Roma (NEV), 26 marzo 2018 – “Nuns not guns! Suore, non fucili!” È uno degli slogan che, tra un motto di spirito e un serio impegno di fede, ha percorso March for our lives, la marcia contro le armi che ha portato a Washington una folla di 800mila persone, guidate da ragazzi e ragazze provenienti da ogni stato – e da ogni scuola – degli USA.
Le comunità di fede sono da sempre una delle colonne portanti della lotta per il controllo delle armi, attraverso una legislazione più restrittiva. Così è stato anche sabato scorso. Nella folla erano più che visibili gruppi appartenenti alle più diverse comunità di fede: cristiani e sikh, musulmani ed ebrei, buddisti e hindu.
Anche i gruppi religiosi erano guidati da giovani e giovanissimi. “Oggi siamo qui perché dopo il massacro nella scuola di Parkland (Florida), lo scorso febbraio, gli studenti della nostra chiesa ci hanno spinto a partecipare”, spiega il pastore Corey Gibson della First Baptist Church Vienna, in Virginia, accompagnato da 35 teenagers della sua comunità.
Alla vigilia della marcia la National Cathedral di Washington ha ospitato un incontro di preghiera interreligioso in ricordo delle vittime dei massacri perpetrati con armi da fuoco.
Dal pulpito di quella stessa chiesa – interamente illuminata di arancione, il colore della Marcia -, alcuni anni fa il decano della Cattedrale, Gary Hall, aveva affermato che “non c’è corrispondenza alcuna tra la lobby delle armi e quella della croce”. Un concetto ribadito da tutti gli esponenti religiosi intervenuti.
“Tuttavia, le preghiere non mi sembrano abbastanza – ha detto durante l’incontro April Schentrup, mamma di una delle vittime della strage della Marjory Stoneman Douglas School di Parkland – dobbiamo agire per cambiare le leggi attuali che permettono queste devastazioni”.
Tra le prime forme di protesta, dopo i fatti di Parkland, va ricordata l’iniziativa della rivista Sojourners, diretta dal pastore Jim Wallis, che ha lanciato una campagna di boicottaggio della National Rifle Association (NRA).