Lampedusa (NEV), 13 gennaio 2021 – Lampedusa è un luogo che spinge a relativizzare molti aspetti della società e della propria vita. La percezione del tempo e degli spazi si dilata e restringe a seconda dei periodi; l’eco di un avvenimento può risultare amplificata oppure ovattata, in base alla diffusione in scala nazionale; la salute e l’urgenza possono talvolta essere distorte, ristrette, rivalutate.
Il Covid-19, come in tutti gli altri luoghi, ha accentuato questo aspetto, rimodellando i protocolli, i contatti e le possibilità di accesso e di ingresso agli spazi e alle risorse sanitarie sull’isola.
L’accesso alle cure durante la migrazione è oggi una tematica inserita necessariamente in un quadro più ampio, già di per sé problematico dal punto di vista sanitario: la pandemia ancora oggi detta le regole in qualunque ambiente sociale, personale e lavorativo, anche laddove prima pareva esserci più “spazio di manovra”.
Nel caso più specifico degli approdi di migranti a Lampedusa, è possibile notare diversi aspetti che spingono a interrogarsi sulle ripercussioni del virus sulle nostre vite e sul modo di concepire e vedere le cose.
Al molo Favaloro, il protocollo prevede l’uso delle mascherine e di dispositivi protettivi – per tutto il personale presente e per le persone appena sbarcate – il controllo della temperatura e di altre possibili patologie: casi clinici specifici quali gravidanze, malattie contagiose, ferite cutanee, fratture, ustioni.
In caso di emergenza sanitaria, e quindi di necessità di trasporto urgente del paziente al poliambulatorio, la regola impone allora un test per Covid-19 al molo, prima che questi possa essere trasportato dai medici responsabili al pronto soccorso a bordo dell’ambulanza.
La necessità di questo test mobilita tuttavia un’ulteriore serie di risorse e di personale sanitario, spesso rallentando le procedure al molo e talvolta “appesantendo” il sistema sanitario lampedusano, già fragile.
Il risultato di questa nuova configurazione, chiamata a mobilitare diversi enti e risorse aggiuntive, è spesso una relativizzazione dei concetti di urgenza ed emergenza, ma anche della gravità di una ferita o delle condizioni fisiche del paziente. Spesso ci è capitato al molo di vedere che un braccio rotto, ustioni sugli arti inferiori, o persino l’incapacità di camminare autonomamente, non possono in qualche modo più essere considerate un’urgenza sanitaria che necessiti un’assistenza immediata.
Se le energie e l’attenzione si concentrano quindi sul rischio del contagio e sul rispetto delle norme di prevenzione, si rischia quindi che l’ampia e variegata sfera delle patologie della migrazione, che rimane consistente, possa venire trascurata o comunque relativizzata, poiché la priorità è l’emergenza attuale: il virus.
È possibile allora interrogarsi proprio sulle terminologie e i sistemi simbolici che si nascondono dietro concetti che troppo spesso utilizziamo senza davvero interrogarli: i medici presenti al molo sono richiesti in loco quali responsabili della cosiddetta “emergenza sbarchi”. Se ammettiamo che esista un’emergenza sbarchi, perché non si può parlare e intervenire prontamente anche sulle “emergenze delle persone che sbarcano”?
Se il Covid-19 sembra aver attenuato anche il grande clamore dei media riguardo le migrazioni e gli approdi sull’isola, ridimensionando la risonanza delle notizie e “sgonfiando” i numeri e le statistiche, si può dire che pare abbia avuto un effetto simile anche sulla considerazione e la definizione di diversi aspetti sanitari, che rischiano di essere trascurati o posticipati perché non altrettanto o abbastanza gravi ed evidenti.
Attualmente non solo serve parlare di accesso alle cure in contesto migratorio, ma anche discutere delle disponibilità materiali, logistiche e di personale che vedono diversi aspetti di criticità sovrapporsi, aggravando la situazione del paziente e complicando le possibilità del personale sanitario di assisterlo con l’immediatezza e le risorse necessarie.
Tutto questo è detto basandosi sui fatti e sulle evidenti sofferenze fisiche che si sono presentate negli ultimi mesi qui a Lampedusa, negli sbarchi che abbiamo avuto la possibilità di seguire di persona.
Riguardo alla sofferenza sociale e alle ripercussioni psichiche dell’esperienza migratoria, infine, la strada sarà probabilmente ancora più lunga e tortuosa.