La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene dal Libano, racconta l’esperienza di Halima Tanjoaui (testo raccolto da Barbara Battaglia).
Roma (NEV), 27 febbraio 2019 – Halima Tanjoaui è una mediatrice linguistica e culturale, operatrice sociale di Mediterranean Hope. Italiana di origine marocchina, 30 anni, una laurea specialistica in cooperazione internazionale e sviluppo alla Sapienza di Roma, una tesi sul Libano (dal titolo “Libano: dalla guerra civile settaria al coinvolgimento nella guerra siriana”), lavora con MH dal 2017.
“Sono stata referente di un progetto Sprar – racconta – per una cooperativa a Roma, precedentemente, e ho collaborato con varie associazioni su temi di genere, lotta alla violenza di genere, in particolare in progetti legati al Marocco e altri paesi del Maghreb. Dopo di che ho iniziato a collaborare con MH lavorando sulla missione in Marocco come mediatrice interculturale e consulente per il monitoraggio e l’analisi di fattibilità. In seguito, dal gennaio 2018, ho cominciato a lavorare in Libano, prima con missioni brevi, da un anno come mediatrice culturale, linguistica ed operatrice sociale”.
Il lavoro consiste nell’accompagnare le persone che arriveranno in Italia o in Europa attraverso i corridoi umanitari nelle varie fasi di selezione e nella preparazione alla partenza.
“Organizziamo una giornata info-formativa a ridosso della partenza, spiegando il sistema di protezione in Italia o Francia e altri aspetti che riguardano il sistema generale di ciascun paese, svolgiamo colloqui, gestiamo la missione medica di Medical Hope. Facciamo fino a 30 colloqui a settimana con le persone in partenza per l’Europa. Il primo colloquio si svolge in una associazione nel territorio dove vivono queste famiglie, poi andiamo a visitare le persone nelle loro case, dove si svolge la seconda intervista, e a seconda dei casi arriviamo anche a incontrare queste famiglie 5 volte prima della loro partenza” spiega Halima.
La mediatrice fa parte di un’équipe di 6 persone che lavorano per MH in Libano, tre dei quali parlano arabo.
L’ufficio di Mediterranean Hope a Beirut “si trova in una zona a metà tra due mondi, il mondo sciita e il Libano cristiano, un bel mix, dove si passa da una lingua all’altra senza accorgersene e dove si possono mischiare tre lingue e tre mondi: è la ricchezza di questo lavoro”.
Se la multiculturalità è una ricchezza, se l’incontro tra tante culture in questo crocevia del mondo arabo è una risorsa, nel lavoro degli operatori di MH, ogni giorno, ci sono anche aspetti umanamente e professionalmente complicati da gestire.
“La parte più difficile sono i colloqui – continua Halima – . Avere una persona di fronte a te, capirne esattamente le parole, le storie, renderti conto che in quel momento ti sta ‘caricando’ della sua speranza di una vita migliore, di un futuro…Sento la responsabilità di non deludere queste attese”.
Nel frattempo, cambiano rapidamente anche le politiche europee in materia di accoglienza. Ciò nonostante “continuiamo a seguire dei criteri per la selezione che dipendono in primis dalla vulnerabilità. Ma prendiamo in considerazione anche la motivazione e la volontà di affrontare la sfida di ricrearsi una nuova vita e un futuro migliore in una realtà abbastanza diversa linguisticamente e culturalmente. Oltre alla vulnerabilità, che è quindi il parametro sul quale basiamo ogni decisione rispetto a chi può partire per l’Europa, teniamo presente anche altri indicatori, legati all’asilo e alla reale possibilità di accedere al sistema di protezione”.
Chi arriva in Europa e riesce ad integrarsi al meglio rappresenta la soddisfazione di chi lavora per MH: “i feedback positivi che ci arrivano, le persone che si iscrivono all’università e trovano lavoro, è questo il nostro obiettivo e la maggiore fonte di gratificazione”.
Restano la tragedia del popolo siriano, senza fine, il dolore di ogni persona di cui ci si è fatti carico.
“Tutte le storie mi colpiscono, perché ogni storia ha dietro una vita, un vissuto, lo vedo negli occhi, mi sento colpita nel profondo e non sono cose che si superano o elaborano facilmente – conclude Halima – . Ricordo una mamma, incontrata nel Nord del Libano, alla quale i militari hanno portato via il figlio dodicenne, sono sei anni che non lo vede e ancora lo pensa vivo.
Nella stessa giornata abbiamo raccolto la testimonianza dei genitori di un bambino che era rimasto in Siria per continuare a studiare, perché è difficile per i siriani andare a scuola in Libano, I suoi genitori erano emigrati in Libano, intanto, ma mentre andava in bici, un giorno, venne colpito da una granata e da allora non può più camminare. Ecco, quel ragazzino ha solo scelto di andare a scuola, e ha rischiato la vita. Queste sono le persone che incontriamo, a cui diamo ascolto e che cerchiamo di aiutare. Quello che gli dobbiamo, almeno, è riconoscerli, riconoscere il loro dolore, la loro forza, quello che hanno passato. Glielo dobbiamo”.