In missione a bordo della Open Arms

Foto Proactiva Open Arms Bernat Armangue tratta dal sito Mediterranean Hope

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Roma (NEV), 10 aprile 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) per Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti. Questa settimana proviene dall’Osservatorio sulle migrazioni di Mediterranean Hope a Lampedusa.

Nell’ambito di Mediterranean Hope la FCEI ha avviato un progetto di collaborazione con la ONG spagnola Proactiva, impegnata in attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Come noto, al momento una delle imbarcazioni di Proactiva, la Open Arms, è sotto sequestro nel porto di Pozzallo ma la ONG ha annunciato l’intenzione di riprendere a breve le attività con un’altra nave, con la quale la FCEI è pronta a collaborare. A bordo del rimorchiatore Open Arms salpato lo scorso 8 marzo, nella missione subito precedente il sequestro, c’erano un operatore di Mediterranean Hope, Francesco Piobbichi, e un collaboratore, Daniele Naso, trentenne, operatore sociale. Per 15 giorni è stato il “cocinero” della nave spagnola. A Daniele Naso, l’Osservatorio sulle migrazioni di Mediterranean Hope a Lampedusa ha chiesto alcune riflessioni sulla recente esperienza a bordo.

Nel corso della missione in tre diverse operazioni la Open Arms ha messo in sicurezza 206 persone, tra cui un quattordicenne affetto da una grave leucemia. Come si sono svolte le operazioni di ricerca e soccorso e quali sensazioni si vivono a bordo durante quei concitati momenti?

Una volta entrati nella zona Search and Rescue (SAR), sia di notte che di giorno, c’è chi controlla costantemente i radar e chi col binocolo scruta il mare. Questa attività è importantissima perché tante volte solo a occhio nudo ci si accorge di imbarcazioni in difficoltà. Una volta individuato il cosiddetto “target”, vengono calati in mare i due gommoni della nave di soccorso che velocemente raggiungono la zona dell’operazione. La prima fase è delicatissima: si distribuiscono i salvagente e poi tutte le persone soccorse, una per una, vengono fatte salire sul gommone di soccorso che li porta alla nave. Donne e bambini hanno sempre la precedenza. È molto d’impatto vedere le imbarcazioni strapiene di persone in balia delle onde; l’ansia nel domandarsi se stiano tutti bene; da lontano si scambiano segni di saluto. Un bel momento è quando tutti sono sulla nave e si rendono conto che la loro vita non è più a rischio. Sappiamo che queste persone scappano dai loro paesi per sopravvivere, che nella loro fuga passano attraverso l’orrore dei centri di detenzione in Libia dove vengono torturati, sfidano il mare e rischiano la morte. Vedere fratelli, sorelle e amici, che si abbracciano, cantano, ridono e piangono, riempie di gioia.

Puoi raccontarci quali sono le primissime fasi immediatamente successive al salvataggio?

Una volta a bordo, tutti passano prima dal medico e dall’ infermiere per una visita; ricevono acqua, barrette nutritive e coperte. Quando finiscono le procedure si ha il tempo per parlarsi, condividere storie ed emozioni.

La missione a cui hai partecipato è durata circa due settimane, durante la quale hai condiviso spazi ristretti e intense esperienze con l’equipaggio internazionale di Proactiva Open Arms. Puoi raccontarci come hai vissuto la quotidianità a bordo e quali erano le attività che caratterizzavano le vostre giornate?

Nella Open Arms la quotidianità è organizzata in turni che spettano a tutti: pulizia degli ambienti e della nave, aiuto in cucina, monitoraggio radar e uso del binocolo. Quotidianamente ci si incontra per fare il punto della situazione e confrontarsi. In altri momenti si svolgono delle esercitazioni tecniche. Ovviamente alcune delle normali attività saltano nel momento dei soccorsi, dove tutti hanno un preciso ruolo da rispettare.

Nel corso della missione hai garantito i servizi di cucina per l’equipaggio. Com’è andata questa esperienza, è stato difficile soddisfare le esigenze e i gusti di un equipaggio così numeroso? 

Da subito tutto l’equipaggio ha notevolmente apprezzato la cucina italiana. Mi ha fatto molto piacere. Cucinare su una nave è difficile perché balla tutto e gli spazi sono ristretti. Ma con un po’ di organizzazione ci si riesce bene. Ho apprezzato che ci sia molta attenzione nel garantire a chi segue una dieta vegana di poterlo fare anche sulla Open Arms. Durante i salvataggi, prima di cucinare per l’equipaggio, si cucina un pasto per le persone soccorse, adatto alle loro abitudini, quasi sempre del riso o una crema di riso.

Alla luce dei giorni trascorsi insieme alle ragazze e ai ragazzi di Proactiva Open Arms, che immagine riporti a casa della situazione nel Mediterraneo centrale?

Ho conosciuto persone che danno un grande esempio, da anni si dedicano ai salvataggi in mare con grande umanità, generosità, tenacia e professionalità. In un disperato teatro di guerra e di sofferenza, il loro operato è di un’importanza vitale.


Prima pubblicazione di questa intervista sul sito MH, 29 marzo 2018.

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