SanPa. “Quanto male sei disposto a fare, per fare del bene?”

Un commento del pastore Peter Ciaccio sul documentario “SanPa - Luci e tenebre di San Patrignano” uscito su Netflix due settimane fa. “Un’Italia che ha bisogno di eroi e martiri (quando va bene) e di duci e boss (quando va male)”…

Roma (NEV), 13 gennaio 2021 – L’Agenzia NEV ha intervistato il pastore metodista Peter Ciaccio, teologo “pop” ed esperto cinefilo, sul documentario “SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano”, uscito su Netflix il 30 dicembre scorso, ideato da Gianluca Neri e diretto da Cosima Spender.

Qual è la sua prima impressione dopo aver visto la serie?

Ha fatto riaffiorare ricordi di un tempo per me lontano, quando alle elementari la maestra parlava di Vincenzo Muccioli come di una tanto brava persona; in tv c’erano i sondaggi di Mike Bongiorno, che incoronavano il fondatore di San Patrignano come personaggio più popolare d’Italia. Mi ricordo che chiesi ai miei genitori perché una persona così brava stesse subendo un processo: mi risposero che ci sono delle cose che non si fanno, neanche se lo fai per il bene.

Le parole dei miei genitori mi convinsero e sono state determinanti alla mia formazione.

Oltre trent’anni dopo le parole dei miei sono risuonate nella domanda «Quanto male sei disposto a fare, per fare del bene?», che resta sullo sfondo delle cinque puntate da un’ora l’una di “SanPa”.

Com’è strutturato il documentario?

La docu-serie è un ottimo prodotto: ben scritto, ben montato e ben diretto. Com’è prassi di Netflix è stato distribuito lo stesso giorno in 190 paesi e tradotto in 30 lingue. Lo standard della piattaforma streaming ha imposto uno stile cui la “normale” tv italiana ci ha ormai disabituato: non c’è sensazionalismo, le interviste sono concordate, non ci sono imboscate e ogni affermazione è passata al vaglio di un severo fact-checking. Inoltre, in virtù del vasto target internazionale, il documentario è fruibile e comprensibile e non ci sono “cose che non capisci perché non sai”: in una parola, comunica.

Cosa emerge della figura di Muccioli e dell’atmosfera di quegli anni?

Il racconto segue la classica struttura parabolica di nascita, ascesa e caduta: visto che la Comunità di San Patrignano è ancora al suo posto, è evidente che al centro della narrazione c’è la figura di Muccioli, presentato come un monstrum, nel senso ambiguo latino del termine, ovvero, comunque la si pensi, è un gigante. Quello che ha fatto e che ha costruito è stato enorme, con una determinazione che si contrapponeva alla latitanza delle istituzioni politiche. Una determinazione che, però, non sembrava lasciare spazio per dubbi e autocritiche, con conseguenze anche nefaste.

C’è qualcosa in particolare che l’ha colpita?

Mi ha stupito la reazione stizzita delle persone più legate a Muccioli, perché il documentario è alquanto equilibrato e, devo dire, mi ha costretto a rivedere il modo in cui consideravo il fondatore e l’esperienza di San Patrignano. Continuo a ritenere errati certi metodi e l’impostazione fondata su complicità, silenzio e culto del capo, ma gli aspetti della vicenda non sono così semplici.

Ne emerge, quindi, un quadro complesso. Come districarsi oggi, secondo lei, nel ginepraio delle manipolazioni?

Mi limito a considerare tre aspetti. Il primo è la cultura dell’emergenza continua e dell’irresponsabilità delle istituzioni pubbliche, incoerenti e mal coordinate tra loro. Quando l’eroina inonda il mercato italiano alla fine degli anni ‘70, le famiglie sono totalmente abbandonate a se stesse. In quel contesto, la figura di Muccioli appare a molti come l’uomo della provvidenza: “Ci pensa lui”. È un’Italia che ha bisogno di eroi e martiri (quando va bene) e di duci e boss (quando va male). Inutile elencare i diversi casi di emergenza continua che si sono susseguiti, ma l’attuale situazione del covid-19 riflette questa cultura di “pezze” da mettere per tamponare le falle del sistema.

Il secondo aspetto riguarda quella che io chiamerei l’anti-scienza. San Patrignano nasce confidando nel buon senso, nella buona volontà e nella convinzione che un “padre” con le maniere forti potesse agire dove un’educazione ritenuta permissiva aveva fallito. Non c’è spazio per la “scienza” (medicina, pedagogia, diritto, psicologia): è una sorta di alter-ego sistemico, che allo stesso tempo afferma e nega i fatti e la storia, portando alla luce la confusione e la distorsione nel pensiero, nella cultura e nella coscienza collettiva.

Il terzo aspetto, ma non ultimo, è la semplice esistenza delle persone tossicodipendenti. Negli scorsi decenni c’è stata una rimozione (oltre a un’incarcerazione di massa) ad opera di una certa retorica proibizionista e “benpensante”, a livello sia politico sia sociale. I cosiddetti ultimi sono stati relegati a una dimensione sub-umana o extra-umana. Il documentario “SanPa” restituisce loro la voce e il protagonismo, riportando storie di abisso e di resurrezione. Nel bene e nel male, questo ci consente di interpretare con maggiore completezza non solo ciò che è stato, ma anche ciò che è.


Peter Ciaccio è nato a Belfast da padre italiano e madre irlandese. Si occupa della cosiddetta “teologia pop”. Pastore metodista, si è laureato presso la Facoltà valdese di Teologia con una tesi sui modelli pastorali nel cinema di Ingmar Bergman. Per la casa editrice protestante Claudiana, ha pubblicato “Bibbia e cinema”, Il vangelo secondo Harry Potter”, “Il vangelo secondo i Beatles” e “Il vangelo secondo Star Wars” (con Andreas Köhn).