Roma (NEV), 18 marzo 2019 – Una gonna scozzese, a pieghe, rossa, con un maglioncino rosso con i bottoni a forma di cuore.
Pantaloni della tuta e un maglione a collo alto. Un vestito nero, un tubino, appena comprato e messo per la mia festa di laurea. Un tailleur, giacca e pantalone. La mia divisa da donna delle pulizie. Il pigiama. Questi e altri abiti, hanno occupato dal 6 all’8 marzo il terzo piano del Tribunale di Milano, per la presentazione della mostra itinerante “Come eri vestita?”.
L’idea parte dagli Stati Uniti, dal centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas, dove è stata esposta per la prima volta nel 2013. A ciascuno degli abiti corrisponde una storia vera di abuso sessuale contro ragazze, donne, da parte di uomini, il più delle volte appartenenti alla cerchia della vita familiare o lavorativa. Il Palazzo di giustizia è un luogo fortemente simbolico, in cui la domanda “Come eri vestita?” riferita alla donna che ha subito violenza, porta con sé l’idea che lo stupro si sarebbe potuto evitare indossando un altro tipo di abbigliamento. E’ domanda che abita i luoghi comuni, le trasmissioni televisive, e anche, atrocemente, le aule di tribunale.
Lo scopo principale della mostra è quello di sostenere la necessità di combattere il senso di colpa scaricato sulle vittime mostrando la verità anche su come erano vestite. Mi posso identificare nelle storie narrate e al tempo stesso vedere quanto siano comuni gli abiti che le vittime indossavano. Posso dire “ho questi indumenti appesi nel mio armadio!” oppure “mia figlia era vestita così questa settimana”.
Mi viene in mente un episodio narrato nel vangelo di Giovanni. Una donna, colta in flagrante adulterio, viene messa al centro di un processo sommario dai capi religiosi per provocare Gesù. Non è vista come persona, ma come pretesto. “La legge dice di lapidarla” dicono i religiosi, “tu che dici”? Gesù si china, sta in basso e scrive nella polvere. La legge del Levitico invoca la morte per i colpevoli di adulterio. Per entrambi. Ma qui l’uomo non è stato portato in giudizio, si tratta di una violenza deliberata, contro una donna. Per dimostrare a Gesù chi è il più forte. E Gesù ribalta la questione, mettendo i religiosi davanti alla loro frode e liberando la donna da una condanna pretestuosa. Gesù è un maschio, che agisce certo con misericordia ma primariamente rivelando la verità, e, con essa, giustizia. Così le donne che hanno contribuito alla mostra con le loro storie hanno bisogno di essere riconosciute soggetti di giustizia, non oggetti da colpevolizzare. “Come eri vestita?” è anche il titolo di una poesia di Mary Simmerling, che racconta minuziosamente l’abbigliamento di quella notte, la maglietta bianca, le scarpe da ginnastica. “Ricordo anche perfettamente come era vestito lui, quella notte, ma questo, in realtà, non me l’ha mai domandato nessuno”.