Roma (NEV), 7 maggio 2020 – “75 anni fa finì la Seconda guerra mondiale. Anche se sono nato solo dieci anni dopo questa data, questa guerra ha comunque modellato la mia vita. Anche se certamente in modo molto diverso da coloro che vi hanno perso la vita”.
Inizia così un lungo scritto di Heiner Bludau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI).
Il 7 maggio di 75 anni fa si concludeva la Seconda Guerra Mondiale. Era iniziata il 1° settembre 1939 e aveva prodotto la morte almeno 55 milioni di persone, la maggior parte di loro erano civili.
Bludau racconta di come nella sua famiglia e nella sua comunità il tema della guerra sia sempre stato molto difficile da affrontare: “Come molte altre persone della loro età, i miei genitori non volevano quasi mai parlare delle loro esperienze di quegli anni. Che siano stati i sensi di colpa a impedirglielo, o semplicemente l’orrore per quanto vissuto, ancora oggi non lo so”.
Alla fine degli anni Sessanta invece, racconta il decano della CELI, cominciò l’interesse pubblico sul passato: “la conseguenza fu un conflitto generazionale che toccò tanto la politica e la società, quanto la sfera personale. I ricordi della guerra assumevano generalmente una valenza politica: o venivano associati ad accuse, o servivano come auto-giustificazione. Io sono rimasto con le mie domande, e solo dopo la scuola ho trovato l’opportunità di affrontarle davvero”.
Raccontando come si sia articolata la sua formazione pacifista Bludau arriva a ricordare la sua visita al campo di concentramento di Auschwitz: “Lì ho finalmente potuto prendere coscienza, almeno in una certa misura, dell’entità della catastrofe della Shoah. Sei milioni di ebrei uccisi, per un totale di più di 55 milioni di vittime della guerra, sono numeri che indicano l’entità delle sofferenze. Ma si riescono a capire di fronte a queste cifre inimmaginabili? Nel corso degli anni ho imparato, che se da un lato è importante essere consapevoli di queste cifre, d’altro canto è ancora più importante, quando si tratta del passato, occuparsi dei destini individuali delle singole vittime. In quest’ottica per me è stata un’esperienza molto importante e toccante incontrare di persona i sopravvissuti della Shoah. Non solo come preziosa testimonianza contro gli ancora esistenti e al momento addirittura crescenti tentativi di negazionismo, di ignorare e negare i fatti storici. Ma anche perché lo spirito vitale di chi ha attraversato questo inferno può essere fonte di ispirazione”.
Il lungo scritto, che è possibile leggere integralmente sul sito della CELI riflette anche sul negazionismo che viviamo nel tempo presente e sulla dimensione politico-sociale-economica ma anche personale della pace.
“Non voglio negare la colpa del popolo a cui appartengo. E lo stesso vale per l’aspetto politico, questo soprattutto in vista di un nazionalismo dilagante non solo in Germania. Vivo come un’opportunità il fatto che il mondo non sia più diviso in blocchi, anche se effettivamente questo sembra aver dato luogo a più nuovi scontri che ad un’ampia cooperazione. (…) Ma la pace non ha solo una dimensione politica, sociale ed economica. Riguarda anche la ‘convivenza’ personale. Percepire i propri simili con le loro peculiarità, accettare le loro differenze e apprezzarli (amarli) per quello che sono, è un prerequisito decisivo per una vera pace. E la condizione per la vera pace è che le persone trovino la pace interiore”.
Una lunga digressione riguarda l’eccidio di Cefalonia e le relazioni tra il nazismo e il fascismo, un singolo evento che “sottolinea in modo particolare il fatto di quanto fu terribile questa guerra. Non dobbiamo dimenticarlo mai”.