Il pastore giapponese che aiuta i migranti in Islanda

Il portale dei luterani intervista il pastore Toshiki Toma, nato a Tokio, trapiantato per amore a Reykjavík, dove si occupa di assistere le persone immigrate

Roma (NEV), 18 febbraio 2020 – Toshiki Toma, 62 anni, è un migrante che aiuta i migranti. Pastore luterano di origine giapponese, è diventato “famoso” in Islanda, dove si spende per le persone che, nel corso degli anni, hanno scelto la piccola isola a ridosso dell’Artico come loro destinazione.

I, my, me, mine

Racconta questa singolare storia il sito della Federazione luterana mondiale (FLM), in un’intervista al pastore, che qui sotto riportiamo, tradotta.

Toshiki Toma on Iceland

"Iceland appreciates individuals," says Toshiki Toma, Special Service Priest to the immigrant community in Iceland. See our main video about Icelandic Sovereignty Day here:https://bit.ly/2BORAFQFullveldi Íslands

Pubblicato da RÚV English su Lunedì 10 dicembre 2018

“Parlaci in primo luogo delle tue origini in Giappone e del perché volevi diventare un pastore.

Sono l’unico cristiano nella mia famiglia poiché la maggior parte dei miei parenti sono culturalmente buddisti o shintoisti. Sono stato per la prima volta in una piccola chiesa luterana nel mio quartiere di Tokyo quando avevo 18 o 19 anni e cercavo uno scopo nella mia vita. All’università mi sono laureato in scienze politiche ed ero attivo nel partito socialdemocratico e nella mia chiesa locale.

Dopo la laurea, ho lavorato per il dipartimento dell’educazione di un sindacato, dove ho potuto vedere come le persone fossero sempre preoccupate per il loro futuro, per la loro vecchiaia o i loro problemi familiari. Mi sono reso conto che il lavoro politico e sui diritti umani può creare un terreno fertile per il benessere delle persone, ma non può realmente creare felicità, così ho deciso che volevo lavorare in chiesa per aiutare le persone a trovare la vera felicità.

Come ha reagito la tua famiglia alla tua decisione di essere ordinato?

Mio padre era molto aperto rispetto a quest’idea. Quando gli ho detto che volevo lasciare il mio lavoro e andare in seminario, ha risposto: “È meglio lavorare per Dio, piuttosto che per soldi”. Mia madre all’inizio non era così positiva, ma non si è opposta alla mia decisione e così fui consacrato 30 anni fa, nel marzo 1990, nella chiesa evangelica luterana del Giappone (JELC).

Come mai ti sei trasferito in Islanda?

Durante il mio ultimo anno di seminario nel 1989, ho seguito un corso di due mesi a Gerusalemme, gestito dalla Chiesa di Svezia. Lì mi sono incontrato e mi sono innamorato di una pastora islandese e ci siamo sposati dopo la mia consacrazione. È venuta a vivere in Giappone per due anni, ma la nostra chiesa è molto piccola, quindi non c’era possibilità per lei di lavorare come pastora e abbiamo deciso di trasferirci in Islanda nel 1992. Abbiamo divorziato nel 1999.

Volevo servire come pastore nella chiesa islandese ma non sapevo parlare la lingua, non conoscevo nessuno tranne la famiglia di mia moglie e dovevo seguire alcuni corsi presso la facoltà di teologia per diventare pastore per la Evangelical Lutheran Church dell’Islanda. Ci sono voluti cinque anni, quindi ho lavorato part-time e ho imparato la lingua mentre cercavo altre opportunità.

Ora lavori come pastore per gli immigrati: che supporto offri?

Non c’era nessuno che svolgesse questo lavoro prima di me, ma poco dopo il mio arrivo, a metà degli anni ’90, l’immigrazione iniziò a crescere, comprese le donne dell’Asia – Filippine, Tailandia, Vietnam – che sposarono uomini islandesi. Come donne asiatiche, erano spesso troppo timide per parlare dei loro problemi, ma trovarono più facile parlare con me, vedendomi come qualcuno che capiva la loro cultura. Molti non erano cristiani, quindi piuttosto che lavorare come pastore, ho iniziato come consulente per loro in quanto non esistevano altri servizi di supporto a livello statale o municipale.

Li ho aiutati a trovare lavoro e casa, e ho cercato di aiutarli ad affrontare la discriminazione, che hanno vissuto con persone che non erano abituate ad entrare in contatto con gli stranieri. Se qualcuno non parlava la loro lingua, spesso per gli islandesi questo era un segno di maleducazione o mancanza di rispetto nei loro confronti, quindi un limite nelle competenze linguistiche poteva renderti un cittadino di seconda categoria. L’Islanda è un paese così piccolo e la sua gente ha un forte attaccamento alla lingua. È visto come un simbolo di unità nazionale e hanno paura che se perdono la loro lingua, perderanno la loro identità.

Chi sono le persone che vengono da te per chiedere aiuto e che è cambiato nel corso degli anni?

Le cose sono cambiate intorno al 2004, quando la Polonia e altri paesi dell’Europa orientale hanno aderito all’UE. L’Islanda fa parte dello Spazio economico europeo e dell’Accordo di Schengen e ha fatto un grande sforzo per offrire una migliore accoglienza agli immigrati, quindi col passare degli anni ho avuto la possibilità di tornare al mio normale lavoro di pastore, come avevo inizialmente pianificato.

Nel 2008 abbiamo avuto il grande crollo economico, ma lentamente le cose sono tornate alla normalità intorno al 2012. Pochi anni dopo, c’è stato un nuovo flusso di richiedenti asilo, provenienti da Africa, Sud America, Europa orientale e Medio Oriente. Ci sono tra le 800 e le 1.000 domande all’anno e ora lavoro principalmente con loro.

Nella mia chiesa (Congregazione Internazionale della chiesa Breidholts), il 70 percento delle persone proviene da Iran, Iraq e Afghanistan, quindi sarebbero di cultura musulmana ma vogliono comunque frequentare i nostri servizi domenicali e li battezziamo, se lo desiderano. Anche se non chiedono asilo o le loro domande vengono respinte, cerchiamo di sostenerli il più possibile.

Quanto sono accoglienti oggi gli islandesi, con i “nuovi” migranti?

Gli islandesi vogliono aiutare, in particolare le famiglie con bambini, ma spesso sono meno empatici con i giovani uomini, quindi accolgo soprattutto loro. Essendo un paese così piccolo, gli islandesi apprezzano anche le persone come individui, in un modo molto diverso dal mio Giappone, quindi spero che continueranno ad abbracciare il valore unico di ogni individuo.

Quando ho iniziato questo lavoro, la chiesa non comprendeva pienamente il mio ministero e mi chiesero: “Perché dovremmo aiutare i buddisti o altri?”. Ora il vescovo d’Islanda mi supporta moltissimo, e dice anzi che la chiesa potrebbe fare molto di più. Dopo che una nostra delegazione è stata a Ginevra lo scorso settembre, abbiamo anche istituito un gruppo di lavoro per proporre maggiore sostegno ai richiedenti asilo al prossimo sinodo della chiesa. È un grande cambiamento rispetto a 10 anni fa e ne sono molto contento”.