Roma (NEV), 16 settembre 2020 – Sono passati 150 anni dal 20 settembre 1870, data in cui attraverso una breccia aperta nelle mura aureliane vicino a Porta Pia le truppe italiane guidate dal generale Raffaele Cadorna entrarono in Roma, decretando la fine del potere temporale dei papi.
Dopo che la città di Roma divenne spazio “nazionale”, la diffusione religiosa protestante ebbe un incremento, anche semplicemente per il fatto che le guardie pontificie non potevano più impedire alle minoranze di divulgare le bibbie in lingua italiana, in un momento in cui la liturgia rituale cattolica era ancora in latino.
A distanza di 150 anni, c’è ancora molto da fare per la libertà religiosa e per la laicità nelle istituzioni. Ne parla qui Daniele Garrone, pastore, biblista, professore della Cattedra di Antico Testamento della Facoltà valdese di teologia e membro del Consiglio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Scrive Garrone:
<<Gli evangelici italiani accolsero con favore e spesso con entusiasmo la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Era per loro possibile entrare finalmente nella città, come fecero subito, e iniziarvi la loro predicazione. Fino al 1870, gli unici protestanti che potevano stare a Roma senza rischi e persino tenere i loro culti erano gli addetti ad alcune ambasciate straniere, dunque in zone extraterritoriali. Anche gli ebrei videro la definiva fine dell’epoca del ghetto solo col 1870.
Gli evangelici – magari con sentimenti diversi, da quelli filo-sabaudi dei Valdesi a quelli più garibaldini di altri – appoggiavano tutti il progetto risorgimentale dell’unificazione d’Italia e di Roma capitale. Tutti avversavano il Papa-re, considerato un nemico dei propositi di emancipazione culturale e politica del popolo italiano, ma anche sovrano della “Babilonia” di cui parla l’Apocalisse, e dunque oppositore di un cristianesimo autentico. Tutti erano convinti che la riuscita del progetto risorgimentale richiedesse non soltanto profondi mutamenti geo-politici e istituzionali, ma anche la diffusione di una nuova mentalità tra i cittadini del Regno, chiamati ad abbandonare la sudditanza spirituale al papa-Re per scoprire la libertà evangelica.
La progressiva estensione dei territori amministrati dal Re d’Italia fu perciò accompagnata da ingenti sforzi missionari da parte protestante. L’idea che gli italiani aspettassero con ansia la predicazione evangelica e l’avrebbero accolta a braccia aperte si rivelò un sogno, ma ebbe comunque come esito la diffusione delle comunità protestanti, fondate dai valdesi che spinsero la loro predicazione oltre i confini storici del loro ghetto alpino, le Valli valdesi, fino alla Sicilia come anche dalla missioni estere (metodisti wesleyani, ed episcopali, battisti, Esercito della Salvezza…). Le attuali comunità italiane del protestantesimo “storico” sono in larghissima maggioranza il risultato di quella espansione missionaria nell’Italia prima risorgimentale e poi Stato unitario. Sul piano giuridico, nulla era innovato – quanto alla religione – dai tempi dello Statuto Albertino, ma il nuovo clima fu utilizzato per estendere la propria presenza e in un certo senso “forzare” le cose in direzione di una piena libertà religiosa.
Il valore, anche simbolico, della breccia di Porta Pia, venne sottolineato sulla stampa evangelica – con accenti insieme patriottici e “antiromani” – nei vari anniversari del XX settembre … 1895 … 1920. L’entusiasmo di Porta Pia ebbe una doccia fredda con la Conciliazione del 1929.
A centocinquant’anni da Porta Pia, nella stagione apertasi con la stipula delle Intese previste dall’art. 8 della Costituzione repubblicana, la sfida è duplice: portare a compimento la libertà religiosa ancora segnata da remore e difendere, in un tempo di spinte identitarie e populismi, lo spazio pubblico come garanzia di eguali diritti ad ogni cittadino, indipendentemente dalla sua fede o dal suo ateismo, dalle sue concezioni e dal suo orientamento sessuale. >>