Roma (NEV/Riforma), 3 agosto 2018 – Le chiese metodiste e valdesi si avviano al loro Sinodo in un’Italia che mostra risentimento, livore, incertezza: avviamo da qui un dialogo con il moderatore della Tavola valdese Eugenio Bernardini.
«Dopo anni di grave crisi economica è logico trovarci di fronte a ricadute in termini di rabbia, aggressività e mancanza di volontà di confrontarsi. Un vero “si salvi chi può”: ci sono giovani che vanno all’estero, ci si arrabatta, si esprime la propria rabbia sui social network e in azioni verbali o addirittura fisiche nei confronti di chi viene preso come bersaglio. Il grave è che questo modo di vivere è arrivato anche ai “piani alti”: nella politica, nella comunicazione e nella cultura. Siamo preoccupati perché alcuni disvalori si sono trasformati in valori, per esempio il nazionalismo, tipico dell’Europa, che ha portato a due guerre mondiali e alla guerra nella ex-Jugoslavia. Siamo preoccupati di un imbarbarimento generale e, nel nostro specifico, lo siamo per l’utilizzo della simbologia religiosa: da più parti, specie nell’Est europeo, si brandiscono i simboli (rosari, crocifissi) contrapponendoli ai contenuti: l’Evangelo o anche il Catechismo».
In questo quadro le chiese fanno fatica a fasi sentire: è solo una questione di linguaggi ormai inadeguati?
«Con le parole e i linguaggi si può educare e costruire, ma anche diseducare e distruggere. Nel cristianesimo storico c’è una difficoltà che non vediamo nelle nuove forme di cristianesimo; ma non è solo questione di linguaggio: conta ciò che sappiamo offrire, e quindi la teologia. Le chiese della grande tradizione occidentale sembrano non intercettare il bisogno religioso di massa, e stanno diventando chiese di minoranza… Allora ci chiediamo: ma questo non corrisponde in realtà al mandato apostolico di essere sale della terra e luce del mondo, la minoranza come condizione del cristianesimo fedele al mandato? Io lo dico con prudenza, perché questa può anche essere una giustificazione per le proprie infedeltà e pochezza di fede: c’è poco da essere orgogliosi se non si riesce a testimoniare al prossimo la bellezza, la gioia del discepolato cristiano e della grazia che si incontra in Gesù Cristo; ma al tempo stesso non possiamo pensare di copiare il linguaggio di altri per salvare l’eredità delle chiese storiche: c’è qualcosa di più profondo che riguarda il loro ruolo nella società e la loro testimonianza. Il modo per cercare di rispondere a questa sfida è di coltivare la nostra spiritualità radicata nella Scrittura e nel servizio, cercando di essere più accoglienti e disponibili all’ascolto. Al mero problema numerico non vedo soluzioni vicine: con umiltà dobbiamo resistere all’idea che “siamo in declino perché non abbiamo più niente da dire”, o perché ciò che diciamo tocca solo pochi: dobbiamo essere consapevoli che abbiamo da dire per tutti, anche se pochi rispondono. Porteremo al Sinodo due strumenti nuovi: i risultati dell’indagine sul cambiamento delle nostre chiese negli ultimi dieci anni, condotta con gli strumenti della sociologia delle religioni; e poi il Bilancio sociale: un’analisi e una valutazione dei nostri numeri e della nostra missione. Con questi strumenti dovremmo capire se stiamo investendo le nostre forze nella direzione giusta, partendo dai dati».
Una delle questioni che molte chiese locali sollevano è relativa al ruolo pastorale: come sta cambiando?
«Dall’indagine sociologica emerge il ruolo chiave della figura pastorale sia per i vecchi membri di chiesa sia, soprattutto, per i nuovi. Un ruolo riconosciuto come centrale e tuttavia messo in discussione da tutti. Oggi svolgere il ministero pastorale è sicuramente più complesso di un tempo, perché ciò che ci si aspetta dal servizio pastorale è più diversificato, tante e diverse sono le attese. E allo stesso tempo, l’autorevolezza che ci si aspetta viene giudicata in base alla qualità della persona. Ora in questo ruolo ci sono sempre un uomo o una donna con i propri doni e le proprie difficoltà, e ogni giornata nasce nell’attesa delle sorprese e delle interlocuzioni impreviste; un tempo non era così, ma in una società sempre più complessa, perché non dovrebbe essere così per questo tipo di attività di servizio? Abbiamo nelle nostre chiese modelli di servizio pastorale (orientali, latinoamericani, africani) diversi da quelli occidentali a cui eravamo abituati, e questo ci mette in discussione. Ma se c’è una cosa di cui abbiamo bisogno, è proprio il servizio di mediazione che queste persone possono svolgere: di atteggiamenti estremistici ne abbiamo a sufficienza. Non siamo nuovi a questo processo: abbiamo il Patto d’integrazione valdese-metodista, Essere chiesa insieme. E questo va fatto tra le persone e con le persone, direttamente, non bastano i social; solo nel confronto diretto si può trovare una “mente comune”: non facciamo referendum, vogliamo confrontarci direttamente».
Nel Sinodo si parlerà del rapporto fra diaconia e predicazione: che cosa si aspetta dalla discussione?
«Il rapporto fra predicazione e diaconia è centrale nella comprensione che la chiesa ha di sé in tutto l’Occidente: cattolici e protestanti sanno che sono due facce dello stesso servizio. La diaconia non può essere confessionalismo, ma non può neanche rendersi completamente autonoma dalla predicazione, diventando un servizio che è compito dello Stato e di altri soggetti pubblici. Noi rifuggiamo dal confessionalismo della diaconia perché l’abbiamo subìto, dalle scuole agli istituti di beneficenza; ma non possiamo dimenticare d’altra parte che il servizio d’aiuto per il prossimo viene svolto da una comunità di fede, e quindi ha delle prospettive e dei contenuti che non sono solo quelli del servizio sociale; deve avere le medesime competenze e la stessa efficacia, ma deve portare con sé in modo chiaro il fatto di essere diaconia della chiesa, frutto della predicazione. È un equilibrio che stiamo cercando anche faticosamente e che dobbiamo trovare: c’è chi contesta una certa autonomia del servizio, che si stacca dalla predicazione, che io ritengo sia un timore comprensibile e anche valido, ma proprio per questo abbiamo la sede giusta nel Sinodo, che si occupa non solo delle chiese e della loro testimonianza spirituale, ma ha anche il controllo e la guida delle strutture di servizio diaconale».
Le ONG nell’occhio del ciclone: che cosa possiamo dire?
«Open Arms significa “braccia aperte”: è anche lo slogan della nostra campagna Otto per mille. C’è una comunanza con queste organizzazioni, oggetto di una campagna di strumentalizzazione politica. Un tempo c’era un sistema di salvataggio europeo molto più efficace, che è stato smontato mentre la Libia si andava distruggendo come Stato, dando luogo all’aumento dei flussi: in questo vuoto qualcuno ha pensato di dare una mano. Non è alle ONG che si può imputare l’origine del problema, questa è una bugia. Spero davvero che si torni alla ragionevolezza e che si affermi una politica europea capace di integrare tutte le risorse, pubbliche e private: le migrazioni sono un fenomeno epocale che sconvolge tutti i continenti, perché nel mondo sussiste un problema serissimo che è alimentare, ecologico e militare mai visto prima, i muri non servono a risolverlo».
Qual è lo stato dei rapporti con le chiese battiste?
«La collaborazione BMV (battisti, metodisti, valdesi, ndr.) procede bene, e ci chiediamo se non sia il momento di fare il punto della situazione con la convocazione congiunta delle rispettive assemblee decisionali, magari nel 2019. Intanto la collaborazione tra le chiese e gli esecutivi ecclesiastici va senza difficoltà, se non la maggiore fragilità che è tipica di ognuno dei soggetti: abbiamo bisogno gli uni degli altri, probabilmente più di ieri. Ma i progetti che erano stati messi in opera a cavallo degli anni 2000, di cui anche “Riforma” è espressione, vanno avanti: caso mai ci si chiede come migliorare la fraternità e il sostegno reciproco».
Un obiettivo concreto che vorrebbe veder realizzarsi nel corso del prossimo anno ecclesiastico?
«Se trovassimo una risposta soddisfacente – perché equilibrata – tra servizio di predicazione e servizio di diaconia, ciò rinforzerebbe entrambe: in un contesto occidentale, una chiesa che soltanto predichi, ma non fa, ha una carenza di credibilità; ma una chiesa che fa, con una predicazione incerta, ha una crisi di identità. Se ritroviamo un equilibrio soddisfacente, possiamo migliorare in generale la predicazione e il servizio delle nostre chiese».
(L’intervista pubblicata sul settimanale “Riforma” del 3 Agosto 2018 è a cura del direttore Alberto Corsani).
Leggi qui la nostra scheda sulle chiese metodiste e valdesi.