Roma (NEV), 28 febbraio 2019 – Si è concluso ieri in Vaticano il seminario di studio in preparazione del Sinodo amazzonico che si terrà dal 6 al 27 ottobre prossimi a Roma. Una tre giorni di conferenze e dibattiti sulla dimensione regionale e universale di questo sinodo straordinario, che ha visto la partecipazione di vescovi ed esperti del territorio amazzonico.
Sono stati presi in esame aspetti ecclesiali e pastorali, esaminati alla luce dell’Evangelii Gaudium e dell’enciclica Laudato sì. I delegati hanno riflettuto insieme anche sul documento preparatorio “Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per un’ecologia integrale” che non solo approfondisce la realtà e specificità del territorio amazzonico ma analizza gli aspetti biblico-teologici e identifica nuovi cammini per la chiesa. Particolarmente interessante appare l’attenzione alla dimensione ecologica e socio-culturale laddove la chiesa si propone come “un’alternativa di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza e alla logica uniformante incentivata da tanti mezzi di comunicazione, così come a un modello economico che non è solito rispettare i popoli amazzonici e i loro territori”.
Di tutto questo l’Agenzia Nev ha parlato con padre Giovanni Bottasso, missionario salesiano, antropologo, fondatore della casa editrice Abya Yala e dell’Istituto di Antropologia applicata dell’Università di Loja (Ecuador), profondo conoscitore dell’Oriente ecuadoriano.
Dopo tre giorni di discernimento qual è il bilancio di questa preparazione al sinodo di ottobre?
Si sono sentite molte voci sull’amazzonia e sui suoi problemi, e sulla situazione dei popoli ancestrali che sono i più penalizzati dall’avanzare di una cultura affamata di risorse che sta distruggendo la selva, inquinando terra e fiumi, e li obbliga ad entrare in una cultura in cui si integrano in forma imperfetta. È la prima volta che la chiesa organizza un sinodo su un’area specifica e lo fa perché è un’area che interessa l’intera umanità. I problemi dell’amazzonia sono i problemi della terra. Riscaldamento globale e cambiamento climatico sono i risultati dell’aggressione a quell’area geografica.
Nel documento preparatorio, laddove la chiesa si pone come un’alternativa alla globalizzazione, c’è una presa di posizione forte anche rispetto a dinamiche geopolitiche che interessano l’intera regione latinoamericana. Cosa ne pensa?
Sono convinto che la chiesa debba assumere questa sfida anche se ho dei dubbi sulla sua capacità di fermare questo mostro che avanza e invade tutto che è la cultura moderna; una cultura che vuole ricavare profitto da tutto anche dalle aree molto delicate e sensibili. La globalizzazione in se’ non è per forza negativa. Diventa un problema quando con la sua avanzata lascia ai margini molte, troppe persone, e le trasforma in ‘scarti’. Gente che non solo è inutile ma che disturba perché entra in contrasto con la nostra mentalità efficentista. Il compito della chiesa è aiutare questa gente che ‘non serve’ ad entrare nella globalità e non ad essere schiacciata.
Sempre nel documento preparatorio si parla della necessità della chiesa di “cercare alleanze”. Quali sono le alleanze privilegiate?
Abbiamo discusso a lungo di questo tema perché una volta la chiesa era una delle presenze più forti in Amazzonia e oggi non è più così. Adesso gli stati intervengono in modo potente. Ma c’è ancora modo di tessere alleanze con persone di buona volontà, ambientalisti, gente che conosce molto bene i problemi legati all’ecologia. Moltissimi sono laici ed è bene che sia così perché la chiesa non è autosufficiente. E poi bisogna lavorare con le popolazioni indigene nelle varie discipline sociali ed ambientali.
L’America latina ha avuto la grande stagione della teologia della liberazione che ha lavorato proprio sui temi di cui abbiamo parlato fino ad ora. Cosa ne è stato di quell’esperienza?
La teologia della liberazione che è stato un periodo bellissimo dell’America latina, anche se, a mio parere, si è legata troppo all’analisi classista della società. Nella teologia della liberazione la frontiera era focalizzata tra oppressore e oppresso, povero e ricco, padrone e proletario. Nel mondo latinoamericano, e in quello amazzonico in particolare, è tutto diverso. Ci sono le culture e non solo i poveri. Gli indios non sono solo poveri. Hanno cultura, storia, progetto politico. Ed è importante che queste popolazioni assumano con orgoglio la propria cultura e non sentano di doverla abbandonare per uscire dalla miseria. Purtroppo anche noi nelle missioni abbiamo fatto sentire agli indios vergogna del loro passato, del loro aspetto, della loro storia. Questo è un peccato di cui dobbiamo chiedere perdono.
Quale è la realtà sociale ed economica dell’Amazzonia in questo momento e quale il ruolo della chiesa?
È una realtà molto spezzettata. In Amazzonia non vivono solo popoli originari, anzi sono una minoranza. I giovani indigeni non hanno come riferimento il loro passato ma la città e la tecnologia. Sono più attaccati al cellulare che ai loro miti. Non ha senso, quindi, parlare in modo nostalgico di culture che purtroppo non ci sono più. E non dobbiamo neanche dare l’impressione a questi giovani di volerli fermare e inchiodare alla cultura dei loro avi. Sono loro a dover decidere cosa fare della loro vita. Vogliono modernizzarsi e fanno benissimo, purché in questo passaggio non perdano l’orgoglio di essere quello che sono, delle proprie origini, della propria lingua. Se li abbiamo aiutati a perdere il loro senso di dignità abbiamo fatto un pessimo lavoro di educatori. Tutte le grandi città amazzonica hanno cinturoni di miseria che sono abitati principalmente da indigeni mal integrati; si sono avvicinati alla città ma non sono riusciti ad entrare e sono rimasti ai margini, aggrappati come possono. Se è questa la civiltà che gli abbiamo proposto allora non abbiamo fatto un grande servizio.
Operazioni come quelle del 2008 dell’Ecuador che hanno cercato di includere valori e principi dei popoli originari nelle Costituzioni hanno secondo lei lavorato a favore di questo orgoglio?
Hanno funzionato fino ad un certo punto perché era un discorso di facciata. Dieci anni di governo di Rafael Correa non hanno lavorato a favore della valorizzazione dei popoli originari: le loro organizzazioni sono state intenzionalmente spaccate e il dialogo si è frantumato. L’Ecuador, nel quale la Costituzione del 2008 riconosce la plurinazionalità, è senz’altro un paese multiculturale e plurietnico ma non so se si può parlare di nazioni perché non riesco a comprenderne le frontiere e i limiti. Lo sforzo che si è fatto di integrare e valorizzare le culture ancestrali attraverso la diffusione di informazione in lingua quichua e shuar alla radio, così come l’introduzione, da parte del presidente Correa, di parole indigene nelle sue comunicazioni è stato importante ma la mia impressione è che in sostanza l’opinione pubblica non ci crede.
Quali sono le sfide della chiesa in Amazzonia?
La chiesa prima di tutto deve convincere se stessa. Io non sono sicuro, ad esempio, che tutta la chiesa amazzonica creda davvero che l’Amazzonia vada protetta e che il problema sia sentito con l’intensità che si percepisce in questo seminario. Molti settori della chiesa sono in sintonia con i governi che vedono questa area come una dispensa, una riserva di petrolio, legname, minerali. La chiesa deve fare lo sforzo di convincersi che è giusto esigere da parte di chi sfrutta queste ricchezze il rispetto dell’ambiente e dei popoli che vivono lì.
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