Dossier: Siria e Libano ai tempi del Covid19

Cosa sta succedendo in Libano, dove le proteste sociali sono aumentate e il disastro economico è alle porte? Come vivono i profughi siriani le ulteriori difficoltà causate dall'emergenza sanitaria da Covid19? Un'analisi di Silvia Turati, operatrice di Mediterranean Hope, programma rifugiati e migranti della FCEI

foto di Andrea Cappellini, campi profughi libanesi, al confine con la Siria

Roma (NEV), 30 aprile 2020 – Dopo la prima parte, dedicata in particolare alla sanità, scritta dal medico Luciano Griso, la seconda parte del dossier di Mediterranean Hope, programma rifugiati e migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, sulla situazione in Libano, paese dal quale partono i corridoi umanitari. Il report è a cura di Silvia Turati, operatrice di MH.

LA SIRIA AI TEMPI DEL COVID19

Il 22 marzo 2020 il Ministero della Sanità siriano ha annunciato il primo caso di Covid-19. Al 29 aprile 2020, i casi confermati risultano essere 43, inclusi tre decessi e 21 guariti.

La preoccupazione più grande concerne la mancanza di risorse del Paese per fronteggiare l’emergenza sanitaria: al momento attuale, solo 57 ospedali pubblici sono ancora funzionanti, mentre si registra una forte mancanza di personale sanitario formato. E’ importante sottolineare come 9 anni di guerra civile abbiano visto la fuga di oltre 5,6 milioni di persone e, tra questi, anche molti medici e personale sanitario.

Nonostante le cifre dei contagi rese pubbliche, il governo siriano è stato accusato sia dall’opposizione che da figure filo governative, di nascondere il reale numero degli infetti, sospettati di essere addirittura migliaia.

 

Il Nord della Siria – in larga parte sotto il controllo delle forze di opposizione e della Turchia – è la regione dove si teme di più la diffusione del virus, anche se fino a questo momento non sono stati dichiarati casi di infetti.

Nella Siria nord occidentale, al confine turco nel nord di Idlib e di Aleppo, i campi di sfollati sono diventati 320, in particolare in seguito alla forte offensiva dello scorso gennaio del governo siriano. Circa 1 milione di persone hanno abbandonato le loro abitazioni e una grande parte di queste vive in campi o alloggi temporanei al confine con la Turchia. In questi insediamenti, tuttavia, non ci sono standard sufficienti di igiene e le condizioni di vita rimangono precarie. Inoltre, a fronte di importanti condizioni mediche (in particolare diabete e malattie cardiache croniche), i servizi sanitari non riescono ad offrire una risposta adeguata. La maggior parte di chi risiede in questi campi sono persone anziane o bambini, che sono la categoria più vulnerabile.

Mantenere una distanza di sicurezza minima è alquanto impossibile, non solo a causa della prossimità degli alloggi gli uni agli altri e del sovraffollamento, ma anche in quanto sono presenti strutture condivise, come i bagni e le taniche dell’acqua da dove la gente riempie i bidoni per le necessità quotidiane. Inoltre le persone del campo spesso formano raduni per per avere accesso alla distribuzione di beni e servizi, e ciò incrementa il rischio di contagio.

Una organizzazione umanitaria che opera a Idlib, la Syrian Response Coordination Group, ha valutato la capacità del settore sanitario nella gestione della pandemia nelle zone di opposizione nella Siria nord occidentale. Da alcune recenti statistiche emerge che è disponibile un solo letto di ospedale ogni 2,378 persone, e un solo respiratore ogni 37,549 persone.

Le forti debolezze del sistema sanitario siriano riguardano soprattutto quelle aree di opposizione dove tutt’ora si combatte, dove ospedali e strutture sanitarie sono state e sono ancora uno dei principali target delle forze governative.

LIBANO, TRA COVID-19 E DISASTRO ECONOMICO

Il 15 marzo 2020 il Libano annunciava 99 casi di Covid e dichiarava l’emergenza sanitaria, seguita dalla chiusura di scuole, università, bar e ristoranti. Il 19 marzo veniva chiuso l’aeroporto e il 27 veniva imposto un lockdown dalle 17 di sera alle 5 del mattino.

Ad oggi i casi ufficiali dichiarati dal Ministero della Salute risultano 717, con 145 guarigioni e 24 decessi.

La diffusione del virus, seppur ancora apparentemente contenuta, sta mettendo a dura prova l’economia del Paese, già brutalmente provata dalla recente crisi economica.

Lo scorso ottobre, infatti, proteste della popolazione si sono sollevate in tutto il Paese per chiedere la rimozione della classe politica corrotta e la formazione di un governo tecnico, al fine di risollevare l’economia.

Il 9 marzo, tuttavia, il nuovo primo ministro Hassan Diab ha dichiarato lo stato di default. L’attuale crisi finanziaria e bancaria è largamente considerata come il più grande rischio alla stabilità del Paese dai tempi della guerra civile (1975-1990).

Se da una parte la popolazione risponde in maniera responsabile all’emergenza Covid-19 seguendo le misure restrittive imposte, dall’altra le proteste non si placano, e i manifestanti continuano ad organizzarsi in assembramenti compiendo spesso azioni violente (molte banche sono state danneggiate o distrutte in seguito al blocco di conti e trasferimenti di denaro).

Il valore della lira libanese è crollato irrimediabilmente, e il cambio ufficiale con il dollaro (seconda moneta ufficiale in Libano) è raddoppiato (3000 lire per un dollaro). Nel mercato nero, invece, i tassi di cambio vengono continuamente manipolati e nel mese di aprile sono arrivati a 4400 lire per un dollaro.

Tutto ciò ha inevitabilmente causato una impennata nei prezzi che sono raddoppiati e talvolta triplicati. Un kg di pomodori a Beirut, ad esempio, è passato da circa 2000LL a circa 5000LL.

La crisi economica, aggravata dal lockdown dell’emergenza sanitaria, sta inevitabilmente affamando la popolazione. Ad oggi, secondo il Ministero libanese delle Finanze, il 45% della popolazione è sotto la soglia di povertà, di cui il 22% in estrema povertà.

Durante recenti proteste nella città di Tripoli i manifestanti hanno bruciato in piazza copertoni, gridando che è meglio morire di Covid piuttosto che di fame. Se da una parte gli aiuti promessi dal governo sembra ritardino ad arrivare, partiti politici si sono organizzati per sfruttare la situazione e riguadagnare credibilità: distribuzione di basket alimentari in cambio di sostegno elettorale.

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[Mercato nel campo di Shatila, Beirut, ottobre 2018. Credits: Andrea Cappellini]
COVID E RIFUGIATI IN LIBANO

Come prevedibile, la crisi economica e il lockdown del Paese incidono fortemente sulle condizioni dei rifugiati. Come già spiegato in un precedente report sulla condizione dei profughi siriani in Libano, il paese ospita il più alto numero di rifugiati pro capite al mondo.

Una delle questione fondamentali ampiamente discussa è la difficoltà ad attuare il distanziamento sociale all’interno dei campi profughi (insediamenti siriani e campi palestinesi).

I campi palestinesi sono estremamente sovraffollati. Il campo di Shatila, ad esempio, nato a Beirut nel 1949, si estende su una superficie di 0,4 km quadrati e ospita circa 18 mila persone. Ancora più impressionante il campo di Ein el-Hilweh(Sidone), il più esteso del Libano: 1,5 km quadrati per una popolazione di 80 mila.

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[Shatila, ottobre 2018 – Credits: Andrea Cappellini]
Anche negli insediamenti informali dei profughi siriani in Libano gli shelters sono estremamente vicini gli uni agli altri e spesso i servizi igienici sono in comune. Come più volte osservato dall’equipe di Mediterranean Hope nelle numerose visite presso gli alloggi dei rifugiati siriani, spesso un’abitazione -composta il più delle volte da una sola stanza- viene condivisa da nuclei famigliari numerosi, talvolta famiglie allargate.

Tanti di questi alloggi non dispongono di finestre e le stanze rimangono buie e umide.

“La nostra casa si compone di una stanza da giorno, un cucinino e un piccolo bagno. In casa viviamo in 6 adulti: io, mia madre e i miei quattro fratelli. La notte mettiamo per terra dei materassini di gommapiuma e delle coperte e dormiamo tutti insieme nell’unica stanza […].

Tutti i giorni nel campo passa una macchina con un megafono e ricorda a tutti di rimanere in casa, di attenersi alle norme igieniche e di non far uscire i bambini a giocare per strada, come di solito fanno. Nel campo ci sono tante persone attente che indossano guanti e mascherine. Altri invece sembrano non preoccuparsi del contagio, forse perché nel campo non si è registrato alcun caso. Gli alloggi sono molto vicini, uno sopra l’altro. Purtroppo non riusciamo a comprare i gel igienizzanti per le mani, ma ci limitiamo a lavarle con il sapone. Per il momento stiamo bene, grazie a Dio”.

Walaa, giovane siriana palestinese a Shatila, Beirut.

Al momento attuale sono stati registrati solo 5 casi di Coronavirus all’interno di un campo siriano nella valle della Beqaa, e, dopo aver effettuato alcuni test ai suoi abitanti, non sono emersi ulteriori casi. Tuttavia, in generale, i test effettuati all’interno dei campi non sembrano essere sufficienti a provare l’assenza del virus in tali ambienti.

Infatti, la difficoltà a mantenere il distanziamento sociale, le insufficienti condizioni igieniche e la scarsezza di acqua appaiono elementi di grande rischio per la diffusione del virus.

Tuttavia, le agenzie internazionali e varie associazioni e ong, hanno messo a punto kit informativi all’interno dei campi, volti a responsabilizzare il più possibile la popolazione.

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ha dichiarato di essersi attivato – attraverso i suoi partners- nel fornire risposte efficaci alla crisi sanitaria per la popolazione rifugiata. La strategia messa in atto si compone di tre fasi:

  • prevenzione: campagne informative, distribuzione di materiale igienico-sanitario (mascherine, guanti, etc.)
  • contenimento della trasmissione del virus: implementazione delle possibilità di auto-isolamento nei campi sovrappopolati, garantendo le misure adeguate per l’accesso al cibo e all’acqua
  • gestione dei casi infetti: supporto agli ospedali pubblici e privati per garantire  l’accesso alle cure a tutti

Come già ampiamente spiegato in un precedente report sull’emergenza sanitaria fronteggiata dal sistema sanitario libanese, questo non sembra essere in grado di far fronte ad una crisi di tale portata. La crisi finanziaria e la conseguente scarsità di risorse economiche mette in serie difficoltà il Paese nel rispondere in maniera adeguata all’emergenza del Covid.

LE CONSEGUENZE ECONOMICHE E SANITARIE SULLA POPOLAZIONE RIFUGIATA

La quarantena imposta in tutto il Libano incide in maniera particolare sugli oltre 1,5 milioni di rifugiati presenti nel Paese. In particolare i rifugiati siriani, che per la maggior parte sopravvivono con lavoretti giornalieri in nero nell’agricoltura e nell’edilizia, si trovano impossibilitati a spostarsi e quindi a cercare lavoro. Nonostante le misure anti Covid, molti di loro si vedono costretti a infrangere tali regole per potersi garantire una minima sussistenza, ma vanno incontro al rischio di essere arrestati.

Una situazione simile è presente anche in Turchia, paese che ospita circa 3,6 milioni di rifugiati siriani. E’ notizia di pochi giorni fa che un giovane ragazzo siriano è stato ucciso dalla polizia turca poiché era per strada, violando il lockdown. Il ragazzo, secondo quanto riportato dai media locali, era fuori per poter lavorare e garantirsi la sussistenza.

Oltre alle misure di lockdown imposte dal governo libanese, molte municipalità hanno attuato ulteriori misure per limitare i movimenti. In particolare si registra che in circa 21 municipalità sono state attuate misure extra proprio all’interno dei campi profughi, da cui viene proibito uscire se non per necessità essenziali ed è impedito anche l’accesso a personale di ong che prima offriva dei servizi sul campo, in particolare in ambito sanitario.

La paura del contagio – in un paese dove l’assistenza sanitaria è a pagamento – unita alle restrizioni di movimento che impediscono alla popolazione rifugiata di garantirsi la sussistenza attraverso saltuari lavoretti, giocano un ruolo chiave nel disagio psicologico che molti si trovano ad affrontare.

All’inizio di aprile, un uomo di nazionalità siriana rifugiato in Libano, si è dato fuoco in un campo agricolo nella valle della Beqaa, dopo essere stato colto dalla disperazione per la sua situazione economica, aggravata dalle restrizioni attuali.

Inoltre, secondo le statistiche di Unhcr riportate in un precedente report, il 57% dei rifugiati siriani in Libano vive in alloggi sovraffollati oppure in condizioni al di sotto dei minimi standard umanitari e/o in pericolo di crollo. Per tale ragione, affrontare un periodo di auto-isolamento in condizioni del genere, mette a dura prova il benessere psico-fisico di molti individui con vissuti traumatici.

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[Interno di una abitazione nel campo palestinese di Sabra, Beirut, gennaio 2017. Credits: Corinne Flumann]
Infine, altra questione centrale nell’impatto del virus sulla popolazione rifugiata, riguarda la paura di richiedere cure sanitarie. Secondo stime Uhncr, il 73% dei siriani in Libano non dispone di documenti legali. Ciò comporta che la probabile verifica della loro condizione legale nel paese nel momento della presa in carico sanitaria possa esporli- soprattutto nel contesto di emergenza pandemiologica- al grosso rischio di deportazione forzata in Siria, per mancanza di documenti legali.

Il rischio, quindi, è che sintomi da Covid non vengano “denunciati” alle strutture sanitarie con una conseguente diffusione pericolosa del virus all’interno dei campi.

QUI IL DOSSIER COMPLETO IN PDF: Libano e Covid19 (con note e bibliografia)