Cristina Arcidiacono, pastora evangelica battista.
8 marzo: cosa rappresenta per lei? Lo festeggia? Se sì come? Se no perché?
“L’otto tutti i giorni” è uno slogan del movimento delle donne. Ogni giorno rappresenta il tentativo di pensare e costruire insieme a donne e uomini relazioni più eque. Non ho mai festeggiato l’otto marzo, non è una festa. Avere una data di riferimento significa però anche la possibilità di fermarsi a riflettere e rendere visibile ciò che troppo spesso resta invisibile.
La donna che ammira di più.
Più che ammirare, sento che mi parlano le donne anonime di cui sono costellate le Scritture bibliche, dalle levatrici dell’Esodo alla donna dal flusso di sangue del vangelo di Marco: protagoniste di una narrazione altra, in cui la vita passa anche dalla disubbidienza al potere mortifero dell’impero o della religione stessa. Una donna che mi ha scosso è stata la filosofa Hanna Arendt, il suo pensiero e la sua vita, la domanda cruciale sulla verità, la sua vulnerabilità esistenziale, mi parlano ancora oggi con lucidità e complessità. E poi la poesia: Anne Sexton, Marina Cvetaeva, Wislawa Szymborska… Cerco di leggere il più possibile scrittrici e teologhe, per sentirle vicine, per ringraziarle del loro contributo. E poi le figlie, più delle madri. Ecco, ammiro le figlie, il desiderio di emanciparsi anche dalle madri, e non voglio dimenticare, da madre, di riconoscere questo desiderio, accompagnato dal coraggio e dalla lotta.
La suffragetta statunitense Elizabeth Cady Stanton, alla fine del secolo XIX, con altre attiviste scrisse The Woman’s Bible (La Bibbia della donna). Qual è il ruolo della donna, nella sua religione e comunità, dal suo punto di vista, non solo teologico quanto soprattutto per quella che è la sua esperienza personale?
Il ruolo delle donne nelle chiese è spesso lo stesso presente nella società. E’ difficile vivere la pienezza dell’Evangelo all’interno di sistemi che troppo spesso resistono al cambiamento, nel senso di comunità in cui tutte e tutti, ciascuna e ciascuno sono valorizzati per i propri doni in ogni ogni ambito della vita comunitaria, locale e istituzionale. Letture patriarcali della Bibbia, in cui i testi vengono letti e predicati senza considerare il contesto di provenienza né tantomeno quello di arrivo, resistono, tanto nelle chiese in Italia quanto nel mondo. Basti pensare alle traduzioni e a chi traduce la Bibbia: solo in anni recenti ci sono anche donne nei comitati di traduzione e tradurre “uomini” con “persone” o “umanità”, laddove il testo vuole dire proprio questo, cambia notevolmente il peso della ricezione.
Si è mai sentita discriminata o sminuita in quanto donna?
Quando studiavo teologia, un pastore già allora di una certa età e per il quale nutrivo una certa deferenza, incontrandomi per caso, lui insieme a persone che non conoscevo, mi apostrofò dicendomi che sicuramente avrei fatto proseliti tra molti maschi. Forse pensava di avermi rivolto un complimento, una galanteria, mi sentii subito a disagio. C’è voluto del tempo, fatica e lavoro per comprendere che non c’è alcun bisogno di vergognarsi o sentirsi in colpa e che l’accondiscendenza non è una virtù. Mi è capitato di sperimentare come la divergenza, la richiesta di chiarimenti, una franca opposizione perfino, sia vista come minacciosa da parte dei uomini, e allora non sei più “brava e bella”, ma “troppo emotiva”. Il discorso passa dall’oggetto della discussione al genere, alla persona. Questo per dire quanto lavoro c’è ancora da fare.
“Donne che stanno “un passo indietro”, aborto come frutto di “stili di vita incivili”: sono solo due degli ultimi episodi di sessismo che, al di là delle responsabilità di chi lo esplicita, esiste e permane nel racconto collettivo della società, sui media, nella narrazione dell’attualità. Che cosa ne pensa?
Per me l’evangelo è stata liberazione anche da una cultura patriarcale che ha impregnato, volente o nolente, la mia infanzia in una città del sud Italia. Oggi penso sia importante dare più spazio ad altri tipi di narrazioni rispetto a quelli che hanno il monopolio dei media, storie educative, in cui, anche in virtù della fede che mi fa essere umana, posso riconoscere gli stereotipi e vivere altrimenti. Credo nel contagio della bellezza, del lavoro per il bene comune.
Un provvedimento, politico, legislativo, o culturale, che assumerebbe per migliorare la condizione femminile in Italia o nel mondo, o a livello locale.
Consultori, educazione affettiva e sessuale nelle scuole, sportelli e programmi di ascolto per gli uomini che commettono violenze. Perché questo possa accadere concretamente occorre riconoscere nell’educazione e nella formazione, delle priorità per la possibilità di crescita in civiltà e cittadinanza. Il riconoscimento dei diritti non è contro, ma per la vita, di tutte e di tutti.
Nel 2018 il movimento del #MeToo è stato nominato “persona dell’anno” dal Time. Nello stesso anno, si stima che 379 milioni di donne abbiano subito violenze fisiche e/o sessuali. Che ne pensa?
Finché si sosterrà che un rapporto d’amore può essere violento, che lo stupro può essere il finale estremo di un gioco di seduzione, che un “no” è in realtà un sì, finché questa sarà la comunicazione che arriva alle persone, l’8 marzo sarà una festa e gli uomini saranno sempre, naturalmente, cacciatori. Non se ne esce.
Intervenire sull’educazione è difficilissimo. Significa dire che come genitori non andiamo bene: eppure è anche così. Pensare di far crescere i nostri figli come siamo cresciuti noi, magari in contesti in cui la violenza, che sia verbale, o economica, o psicologica, o religiosa, quando non fisica, è pane quotidiano, come se fosse qualcosa di ineluttabile, di inevitabile, significa perpetrare le violenze sulle donne, sulle bambini e sui bambini. Ma anche su se stessi o su se stesse. Penso che sia anche importante il fatto che in gioco c’è di più della lotta per le donne, ma si lotta anche per il lavoro, per l’infanzia, per l’ambiente, per tutta l’umanità, uomini compresi.
Un messaggio per gli uomini. E uno per le donne.
“Il femminismo è sexy”, afferma una mia cara amica giornalista. A molti uomini mi piacerebbe dire che si può lavorare su di sé, sulle proprie fragilità, sulle paure, sui desideri di rivincita, di rivendicazione: si può uscire da se stessi dopo essere andati così in profondità e guardare il mondo con occhi nuovi. Non aver paura di essere “piccoli”: Gesù metteva “i piccoli”, i bambini, quelli che non contavano, al centro. Ad alcune donne vorrei dire che si può anche camminare insieme, con donne che la pensano diversamente, con uomini, non solo per costruire relazioni di riconoscimento e di cura, ma anche per unire le forze in una società che ci vuole disperse e soli. Creare comunità, guardare gli interessi comuni, non solo i propri, ma quelli del mondo intero.