Roma (NEV), 7 febbraio 2020 – A Sanremo, al festival della canzone italiana, Benigni osa presentare la canzone più bella identificandola in quel capolavoro delle Scritture ebraico-cristiane che è il Cantico dei cantici. Ed è notevole che questo testo sia stato declamato all’Ariston, in un teatro e non in una chiesa o in una sinagoga. Un riconoscimento al carattere culturale e non solo religioso della Bibbia, vero proprio codice del nostro occidente, ovvero testo decisivo per leggere anche gli altri capolavori artistici della nostra civiltà.
Interessante anche il fatto che Benigni si sia avvalso di una traduzione letterale, citando vari esegeti. Non si è limitato a recitare il Cantico; lo ha introdotto, mostrando di essersi messo in ascolto della tradizione interpretativa, da Rabbi Achivà fino al recupero attuale del significato letterale, non allegorico del testo.
Il Cantico ci interroga su tutti quei modi di dire la fede che hanno separato il corpo dall’anima, lo spirito dalla materia. E lo fa mettendo al centro i corpi, abitati dal desiderio, chiamati ad amarsi. La relazione amorosa tra i due giovani amanti mostra che l’amore può abbattere i muri del patriarcato per dare corpo a relazioni libere, paritetiche. E’ proprio in una simile relazione amorosa che si sperimenta la sacralità della vita. Mi sembra questa la sintesi del messaggio di Benigni: ascoltare il Cantico più bello significa riscoprire che l’amore può ritornare ad essere una grammatica fondamentale per vivere la vita nella sua pienezza.
L’attore Benigni ha presentato la sua performance come un trailer finalizzato a stimolare la visione del film: un modo originale per invitare a leggere personalmente il testo, per riscoprire quel capolavoro della letteratura custodito nel Libro della vita.
Chi, come noi, da anni, lavora nel tentativo di dare voce al Libro assente, non può che giudicare positivamente l’operazione fatta da Benigni .
La quale non si riduce ad una lettura laica, che si limita a riaffermare la sacralità dell’erotismo. Dietro quel monologo si nasconde anche una provocazione teologica: proprio come nel Cantico, dove il nome di Dio non viene mai menzionato, chi legge è provocato a scorgervi un modo sorprendente di pensare al divino.
Il fatto che il Cantici dei cantici si trovi nella Bibbia non ci richiama soltanto alla necessità di interrogarci sul modo moralistico con cui il mondo religioso ha guardato alle relazioni amorose. Quel testo poetico osa mostrarci immagini inedite di Dio. L’amore di due giovani amanti clandestini, che si amano fuori dai vincoli matrimoniali, diventa anche il luogo dove si rivela lo sguardo di un Dio che ama fuori dai rapporti “canonici” in cui rischiamo di imbrigliarlo.
Dio si nasconde nelle effusioni amorose degli amanti. Si rivela assetato di baci e di abbracci. È un Dio che, a tratti, assume la voce di una ragazza audace e spregiudicata nelle proposte amorose; ma anche quella di un ragazzotto timido e reticente sopraffatto dall’esuberanza della sua amata.
Non possiamo che essere grati a Benigni per il suo prezioso monologo e per l’invito rivolto dal palco dell’Ariston a riprendere in mano la Scrittura e a leggere con gli occhiali della poesia biblica la vita, le relazioni e la fede.