Maradona. L’insostenibile vocazione di essere un uomo

Il calciatore e campione del mondo, come capitano della nazionale argentina, Diego Armando Maradona è morto ieri, 25 novembre. Il pastore Peter Ciaccio indaga alcuni aspetti della sua figura e delle reazioni all'indomani dalla morte

Il Murale di Jorit a Napoli, con la scritta "Dios umano". Dettaglio da foto Wikipedia Commons

Roma (NEV), 26 novembre 2020 – Tra i punti fermi della mia adolescenza c’era il fatto che Diego Armando Maradona fosse un avversario. La mia Roma aveva faticato 41 anni per aggiudicarsi il secondo scudetto, mentre il Napoli di Maradona ce ne mise solo quattro. Il 22 giugno 1986 tifavo Inghilterra e il 3 luglio 1990 tifavo la migliore Italia che abbia mai visto giocare in un Mondiale di Calcio: peccato che Maradona fosse sempre dall’altra parte.

Eppure, o proprio per questo, sono rimasto colpito dall’acredine o dalla puntualizzazione maramaldeggiante che ha colpito la persona di Maradona nel giorno della sua morte. Possiamo derubricare questo atteggiamento come invidia o come arroganza del sopravvissuto? In parte, ma sarebbe troppo semplice.

Si dice che Maradona fosse il calciatore più forte della storia, come i Beatles per la musica: è vero? In entrambi i casi, il punto è come abbiano interpretato il proprio ruolo nella rispettiva epoca. E allora sì, Maradona e i Beatles hanno incarnato il tempo che hanno vissuto, senza dubbio alcuno, merito più raro e importante che essere “il migliore”.

Non è un caso che altre cose leghino il campione argentino e i quattro ragazzi di Liverpool. Seguendo la convenzionale linea del tempo Maradona e i Beatles sono durati poco, neanche vent’anni. Eppure sono riusciti a espandere quell’oggettiva linea del tempo, una convenzione come tante altre da infrangere e sono diventati dei miti, dei semidei come gli eroi dell’Antica Grecia, gente in grado di fare alzare la testa dalla comune e fragile umanità e donare agli appassionati la fede nella possibilità di riscatto ed elevazione. Compresi in quest’ottica non sono esagerati i titoli, apparentemente blasfemi, dei giornali che dicono che ieri è morto Dio.

In un mondo sempre più spietato sull’aspetto fisico, sui parametri di altezza, forma e peso, un mondo che ha creato anoressia e bulimia laddove proprio del cibo non c’è più da preoccuparsi come un tempo, Maradona era la dimostrazione che anche queste non sono altro che convenzioni. In una società che ti spinge a crescere per primeggiare (e ti fornisce anche ormoni ad hoc) la faccia da bambino di Maradona era un atto di ribellione politica.

In un mondo che odia i poveri in maniera ossessiva, dove si può essere neo-ricchi, ma mai ex-poveri, l’amore, pur imperfetto e a tratti caricaturale, di Maradona per la baracca nella quale era cresciuto era un monito, il pelo nell’uovo, il fiabesco pisello della principessa, il moscerino nell’occhio di chi ormai poteva permettersi di vivere come se la povertà non fosse qualcosa che lo  riguardasse o lo avesse mai riguardato.

«A working class hero is something to be», cantava John Lennon nel 1970: è una vocazione essere un eroe della classe operaia. Il working class hero nella cultura britannica era il figlio di poveri che ce l’aveva fatta, non rinnegando le proprie origini, come il calciatore Bobby Charlton, figlio di un minatore del profondo Nord, come lo stesso Lennon, figlio di una ragazza madre, abbandonato dal padre marinaio. Quando fu preso nelle giovanili dell’Argentinos Junior, Maradona raccontava, sfoggiando il suo sorriso fanciullesco: «Per me era come Disneyland, perché non avevo mai visto così tanti palloni in vita mia». Dimenticare la povertà significava anche dimenticare l’estrema felicità di quel momento.

Come Lennon, Maradona era un personaggio controverso per il quale la coerenza era un valore borghese che si opponeva all’autenticità e la domanda “Chi sono io” è più importante della domanda “Chi devo essere”. Per questo sono rimasto colpito da chi ieri ha scritto che Maradona non era un Uomo, con la lettera maiuscola. Qui non si tratta di santificare una persona che ha fatto di tutto per non essere un santo, ma di capire cosa s’intende per “uomo” (tralasciando la maiuscola). Se non era un uomo, cos’era? Forse un sub-umano? Uno che si stava meglio senza, uno da esuberare, uno da eliminare?

Conosciamo i difetti e le debolezze di Maradona meglio di quanto conosciamo le nostre mancanze. Ma quella che in lui era evidenza, negli altri era ipocrisia. Il mondo tossico, nella chimica e nell’economia, gli ha rimproverato di essere drogato. Il mondo che abbandona chiunque senza pietà gli ha rimproverato di aver abbandonato figli e compagne di vita o anche solo di una notte. Il calcio di Havelange e Blatter gli ha rimproverato di essere troppo bravo come calciatore: non è un gioco, Diego, è business!

Martin Lutero, altro working class hero, diceva che l’essere umano è allo stesso tempo giusto e peccatore («simul iustus et peccator»). Per questo e per la capacità di ispirare tanti altri esseri umani stritolati dalle convenzioni del mondo, possiamo dire, senza futili, ipocrite e moralistiche maiuscole, che Diego Armando Maradona era un uomo. Ed è stato bello averlo tra noi, anche solo come avversario.

di Peter Ciaccio