare e noto che in quel momento Abraham si riappropria del suo ruolo di bambino, con uno sguardo così luminoso che non avevo notato prima. Abraham è felice.
Questo, a oggi, è uno dei momenti più toccanti della mia esperienza che non potrò mai dimenticare. Il momento in cui io, nata in un paese in pace e circondata da ogni comodità, mi sono ritrovata vicino a questi bambini che invece hanno visto l’orrore della guerra e vissuto sulla loro giovane pelle difficoltà per me inimmaginabili. Questi bambini che sanno bene cosa vuol dire essere tristi, ma che non hanno mai perso la loro fede e la forza di sorridere.