Roma (NEV), 3 giugno 2019 – Come spesso accade, il dibattito sull’esito del voto per rinnovare il Parlamento europeo si anima come se si fosse trattato di elezioni politiche nazionali. E’ del tutto comprensibile che il risultato del 26 maggio faccia discutere e metta in crisi gli equilibri politici della maggioranza che governa in Italia ma non possiamo trascurare il fatto che le elezioni riguardavano le istituzioni europee e il loro futuro. Per questo lasciamo stare Roma e ragioniamo su Bruxelles.
Ben prima che si aprisse la campagna elettorale, le campane dell’europeismo suonavano a morto: se da sinistra si denunciava l’asservimento delle istituzioni comunitarie ai grandi interessi bancari, da destra si gridava allo scandalo per i presunti attentati compiuti dall’Europa nei confronti della sovranità degli stati membro. Antiglobalisti e sovranisti, antagonisti e nazionalisti uniti nella stessa campagna tesa a screditare la governance europea e a denunciare la sua distanza dal sentimento e dalle intenzioni del popolo.
L’Europa di Bruxelles veniva descritta come un mostro tentacolare, onnivoro e prepotente che attentava alla libertà degli Stati e dei popoli. E l’antieuropeismo è stato il motivo conduttore di tanti candidati e di tanti partiti.
Le campane, però, hanno suonato a morto per un funerale che non c’è stato. Guardando i risultati del voto in scala europea – e quindi non soffermandoci al caso italiano – emergono con forza due dati: il primo è che gli elettori europei non sono stanchi dell’Unione e anzi si sono recati al voto per rinnovarne gli organi in una misura decisamente più alta che nel recente passato, raggiungendo la percentuale del 51% degli aventi diritto. Il secondo è che quattro storiche forze europeiste controllano saldamente oltre 500 seggi sui 751 del Parlamento: i popolari, i socialisti, i verdi e i liberali. E’ certamente vero che il premier ungherese Orban, capofila del sovranismo antieuropeista, ha seduto nei banchi del PPE ma ora sembra una storia passata e con ogni probabilità i suoi parlamentari faranno squadra con i colleghi eletti nelle liste della Lega, del Front National di Marine Le Pen e dei pro Brexit di Farage. Un gruppo compatto, anche numeroso perché può contare su oltre 170 parlamentari ma che non ha la forza di bloccare la funzionalità del Parlamento e delle altre istituzioni dell’Unione europea. Insomma, anche se in Italia potremmo avere una percezione diversa, il sovranismo euroscettico non ha vinto.
Certo, chi difende e ama l’Europa deve capire il segnale che arriva da chi vota per i partititi euroscettici o antieuropeisti. Nulla è più scontato, neanche l’idea che l’Unione sia lo strumento politico per dare forza a un’Europa sempre più marginale rispetto alla scena economica e geopolitica. Sono sempre più numerosi gli europei disposti a rinunciare all’Europa pur di poter decidere sulla lunghezza della sardina che possono pescare o su come proteggersi dall’immigrazione. Ed è vero che abbiamo bisogno di un’Europa più agile, meno burocratica, più concreta. In linea generale è questa la posizione ripetutamente espressa dalle chiese protestanti europee che nei giorni scorsi avevano lanciato un vero e proprio appello al voto.
Ora dagli appelli si passa al dialogo e al confronto. Istituzioni e chiese faranno ciascuno la propria parte senza confondere ruoli e competenze, come suggerisce il principio della laicità. E dovranno farlo in un contesto più ostile, nel quale sarà più difficile spiegare perché al centro della fede cristiana non c’è l’esibizione del rosario ma Gesù Cristo; non la paura dell’altro ma la pratica dell’accoglienza; non l’egoismo sociale ma la protezione di chi è in pericolo e bussa alla nostra porta.