Roma (NEV), 20 aprile 2021 – La “Charta Œcumenica. Linee guida per la crescente cooperazione tra le Chiese in Europa” è stata firmata nel 2001 da rappresentanti delle chiese protestanti, cattoliche, ortodosse e anglicane. L’evento si svolse a Strasburgo e radunò circa 200 delegati da tutta Europa. Vennero incaricati giovani e meno giovani dei massimi organismi ecumenici. Dalla Conferenza delle chiese europee (KEK), al Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (CCEE), ai gruppi giovanili, più o meno indipendenti, quali il Movimento cristiano studenti e la Federazione mondiale della gioventù ortodossa Syndesmos.
Si celebrano in questi giorni i 20 anni dalla sua firma.
Ne parliamo con il pastore Peter Ciaccio, che era presente come vicepresidente europeo del Movimento cristiano studenti (World Student Christian Federation-WSCF-).
Cos’è stata e cos’è per lei la Carta ecumenica?
Il punto è proprio questo. Come ricollocare questo documento nel presente. Le chiese credevano che ci fosse qualcosa da tramandare. Anche se l’impostazione fu forse paternalista, e oggi ha lasciato spazio alla stanchezza e al cinismo. Ecco perché firmare adesso una Carta del genere sarebbe impossibile.
Potremmo definire la Carta ecumenica come un documento di indirizzo, di buone intenzioni. Una sorta di riassunto, una fotografia di cosa era in quel momento il Cristianesimo europeo. E di cosa avrebbe voluto diventare. Un documento che, purtroppo, consegnato alle chiese, è rimasto per certi aspetti lettera morta.
Perché oggi la narrazione sarebbe diversa?
La firma della Carta è avvenuta ad aprile 2001. Pochi mesi dopo, con l’11 settembre, il mondo sarebbe cambiato. Al punto 11, la Carta invita a curare le relazioni con l’islam. “Ci impegniamo a incontrare i musulmani con un atteggiamento di stima (nella versione inglese della carta: respect, ndr)”. E ancora: “Vogliamo intensificare a tutti i livelli l’incontro tra cristiani e musulmani e il dialogo cristiano-islamico”. Solo pochi mesi dopo, non sarebbe stato possibile dire o scrivere frasi di questo tipo.
E per quanto riguarda il rapporto con l’ebraismo?
La Carta parla anche di comunione con l’ebraismo, impegnandosi “a contrastare tutte le forme di antisemitismo e antigiudaismo nella Chiesa e nella società”. Eppure questo non è avvenuto in tutti i contesti, e l’antisemitismo ancora oggi presente in Europa ne è una prova.
Quali sono stati, secondo lei, i limiti di quel contesto culturale e religioso?
Fra i limiti di quei tempi, mi sento di citare il fatto che l’Ecumenismo europeo escluse in una certa misura le chiese dell’area pentecostale-carismatica, che è una parte sempre più rilevante del cristianesimo. Questo avvenne anche per le loro caratteristiche intrinseche, non facilmente integrabili. Non tanto un limite, ma una caratteristica dell’epoca era che le chiese e la società europea “vezzeggiavano” i giovani, cercando di creare occasioni in cui coinvolgerli. C’erano due modelli: il modello del “dipartimento giovanile” e quello degli organismi formalmente indipendenti. Il modello protestante italiano era il secondo e la Federazione giovanile evangelica italiana (FGEI) aveva un grosso peso nei movimenti ecumenici giovanili europei, cioè il Consiglio ecumenico giovanile in Europa (CEGE/EYCE), il Movimento cristiano studenti; in campo ortodosso aveva un ruolo importante anche Syndesmos. Il nostro lavoro dipendeva da quali quadri erano stati formati, e come.
La trasmissione generazionale sembra essere un problema, allora come oggi.
Oggi nelle nostre chiese raccogliamo più adulti. Persone che non hanno mai avuto a che fare con la chiesa, e poche persone giovani. Non siamo in grado di trasmettere la fede di generazione in generazione, figuriamoci i “valori comuni”, come la Carta si proponeva di fare.
All’inizio l’incontro ecumenico doveva tenersi a Salonicco. Perché poi fu scelta Strasburgo?
Per motivi di sicurezza. Il luogo dove avrebbe dovuto tenersi aveva subito degli attentati sospetti. Delle statue erano state decapitate, e alla fine l’incontro venne spostato. Salonicco rappresentava il mondo ortodosso in Occidente, perché la Grecia è la culla della cristianità orientale pur facendo parte del blocco occidentale. Alla fine si optò per Strasburgo, città tedesca e francese, simbolicamente importante come crocevia di culture.
In che modo la Carta avrebbe dovuto essere un passaggio di testimone?
L’idea era che non dovesse essere solo documento, ma una eredità lasciata ai giovani leader ecumenici europei. Anche se poi non è stato esattamente così. I leader della vecchia generazione avevano parlato e scritto. A un certo punto intervenne la giovane pastora luterana Elfriede Dörr, transilvana rumena di origine tedesca. Dörr partecipò come relatrice insieme al cardinale Karl Lehmann, presidente della Conferenza episcopale tedesca, alle sessioni di apertura e di chiusura. Avevamo visto il “giovanilismo”, avevamo ascoltato. E poi, davanti a tutti, nell’aula dell’Università, Elfriede Dörr disse: “Quello che noi giovani vogliamo dire è che non siamo il futuro della chiesa, ma siamo il presente delle chiese”.
Come si svolsero quelle giornate di lavoro a Strasburgo?
Le bozze della Carta, che inizialmente presentava soli 9 articoli, vennero mandate nei mesi precedenti alle chiese e agli organismi giovanili, che potevano presentare proposte di modifica. A Strasburgo abbiamo trovato la versione definitiva con 12 articoli. Per familiarizzare col testo e per favorire l’incontro intergenerazionale si crearono gruppi misti da 8 persone. C’erano circa 100 giovani e 100 meno giovani, con una rappresentanza di circa metà cattolici e metà protestanti, anglicani, vetero-cattolici e ortodossi insieme. Ci furono conferenze, culti, preghiere ecumeniche sparse nella città, itinerari a “coppie” come i discepoli di Emmaus, incontri nelle sale commissioni del Consiglio d’Europa.
Giovani e meno giovani… Questione di punti di vista?
A dire il vero nella componente cattolica c’era anche una buona percentuale di preti “maturi” che si occupavano di pastorale giovanile: uno stile di lavoro diverso da FGEI, WSCF e EYCE, dove i giovani si occupano dei giovani. Infatti i delegati giovani in quota KEK erano sotto i trent’anni. Ricordo anche la presenza di Gianni Long, allora presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), e quella dell’attuale presidente Luca Maria Negro, che in quei mesi ricoprì l’incarico di segretario alle comunicazioni della KEK. E, da nominare assolutamente, Gianna Sciclone, prima donna consacrata pastora dal Sinodo valdese (insieme a Carmen Trobia, nel 1967 ndr), e membro uscente dell’Esecutivo KEK. Sciclone è stata una delle menti che portarono alla stesura della Carta.
Come ha accolto questo momento il venticinquenne Peter Ciaccio?
Se mi dici che mi stai passando il testimone, ci credo. Per questo penso che il documento fosse molto avanzato, rappresentasse un buon punto di incontro. Al quale, tuttavia, sono state tarpate le ali, fin dall’inizio, quando fu deciso, per necessità, che non avrebbe avuto valore dogmatico-dottrinale, perché, se lo fosse stato, non lo avrebbero approvato i cattolici e avrebbe messo in difficoltà gli ortodossi. Ma da allora, per la prima volta, esiste un cristianesimo europeo continentale che si auto-riconosce come tale. Un cristianesimo che dice una serie di cose insieme. Questo è un evento epocale.
Quali debolezze possiamo riscontrare, in questo percorso, alla luce di quanto è accaduto nei successivi 20 anni?
Debolezze ci furono, sia nella formulazione di certe questioni, sia nell’organizzazione. L’impostazione era molto “libera”. È chiaro che se vengono invitate a parlare persone giovani, poi, non si può sapere cosa diranno. Inoltre c’erano alcune falle, che dimostrano la necessità di conoscere meglio il proprio continente. Ricordo l’arcivescovo ortodosso di Tirana lamentarsi del fatto che la Charta parlasse del cristianesimo come religione di maggioranza in tutta Europa e disse: “Forse non pensate che vivo in Europa, visto che in Albania i musulmani sono più dei cristiani”. Non era, poi, un documento molto coraggioso rispetto ai temi riguardanti le donne, o ai movimenti LGBTQI+. Come protestanti restiamo stupiti. C’è ancora molto da fare e da immaginare.
Quindi è una questione di potere e di equilibri?
A mio parere, il movimento ecumenico è stato, tra le altre cose, una “grande operazione verità”. Ormai sappiamo che possiamo convivere, pur con posizioni diverse. Ma… ognuno stia a “casa sua”. A meno che non ci sia una necessità materiale di integrazione… Vedi ad esempio cosa accade con le chiese di minoranze integrate. Penso all’Unione delle chiese metodiste e valdesi. Oppure alla chiesa ecumenica di Svezia. Nelle chiese di maggioranza questo non avviene, forse perché ci si illude che non serva, ma forse è proprio lì che ci sarebbe bisogno di una riflessione.
Dove collocherebbe il limite dell’ecumenismo?
Il documento di Augusta cattolico-luterano ha creato comunione? Mi pare di no. La questione non è di ricercare l’unificazione: siamo già uniti in Cristo. Non riusciamo, però, a trovare le condizioni per vivere in comunione. Il fatto che oggi non sia possibile per i cristiani e le cristiane di tutte le chiese condividere insieme il sacramento della Cena mostra tutti i limiti, che sono dati sostanzialmente da questioni di potere. Non è, infatti, importante che le persone scoprano (grazie al grande lavoro del movimento ecumenico) di sentirsi in comunione, ma chi amministra il sacramento, chi autorizza a partecipare, chi decide. Alla fine, ciascuno si sente più protetto “a casa sua”, nella propria chiesa, dove non subisce le scelte altrui: il limite è il potere.
La storia della Carta ecumenica cosa ci dice, quindi, oggi?
La Carta ecumenica parte da un percorso di 11 anni iniziato a Basilea nel 1989. Quel percorso “ubriacò” l’ecumenismo europeo, perché il fatto che quattro mesi dopo cadde il muro di Berlino è stato visto come un segno: il Signore ascolta le nostre preghiere.
La Carta è il punto di un percorso, ma se le chiese non se ne fanno niente, bisogna riflettere. La Carta rappresenta un momento avanzato dell’ecumenismo, ma allo stesso tempo ha un carattere troppo blando. È passata l’idea che si potesse adottarla, ma anche solo facoltativamente. E si è preferito ignorarla.
Pensa che la Carta abbia un futuro?
Ogni parola rimane lettera morta se la facciamo restare lettera morta. Le chiese dovrebbero studiare la carta, prima, e aggiornarla, poi. Ci sono dei punti fondamentali che parlano delle responsabilità dei cristiani per il continente, per le nazioni dove viviamo.
Nella Charta c’è un discorso civico che spesso le chiese preferiscono evitare. Cosa possiamo fare per il bene dell’Europa? Per il bene comune a livello mondiale? Molte chiese hanno lavorato contro l’Europa. Molti hanno fomentato piccoli nazionalismi.
Pensiamo al rapporto con la chiesa ortodossa russa pre-Putin. Sicuramente era molto diverso quando la chiesa era perseguitata. Era la chiesa ortodossa russa a insistere di parlare di diritti umani, quando era perseguita, ma oggi, con lo sposalizio “trono-altare” che si è rinnovato in Russia, essa sembra aver assunto una diversa posizione.
Cosa le manca dell’atmosfera di Strasburgo di 20 anni fa?
Mi manca l’aria bellissima di fraternità e sorellanza. L’idea di costruire un mondo migliore, quell’Europa sognata dai nostri padri e dalle nostre madri. Poi è arrivato l’11 settembre. Una data collocata nella storia, a seguito della quale molte persone in Occidente hanno avuto una regressione sulle dimensioni dell’incontro. Ne è scaturita diffidenza. E quell’apertura verso chi non è credente, verso chi ha altre visioni del mondo (come aveva ispirato la carta), è rimasta soffocata e frustrata.
A Strasburgo 2001 erano presenti anche Sandro Spanu, all’epoca Segretario FGEI, e Davide Rostan, all’epoca al IV anno di facoltà, facente parte di una Commissione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC).