I primi 50 anni dello Statuto dei Lavoratori

La legge 300 del 20 maggio 1970 fu, secondo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella "un grande traguardo sociale e culturale, e al tempo stesso fu tappa importante nella vicenda repubblicana e nelle trasformazioni che dagli anni settanta si sono fatte sempre più accelerate". In questa intervista ad Antonella Visintin una riflessione "in chiave protestante" sullo Statuto e più in generale sui temi del lavoro

sciopero operai Pirelli, 1969 (da wikipedia)

Roma (NEV), 20 maggio 2020 – Compie mezzo secolo oggi lo Statuto dei lavoratori, varato dopo una stagione di lotte operaie senza precedenti (né equivalenti successivi, probabilmente) per la storia repubblicana. Abbiamo chiesto ad Antonella Visintin, coordinatrice della Commissione globalizzazione e ambiente (GLAM) della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, una riflessione a partire da questa ricorrenza, sul mondo del lavoro, “in chiave protestante”.

Diritti e lavoro sono stati i temi al centro dell’agenda politica dello scorso Sinodo metodista e valdese e sono tutt’ora tra le priorità del mondo protestante. Perché?

“Per varie motivazioni. Proprio l’anno scorso, nel 2019, tra l’altro si è celebrato il centenario dell’Organizzazione mondiale del Lavoro (ILO). Il lavoro e soprattutto le condizioni di lavoro impattano sempre sulla dignità delle persone: in questa chiave il nostro impegno, la nostra attenzione, sono costanti. E le condizioni di lavoro sono messe evidentemente in crisi dal precariato. I diritti del lavoro sono cioè sempre più sotto attacco e per questo, inevitabilmente, in ambito cristiano c’è ancora più attenzione verso le istanze di lavoratori e lavoratrici. D’altro canto non è un’attenzione nuova, fin dall’800 le chiese ne hanno fatto un aspetto rilevante del loro agire. Così come, più recentemente, negli Anni ’80, con il problema della disoccupazione dilagante – prima ancora quindi della piaga del precariato – ci fu un’inchiesta a livello europeo della Conferenza delle chiese europee (KEK) per capire cosa fare di fronte a queste problematiche. In quegli stessi anni la chiesa finlandese definiva, inoltre, i dieci punti per il “lavoro buono”. E poi, nel 2015, abbiamo promosso una carovana, fatta come GLAM e come FCEI, per un lavoro dignitoso e sostenibile. Un impegno continuo, dunque, che riflette l’importanza sociale dei problemi del lavoro, sia sul versante etico e diaconale che teologico. Senza dimenticare l’attività dell’8 per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi, con un grande contributo proprio a sostegno di attività economiche che abbiano una valenza etica”.

L’attenzione ai temi del lavoro ha ancora a che fare con l’etica protestante? 

“Questo rapporto continua ad esserci ed è su un doppio binario. C’è una parte del mondo protestante che considera il lavoro come uno degli ambiti in cui si vive la fede, il lavoro come testimonianza, che ha dunque a che fare con l’etica, l’onestà, l’integrità. In questo senso ogni lavoro è dignitoso.

Pensiamo all’ascesi intramondana, “innerweltliche Askese”, di Max Weber (una vocazione intesa come compito specifico assegnato da Dio ad ogni credente operante nel mondo,  anche nei mestieri più umili, ndr).

Un’altra parte va oltre e si chiede “quale” lavoro: per rispondere alla vocazione, l’attività del lavoro – anche quello alienato e sfruttato – deve essere anche rispettosa della giustizia e del creato. Il lavoro cioè a immagine e somiglianza di Dio, che sia costruttivo e non distruttivo. Anche un lavoro che produce armi, che miete vittime tra i lavoratori, risponde alla vocazione? La risposta può anche essere no, perché questi lavori non sono “finalizzati alla vita”, collaborano a un’economia della morte”.

A proposito di etica del lavoro, durante la pandemia si è in qualche modo riproposta una sorta di contrapposizione tra Paesi del Nord Europa, a trazione protestante, efficienti, parsimoniosi e rigorosi e Paesi “latini” del Sud, quali Italia e Spagna, cattolici, in qualche modo considerati “spendaccioni” e non affidabili. Che idea si è fatto di questa rappresentazione? Si tratta di uno stereotipo o di altro?

“Un recentissimo documento ecumenico dice che questo coronavirus non è stato un grande livellatore ma un grande rilevatore. non ha spostato gli equilibri e le dinamiche, ma forse ha amplificato alcune situazioni. L’Italia, ad esempio, è stata penalizzata negli ultimi decenni da una politica di disinvestimento industriale, con un decremento della ricchezza complessiva del Paese, il crollo del Pil, un atteggiamento di favore verso la classe datoriale. La combinazione di questi fattori ha prodotto una maggiore esposizione delle spese dello Stato, con la conseguente situazione di debito pubblico.

Il Covid19 e tutte le sue conseguenze hanno rivelato la debolezza della composizione e del peso della produzione industriale italiana e non una diversa propensione al lavoro tra nord e sud Europa. Creiamo beni intermedi, non produciamo un alto valore aggiunto, è difficile quindi fare ragionamenti sul livello di laboriosità, perchè le condizioni macroeconomiche sono tali da subire contraccolpi che altri paesi del Nord banalmente non hanno. Se poi si pensa che oltre 6 miliardi li diamo a FCA… Di cosa stiamo parlando? Tutto ciò per dire in definitiva che effettivamente esiste un gap tra il Nord e Sud in Europa, che ha però motivazioni strutturali e che non necessariamente hanno a che fare con l’etica del lavoro, bensì con la distribuzione del reddito e con le politiche industriali, con il peso specifico di ciascun Paese”.

La Cgil guidata da Maurizio da Landini ha presentato in Parlamento una proposta di legge, raccogliendo nel Paese 1 milione e mezzo di firme, per un nuovo Statuto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Che ne pensa?

“Lo Statuto dei lavoratori era pensato per aziende dai 15 dipendenti in su, e questa è stata anche una delle cause per cui la composizione dimensionale delle aziende italiane si è concentrata al di sotto dei 15 lavoratori, perchè la verità è che chi ha potuto così ha lasciato fuori i sindacati…Non a caso il primo articolo, quello su cui ci sono state maggiori polemiche, è quello sul licenziamento che è stato fatto saltare nel 2014 dal Jobs Act di Matteo Renzi. L’operazione che è stata fatta per svilire lo Statuto non è stata quello di farlo “saltare” ma di svuotarlo di senso, come ad esempio il diritto di sciopero. Per quanto riguarda la proposta della Cgil, il criterio è ovviamente corretto – estendere i diritti – ma non possiamo non attualizzare le modalità. Basti pensare al lavoro agile delle ultime settimane, il così detto smart working, sul quale proprio questo sindacato ha pochi giorni fa pubblicato un report.

Bisognerà quindi porre più attenzione al tema dell’organizzazione in termini di salute ed autonomia. Aggiungerei che personalmente ritengo sia necessario un salario minimo, che cominci un dibattito vero e costruttivo su questa necessità.

In termini generali, per concludere, non si può comunque non tenere conto delle innovazioni tecnologiche del mondo del lavoro, in primis della digitalizzazione. Questo Statuto andrebbe allora integrato, da una parte, e dall’altra ripristinato in tutta la sua valenza, recuperandone pienamente lo spirito, che attua la Costituzione”.

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