Roma (NEV), 9 luglio 2019 – Che il ministro degli Affari esteri dichiari che la “Libia non è un porto sicuro” è importante. Che lo riconosca anche il vicepremier Matteo Salvini – come risulta da varie agenzie del 6 luglio – è eclatante. Alla fine anche il ministro che più ha twittato per garantire sulla sicurezza dei profughi concentrati in Libia, si è arreso all’evidenza delle violenze sistematiche, delle torture e delle persecuzioni che da anni sono denunciate dall’ACNUR e dalle poche ONG che operano in quel territorio. Una catastrofe umanitaria aggravata da bombardamenti come quello che il 3 luglio ha ucciso oltre 40 profughi detenuti nel campo di Tajoura, a poco più di dieci chilometri da Tripoli.
I due autorevoli ministri avranno soppesato il senso delle loro parole che, se la logica ha un peso anche nella politica, demoliscono la strategia di contrasto all’immigrazione clandestina adottata dal Governo in carico. E’ vero che il dibattito politico sulla questione delle migrazioni è sempre più emotivo e quello che si dice oggi si straccia domani ma solo qualche mese fa il vicepremier Salvini rimbrottava l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) – un’agenzia ONU quindi, non un centro sociale o una ONG – che denunciava l’insicurezza dei profughi in Libia replicando che l’Italia si impegnava “a garantire alle autorità libiche il legittimo esercizio delle proprie responsabilità nella gestione delle procedure di ricerca e soccorso” (29 marzo 2019).
Tradotto: noi italiani ci fidiamo della Libia e, sostenendola con mezzi militari e finanziamenti, le affidiamo l’onere di contrastare l’immigrazione irregolare. Strategia non originalissima dal momento che, con meno asprezza ma con la stessa determinazione, era già stata adottata dal ministro Minniti (governo Gentiloni). Venuta meno l’affidabilità del partner libico – ci chiediamo – non crolla il pilastro dell’azione diplomatica italiana nel Mediterraneo centrale? Non crolla l’architrave della politica persecutoria e criminalizzante nei confronti delle ONG che per prime – inascoltate e criminalizzate – hanno dichiarato i porti libici “non sicuri”? Se le parole hanno un senso – e nella politica dei tweet e delle battute ad effetto potrebbero non averlo – di fronte a un salvataggio in mare il ministro Salvini non potrà più invocare la “soluzione libica” perché egli stesso ha riconosciuto che, almeno “per ora”, non risponde agli standard di sicurezza internazionale. Tutti dobbiamo riconoscere che non ci sono soluzioni “esterne”: né in Libia, in Tunisia o in Marocco. Se le migrazioni mediterranee continueranno come tutti gli indicatori suggeriscono, è l’Europa che deve trovare un meccanismo di gestione ordinata e legale dei flussi.
E’ questo il senso della proposta formalmente avanzata dalla Federazione delle chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio di apertura di un “corridoio umanitario europeo” dalla Libia per 50.000 profughi in due anni. Una proposta legittimata dal successo dell’esperimento del “corridoio umanitario” aperto dal Libano verso l’Italia, così come di quelli verso la Francia, il Belgio e, prossimamente, alcuni lander tedeschi. Sarebbe una “buona pratica” che diventa “sistema ordinario” di gestione di almeno una quota dei flussi migratori; una strategia che restituirebbe all’Europa un ruolo di primo piano nella governance di un fenomeno che sia le istituzioni di Bruxelles che i singoli stati hanno immaginato di poter scaricare sui paesi più esposti e cioè Malta, Italia, Spagna.
La proposta avanzata dalla FCEI e dalla Comunità di Sant’Egidio è stata presentata al Premier Conte nei giorni scorsi e questi ha risposto in termini di vivo interesse. Il 1 luglio, inoltre, nella cornice istituzionale della Camera dei Deputati, il Presidente della FCEI, pastore Luca M. Negro, ha incassato il sostegno del presidente dell’Aula Roberto Fico e del presidente della Commissione Affari Costituzionali Giuseppe Brescia, insieme al rinnovato impegno della Vice Ministra agli Affari Esteri Emanuela Del Re a dare concreta attuazione a questa proposta.
Nel frattempo si muoveranno anche le chiese, cercando di fare leva sul consenso delle loro sorelle in Europa per spingere i governi ad assumersi la loro responsabilità. Un test ecumenico di primaria importanza per misurare l’impegno dei cristiani nelle politiche dell’accoglienza e della difesa dei diritti umani.
(*editoriale di Paolo Naso pubblicato sul settimanale n.28 di Riforma in distribuzione da oggi, 9 luglio, ndr)