Rosarno (NEV), 7 gennaio 2020 – Sbatte a terra i pugni e piange, prende a manate la camionetta della polizia davanti la tendopoli di Rosarno. Piange disperato e dice qualcosa della Libia, l’alcol che si è bevuto questa volta non gli serve per scaldarsi nel freddo della solitudine ma per trovare coraggio, per dire a tutti che non ce la fa più e vuole tornare indietro. Vorrebbe andarsene dal buco nero dove è finito. Spacca il cellulare a terra, come se fosse un pugno di addio ad un amico che lo ha tradito, illudendolo con una terra promessa che non c’è. Passiamo tre ore a calmarlo, Ibrahim lo accoglie con pazienza mentre gli altri braccianti gli sfilano vicino, rientrando stanchi dal lavoro, passano in silenzio come ombre nella notte. Finita la rabbia la disperazione rimane, lo vediamo riprendere la sua bici e scomparire nella strada buia che dalla tendopoli lo ricondurrà al campo dei container, a pochi km di distanza. Gli diamo appuntamento per il giorno dopo, ma non arriverà, se vorrà proveremo ad aiutarlo a tornare in Ghana, ma non sarà semplice, perchè se con i pacchetti sicurezza è difficile regolarizzare le persone che come lui vivono in campi informali per il problema della residenza, altrettanto difficile sarà riuscire a fornirgli i mezzi per poter tornare a casa con dignità in poco tempo.
Il decreto Salvini e la discrezionalità nell’applicazione della legge da parte delle prefetture sono devastanti e noi ne vediamo gli effetti ogni giorno. Procedure che finiscono per distorcere un quadro normativo che farà pagare il conto ai soliti noti. I comuni e la prefettura si rimpallano le responsabilità con enorme discrezionalità, e le persone rischiano di impazzire, tra uno sportello e l’altro, mentre il loro permesso di soggiorno scade. Abbiamo in questi giorni ottenuto un tavolo di confronto, sembra qualcosa si stia sbloccando, ma fino ad ora non abbiamo nulla di concreto in mano da offrire, se non la lunga strada dei ricorsi. Questa dinamica, che avviene in molte parti d’Italia, rischia di “scaricare” tutto in questi territori che diventano la sommatoria dei fallimenti dei progetti migratori, l’ultimo deposito d’umanità che provoca la cultura dell’emergenza.
La frontiera è feroce con i migranti, qualsiasi sia la forma che assume nei territori, dai lager in Libia ai ghetti della piana, se la continuano a portare addosso sulla pelle, come se fosse una maledizione. A Rosarno, 10 anni dopo la rivolta, tutto sembra uguale, immutabile, dopo l’omicidio di Soumalia Sako che ha acceso nuovamente la luce sulle condizioni di vita dei migranti, il buio è tornato di nuovo sopra le loro vite. Lo scorso mese un ragazzo è morto in mezzo al campo mentre lavorava, prima si pensava che fosse stato un incidente sul lavoro, sembra invece che sia morto di malattia. Dicono di tubercolosi. Morire così, malati ed abbandonati mentre si raccoglie clementine in un campo nella piana di Gioia Tauro perchè si è troppo poveri per pensare alla cura e troppo soli per trovare assistenza. Morire di miseria e frontiera, morire investito da un’auto mentre torni la notte perchè le strade non hanno luce, morire di monossido o perchè una baracca brucia nella notte.
In questi giorni insieme ad altre associazioni abbiamo distribuito giacchetti ad alta visibilità da indossare, luci elettriche da mettere nei manubri delle biciclette e montato lampioni che abbiamo piantato nei ghetti.
Lo abbiamo fatto non solo per un gesto di solidarietà ma anche per aprire e rendere visibile, 10 anni dopo la rivolta, il fallimento delle politiche dell’emergenza che da 20 anni hanno solo peggiorato la situazione spendendo una montagna di denaro pubblico che grida vendetta. Mentre facevamo queste azioni, diversi cittadini rosarnesi si sono fermati, e ci hanno ringraziato del gesto. Non era scontato, perché la rivolta del 2010 ha lasciato il segno in città, e se è vero che ha squarciato il velo dell’oblio, comunicando a tutti la situazione drammatica in cui vivevano i braccianti di Rosarno, è anche vero che la rivolta ha rotto ponti che da allora non si è riusciti a ricostruire. Occorrerà, se vogliamo cambiare le cose, provare a lavorare anche in questa direzione, perché i diritti o valgono per tutti o per nessuno.
Diceva Martin Luther King che le tenebre non possono scacciare altre tenebre, e che solo la luce può farlo, e noi questa luce abbiamo iniziato ad accenderla piantando lampioni nel punto più buio della piana. Illuminare un ghetto vuol dire mandare un messaggio ai governi: smettete di tormentare queste persone e dategli modo di vivere in dignità. Migliaia le case vuote nella piana, migliaia le persone che dormono in tende e baracche. Non serve a nulla mandare le ruspe per distruggere le baracche se non modifichi il sistema che quelle baracche le crea, e serve a poco – credetemi – dare la caccia ai caporali se non si modificano le regole che danno alla grande distribuzioni il monopolio dei prezzi.