Roma (NEV), 21 marzo 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) per Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti. Questa settimana proviene da Lampedusa.
È sera e io cammino lungo Cala Salina, costeggiando l’insenatura del porto vecchio. Una sera contraddistinta da una particolare aria tiepida che lascia presagire l’arrivo della nuova stagione. Mi si avvicina un ragazzo di non più di diciotto anni. Nella penombra gli brillano gli occhi: “Je viens de la Tunisie”, mi dice, chiedendomi se si trova in Sicilia. Concentrato prosegue: “Je dois aller en France, Paris. Je dois rejoindre mon frère”, il suo viaggio deve continuare in direzione di Parigi per raggiungere il fratello. È appena approdato a Lampedusa. La barca con cui ha attraversato il Mediterraneo è arrivata pochi minuti fa all’interno delle sicure braccia del porto dell’isola, senza che nessuno se ne accorgesse. È allora che guardandomi intorno mi accorgo dell’arrivo di alcune volanti ai due lati del molo.
Il ragazzo insiste “Sicilia, Francia, Parigi”; nella mia mente scorrono le immagini di quello a cui so che presto andrà incontro “Centro, recinzioni, attesa”. Decido con urgenza di presentargli una realtà con cui è necessario si confronti. Afferro il cellulare, apro Google Maps e l’isola appare. Gli mostro lo schermo e con il movimento delle dita gli faccio osservare un puntino blu isolato in una distesa celeste. Spero capisca che il suo viaggio ancora lungo forse (!) subirà una battuta d’arresto. Sicuro di sé come all’apice di una lunga riflessione, ripete, “Lampedusa, sì, Lampedusa” e aggiunge “Sicilia, Francia, Parigi, mon frère”.
Sono un po’ scoraggiato e intorno a noi sembrano continuare ad aumentare le persone che prendono parte a quella inaspettata festa. Sono oltre settanta. Come ad un ballo in cui timidamente si esplora la folla alla ricerca di un compagno assente, guardano scoraggiati gli operatori delle organizzazioni umanitarie appena sopraggiunti. Incerti sul da farsi, i ragazzi attendono l’epilogo intorno ai lampeggianti blu che tagliano l’orizzonte. Anche io resto immobile, senza saper più cosa dire. Gli indico il resto del gruppo e i suoi occhi sembrano diventare più opachi.
Mi guarda. Si arrende. Raggiunge gli altri. Si volta un’ultima volta mi sorride tristemente e alza timidamente la mano in un saluto. Sembra dirmi: “Grazie. Ci hai provato, ma non puoi capire”. Ricambio il saluto e, in un sussurro, dico “Buona fortuna, amico. Bonne chance. Ne avrai bisogno”. La festa adesso è finita e in un’isola che si prepara a ricevere migliaia di turisti, che si rifà il trucco per apparire più bella di come la natura l’ha già resa, ritorno a passeggiare lungo la riva.
Quanti ne ho incontrati, di ragazzi come lui, da quando vivo qui? Di molti ricordo il nome, il sorriso, i progetti. Con altri ci siamo appena sfiorati. Tutti diversi, ognuno con una propria storia alle spalle e con un sogno da inseguire, costi quel che costi. “Migranti”, “rifugiati”, “profughi”, come suonano vuote queste parole in questo scoglio in mezzo al Mediterraneo. Qualcuno ce l’ha fatta, arrivando nel luogo che sognava. Qualcuno è tornato (o è stato rispedito) a casa. Dei più ho perso le tracce. A ognuno di loro ho detto “Buona fortuna, bonne chance”. Perché in questa roulette di norme, accordi, permessi, fughe, cancelli, muri, documenti, dinieghi e ricorsi, solo la fortuna sarà loro amica e madre.
È davvero una sera speciale. Il mare è calmo e il suono che emette quando incontra la battigia è dolce. È tardi. Mi incammino verso casa e sussurro: “Buona fortuna, ragazzi. Che l’Europa vi sia lieve.”