Roma (NEV), 29 agosto 2018 – La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e collaboratori di Mediterranean Hope (MH) – Programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana lo sguardo proviene da Lampedusa
La storia di Lampedusa, quella profonda che affonda le sue radici nel mito e nella leggenda, è storia di schiavi liberati, di eremiti e madonne. Lo so, a un pubblico di lettori protestanti il riferimento a Maria può suonare stonato, tuttavia, questa è una storia che vale la pena raccontare: storia di salvezza e catene spezzate. Il mare è il foglio nel quale si è scritta questa storia che si ripropone continuamente.
Sono pochi i lampedusani che possono portarti dentro le viscere di quest’isola e raccontartela, ognuno a modo suo, ognuno con le sue sfumature. Il racconto che mischia storia e realtà ci dice che nel 1600 Andrea Anfossi fuggì dall’isola con un’immagine della madonna che usò come vela dopo essersi liberato da una galera turca che lo aveva rapito e ridotto in schiavitù.
La leggenda di Anfossi è diventata poi il mito fondativo dell’isola e ha poi trovato una sintesi simbolica nell’icona di uno schiavo con le catene spezzate che naviga nel mare utilizzando l’immagine della madonna coma vela. Probabilmente questa immagine fu poi ripresa nel 1700 dagli schiavi africani che attraversarono l’isola durante la tratta che da Tripoli li portava nelle Americhe. A Rio De Janeiro le confraternite degli schiavi eressero poi una chiesa dedicata a Nossa Senhora da Lampadosa “protettrice degli schiavi”, tutt’ora visitabile.
Altre madonne sono continuate ad arrivare durante gli sbarchi in questi anni, una in legno, portata qualche anno fa dagli eritrei e altre, come santini, dai cristiani. Lo stesso luogo da cui probabilmente si origina questa storia, il Santuario di Porto Salvo di Lampedusa, è stato uno dei pochi dove potevano pregare sia musulmani che cristiani.
Quel luogo per secoli è stato il simbolo di una solidarietà marinara che ha lasciato traccia. Da quel luogo, guardando verso il mare, in questi giorni era visibile la nave Diciotti con il suo carico di vite. Mi sono immaginato quegli uomini e quelle donne veder passare i turisti, mentre loro rimanevano per giorni sotto il sole. E mi sono immaginato quale simbolo di riscatto potesse rappresentare questa enorme violenza che veniva esercitata nei loro confronti. Lasciarli in mare dopo la Libia, è un’infamia che deve essere rappresentata.
Mi è venuta allora in mente l’immagine di una “madonna di Porto Chiuso”, una donna nera, che ha una coperta termica come mantello e che cammina sopra il filo spinato della frontiera. Così, come tante madonne bianche camminano sul serpente del male, una madonna nera, che porta in grembo il frutto della violenza subita nei lager in Libia, cammina sopra la frontiera dell’ingiustizia. Il simbolo del riscatto per tutte quelle persone che, in quanto povere, non hanno diritti, protezione e libertà, né nella terra dove sono nate, né nel viaggio che hanno dovuto affrontare per fuggirne.