Roma (NEV), 7 dicembre 2018 – Parlare di immigrazione in Calabria è difficile, assai più difficile che farlo a Milano o a Palermo. A Rosarno, ad esempio, gli immigrati rischi di non vederli, perché si alzano in piena notte e tornano nei loro ghetti quando il sole è tramontato da un pezzo. Fantasmi, più che uomini e donne. Mani che raccolgono le arance, i mandarini, i pompelmi che arrivano sulle nostre tavole a prezzi che noi giudichiamo più o meno alti, ma che a loro costano solo fatica e sfruttamento. Se va bene, guadagnano 25 euro al giorno, dai quali detrarre i 3,4 euro che vanno al caporale. Una miseria, eppure abbastanza per sopravvivere e ogni tanto mandare qualcosa a casa. Il problema è quando non si lavora, e si passano le giornate nelle tendopoli improvvisate, tirate su con quattro legni e qualche telo di plastica. Come a San Ferdinando dove non c’è luce, non c’è acqua corrente e non ci sono toilette degne di questo nome. Per ragioni incomprensibili, il campo è circondato da spazzatura: un vero recinto che lo delimita e che definisce gli accessi di ingresso. Qui vivono almeno duemila persone, in condizioni certamente peggiori di quelle riservate agli animali ricoverati in una stalla del Nord est o della pianura padana. È questa la “pacchia” in cui vivono da mesi o da anni gli immigrati che “ci rubano il lavoro”, nell’attesa di un permesso di soggiorno, di un rinnovo o di una irrealistica sanatoria.
A poche centinaia di metri, un’altra baraccopoli, quella “ufficiale”, con le tende blu, qualche container, la luce e l’acqua corrente. Un miraggio per i dannati costretti a restare nell’altra bidonville. Circolano voci di un imminente sgombero: le ruspe faranno il loro efficiente lavoro, ministri e assessori di turno rilasceranno le loro prevedibili dichiarazioni sulla sicurezza e l’ordine finalmente ristabiliti e gli immigrati andranno a cercarsi un’altra baraccopoli dove stabilirsi. Perché – ormai lo si è capito – la parole grosse sui rimpatri sono come le grida manzoniane: danno visibilità a chi gestisce il potere, ma sono inefficaci e soprattutto raramente applicabili. La mano dura non genera sicurezza, ma solo irregolarità. E questa semplice equazione qui in Calabria è più chiara che altrove.
Ma la Calabria dell’immigrazione è anche altro e ha trovato un simbolo di primaria importanza: Riace e il suo sindaco, che negli anni hanno dato vita a un eccezionale esperimento sociale che ha dimostrato quanto l’immigrazione possa fare del bene anche agli italiani, ad esempio quelli che vivono in paesi in via di spopolamento. Ammettiamolo: girando per le strade in salita di questo borgo interno oggi si respira tanta incertezza, forse anche un po’ di malinconia. I bambini non hanno più il loro bus che li porta a scuola “alla marina”; le botteghe artigianali sono chiuse; gli immigrati che sono rimasti dopo la chiusura degli SPRAR e dei CAS camminano smarriti in un paese in cui sembra essersi spenta la luce della speranza. Il “modello Riace” è stato sacrificato sull’altare della cattiva politica che, gridando “prima gli italiani”, non poteva tollerare un riuscito esperimento di integrazione e di inclusione sociale, che faceva bene ai calabresi e agli immigrati.
Potrà l’esperimento rigenerarsi altrove? Magari a Gioiosa Jonica dove giovani amministratori e una società civile dinamica e creativa tenta un esperimento analogo? O a Reggio Calabria dove un gruppo di beneficiari dei corridoi umanitari sta compiendo con successo il suo percorso di integrazione? I più rispondono con scetticismo, qualcuno contento perché gli immigrati sono spariti da Riace e altri preoccupati perché sanno che questo non migliorerà affatto la situazione del comune e dell’area. Divisi nel merito, ma uniti dalla stessa attitudine scettica e distaccata, quasi che il problema non li tocchi. Un antico costume mentale che tanto male ha fatto al Mezzogiorno e che per fortuna molti giovani meridionali contestano con coraggio e creatività.
Domani – concludendo – è un altro giorno, le arance sono ancora sugli alberi e vanno colte. Non importa da chi e come, l’importante è rifarsi delle spese – pensa il proprietario che con troppa facilità si libera dei dubbi posti dalla propria coscienza. Quanto a noi, ci accontentiamo di risparmiare quei 50 centesimi che sarebbero il costo della dignità e del lavoro dell’immigrato che raccoglie le arance che noi serviamo sulle nostre tavole.