Roma (NEV), 12 maggio 2020 – La notizia della liberazione e del rientro in Italia di Silvia Romano ci ha colto di sorpresa e ci ha riempiti di entusiasmo. Tuttavia, il rumore mediatico creatosi intorno alla vicenda, ha indotto alcune riflessioni.
Innanzitutto, devo riconoscere un certo senso di identificazione nella figura di Silvia, forse perché anche io, così come i miei colleghi in Libano, siamo stati impegnati – a volte a titolo pienamente volontario – in attività umanitarie in zone considerate più o meno “rischiose”.
Personalmente, il mio lavoro nel programma dei corridoi umanitari della Federazione delle chiese evangeliche, ha radici molto lontane. Sebbene non sia mai stata in Africa, ho avuto la fortuna di vivere in vari paesi del Medioriente, sempre per scelta: prima per studio, poi volontariato e infine lavoro. E’ un percorso che accomuna molti cooperanti, ricercatori e spesso giornalisti che vivono “sul campo”.
Nel caos mediatico che si è alzato intorno alla vicenda, ci sono state un paio di opinioni che hanno attirato, purtroppo negativamente, la mia attenzione.
La prima – credo scritta ingenuamente – riguarda la banalizzazione dell’attività di volontariato compiuta da Silvia Romano. Nell’espressione “voler donare sorrisi” e “portare il gioco” per alleviare la terribile condizione dei bambini kenioti, emerge, secondo me, una visione alquanto riduttiva – e temo pericolosa – sul reale significato di una scelta di volontariato di questo tipo.
Il fatto di partire, di assumersi dei rischi, di “investire” – spesso anche economicamente – in una esperienza di volontariato nel sud del mondo è una scelta che va ben oltre il “portare il gioco” a dei bambini. E’, infatti, bisogno di andare oltre, di abbassare muri, di mettersi in discussione, di conoscere che mondo si nasconde davvero dietro a quello raccontato dai media. E’ l’esigenza di trovare un’altra narrazione, di guardare in faccia alle ingiustizie.
Altra voce, ancor più fastidiosa, è quella che parla di “smania di altruismo” da soddisfare “in loco”, anziché avventurarsi e rischiare in un villaggio sperduto.
Siamo dunque volontari, cooperanti, ma anche ricercatori e giornalisti, incastrati nel dualismo retorico dell’ “aiutiamoli a casa loro” e “aiutiamoci a casa nostra”.
E’ un’uscita spiacevole non solo per tutti coloro impegnati oltre la frontiera, ma anche per coloro che sono impegnati “a casa propria”, poiché il dare o l’essere altruisti diviene un eccesso o forse una colpa.
Non solo: definire la giovane volontaria come “entusiasta e sognatrice” cela uno sguardo paternalistico rinforzato dall'”illusione di voler cambiare il mondo”. Come se l’impegno quotidiano di tutti noi non valesse nulla agli occhi di chi non riesce a vedere oltre il proprio muro.
C’è anche da notare come il rumore mediatico sollevato dalla vicenda di Silvia Romano non sia lontanamente paragonabile a quello creatosi intorno a rapimenti passati di giornalisti, cooperanti, imprenditori, tutti uomini e con solida esperienza alle spalle. Come se l’essere donna, e per di più giovane, aggiunga “colpa” a l’essersi allontanata da casa per occuparsi di altri. Colpa che viene amplificata dal velo e dall’abito “islamico” così come molti lo hanno definito. Nessuno sa che cosa ci sia dietro alla scelta di una ipotetica conversione – se di scelta si tratta – e non è questa una questione che dovrebbe importare.
Quello che però sappiamo – anche grazie al nostro lavoro a fianco di vittime di conflitti armati – è che spesso, in situazioni di grossi traumi come può essere l’esperienza di guerra, quando si sperimenta una forte vulnerabilità, non è raro vedere persone che si affidano più profondamente alla loro fede, e talvolta si convertono ad altre religioni. Sappiamo che in determinati contesti alcune di queste conversioni potrebbero essere forzate o di “convenienza”, ma riconosciamo anche – poiché ne abbiamo testimonianza diretta – che molte persone trovano una nuova àncora di salvezza in un credo.
Il bisogno spirituale, quindi, quale che sia la sua forma, è un bisogno umano che prescinde dalla religione in sé e diventa più urgente proprio in momenti traumatici.
Per esperienza personale posso dire che vivere e lavorare in un paese tanto “diverso” non è semplice. Non perché sia difficile adattarsi a nuovi codici culturali ma perché è complicato, una volta tornati a casa, saper tradurre tutto quel bagaglio in un linguaggio comprensibile a chi non sa ascoltare.
Immergersi nel contesto dell’altro e divenirne parte, pur mantenendo la propria identità, significa astrarsi dalle proprie categorie culturali per stabilire un “ponte” concettuale con l’alterità.
Naturalmente non è qualcosa che si riesce a fare andando in vacanza, anche se in posti tanto diversi. E’ qualcosa che viene col tempo, nel momento in cui decidi che la tua vita, in quella fase dell’esistenza, è lì e solo lì. E allora succede che ti immergi nella quotidianità, apprezzi altri sapori, parli altre lingue, entri nei meccanismi del pensare locale, ti lasci andare e ti fidi di quella parte di mondo. E’ tutto normale, logico, naturale, umano. E di grande bellezza.
Chi è impegnato in paesi “complicati”, come lo è stata Silvia Romano, e lo sono molti di noi, si assume dei rischi. Tuttavia, anche se questi a volte possono essere grandi – e spesso imprevedibili – sappiamo che in fondo il più grande rischio è quello di non volgere mai lo sguardo oltre la propria esistenza.