Roma (NEV), 30 marzo 2018 – Proponiamo in anteprima l’intervento di Paolo Naso che andrà in onda la domenica di Pasqua, 1° aprile, in chiusura della trasmissione radiofonica Culto evangelico di Radio1 RAI delle 9.05. Paolo Naso, coordinatore di Mediterranean Hope-Progetto rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in italia (FCEI), cura per il Culto evangelico la rubrica mensile di multiculturalità “Essere chiesa insieme”.
Il 4 aprile del 1968, una fucilata uccise il pastore battista afroamericano Martin Luther King. Molti commentarono che con la morte del pastore King svaniva il sogno che egli stesso aveva proclamato in un celebre discorso del 1963, quando aveva descritto l’America che aveva nel cuore: un paese in cui – aveva invocato in un crescendo retorico che ancora oggi commuove – “i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza”; un paese in cui “i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere”.
Altri ancora commentarono che il 4 aprile del 1968 non svaniva solo il sogno del reverendo King, ma lo stesso sogno americano, la visione fondativa di un paese che, nella sua Dichiarazione d’indipendenza riconosceva evidente la verità che “tutti gli uomini sono uguali” e che il loro Creatore li ha dotati di diritti inalienabili tra i quali la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
Per altri ancora, quel sogno non era mai esistito perché era stato sopraffatto dall’incubo di un paese che sin dalla sua origine ammetteva la tratta e l’uso degli schiavi; che in anni successivi aveva approvato le leggi della segregazione sulla base del colore della pelle; che, ancora all’inizio degli anni ’60, negava il diritto di voto a oltre venti milioni di afroamericani; e che, mentre contava milioni di poveri spendeva cifre enormi per finanziare la guerra in Vietnam.
In cinquant’anni, quella di King è diventata un’icona popolare, una star nel firmamento culturale e politico degli Stati Uniti. E in effetti fondamentali conquiste democratiche e civili dell’America moderna si devono al movimento nonviolento guidato da Martin Luther King: il superamento della segregazione, il diritto al voto ai neri, l’integrazione delle minoranze in una società multietnica e interculturale, il concetto stesso di comunità riconciliata, bianche e neri insieme come si cantava nelle memorabili marce per la libertà.
Nel 1965 King aveva ottenuto il premio Nobel per la pace ed era probabilmente al picco della sua popolarità. Soltanto tre anni dopo, però, la sua denuncia della guerra in Vietnam e della connessione tra razzismo, militarismo e povertà ne avevano fatto un personaggio più controverso. Non è più il King di una volta, dicevano in molti, quello che sapeva parlare ai bianchi moderati e alla loro coscienza.
E’ vero: di fronte all’escalation militare in Vietnam l’azione del pastore battista aveva acquistato un respiro più ampio e il suo giudizio sull’America si era fatto più radicale: egli ripeteva che logica del potere economico e militare stava aggredendo l’anima degli Stati Uniti, quei principi ispiratori che volevano farne “una città sulla collina”, un faro di civiltà e democrazia nel mondo, come predicavano i puritani che avevano fondato le prime colonie oltreoceano. Ma come un profeta biblico che gridava verità sgradevoli, King fu ignorato, criticato, isolato.
La chiave del suo omicidio è in questa progressiva solitudine e nell’avere scelto l’America dei poveri e degli ultimi. Cinquant’anni dopo, ci pare questo il King da ricordare: il leader e il predicatore che non si accontenta dei risultati raggiunti, e che continua a ammonire, predicare e lottare perché sa che la terra promessa della giustizia e della vera libertà è ancora lontana.