Roma (NEV), 20 luglio 2021 – di Maria Elena Lacquaniti –
Venti anni fa il G8 di Genova segnava una data nera nella storia italiana. Si è scritto tanto e tanto ancora c’è da scrivere, soprattutto per quella macelleria del carcere di Bolzaneto che venti anni dopo si è riproposta come strumento di controllo dei detenuti durante le proteste. Non è però su questo che vogliamo porre l’attenzione e nello specifico neanche su Genova ma su ciò che c’è stato prima, le fasi di preparazione e ciò che è accaduto dopo, fino ad arrivare ai giorni nostri, alla pandemia da Covid 19 che ha flagellato il mondo viaggiando sul quel canale preferenziale aperto dalla globalizzazione ed impennandone la corsa semmai fosse stato ancora possibile.
I prodromi di una repressione che nel tempo sarebbe divenuta mattanza arrivavano da oltre oceano, con la manifestazione di Seattle del novembre ’99 dove il popolo “No Global” si univa contro il WTO (World trade organization, l’Organizzazione mondiale del commercio, ndr), l’accordo internazionale per il commercio.
Sei mesi prima invece l’Europa che si incontrava a Nizza per la ratifica della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” doveva fare i conti con quei giovani che la contestavano non in quanto tale, bensì perché mancava di essere espressione di una Europa, solidale, ambientalista, critica verso il processo di globalizzazione capitalistico e la mondializzazione liberista. Un’Unione Europea fragile nel suo ruolo geopolitico nei confronti delle grandi potenze quali Russia, Stati Uniti, Cina. Il movimento individua nel processo di globalizzazione un’arma contro le singole persone, togliendo loro, ossia togliendo ai popoli, comunità, singoli individui, spiragli di giustizia economica e sociale ed infliggendo all’ambiente un danno “globale” che ha contribuito ad aumentare le diseguaglianze economiche e sociali e ad accrescere il divario tra il nord ed il sud ma potremmo dire anche tra l’ovest e l’est del mondo.
Queste preoccupazioni hanno messo insieme forse per la prima volta nella storia delle contestazioni e delle manifestazioni, politica e fede, associazioni e singoli cittadini, alcuni partiti politici e movimenti. Questo è stato il popolo che ha terrorizzato i grandi del mondo, quel G8 che non ha alzato un dito per fermare le violenze ed ascoltare i suoi cittadini.
Questo è quello che ancora chiediamo dopo 20 anni e che oggi è diventato non più la preoccupazione di qualche migliaio di giovani e non ma l’alzata di testa di un intero pianeta, che chiede subito un cambio di sistema spingendo per la creazione di un mondo più equo, giusto e sostenibile. Dopo 20 anni una nuova consapevolezza sembra aver preso piede, quella che per accedere, sperare e intervenire subito nel cambio di rotta dobbiamo rivedere soprattutto il rapporto con i consumi globali, cominciando dagli accordi internazionali sul commercio, colpevoli dello sfruttamento economico e sociale delle persone e delle risorse naturali, come avevamo intuito allora.
Non basta più oggi sentir dire che avevamo ragione perché questo non è sufficiente a rispondere con giustizia a chi è stato fagocitato dalla macchina della globalizzazione, dalle sue alleanze vincolate, dagli impegni con la comunità internazionale, dalle normativa comunitarie, dal diktat delle agenzie internazionali come, nello specifico di questa riflessione il WTO o dei vari trattati come il TTIP, Transatlantic trade and investment parnership, l’accordo transatlantico sul commercio e gli investimenti, un altro strumento puntato contro le economie più deboli, il cui obiettivo è creare una grande area di libero mercato, in cui convergono standard produttivi che agevolano gli scambi sotto l’ombrello della riduzione dei costi.
Il G20 a presidenza italiana che si terrà a Roma il prossimo ottobre, si aprirà con la riforma del WTO, prevedendo nuove norme per riportare a ritmi sostenuti gli scambi commerciali, operazione questa che nell’ottica miope dei governi sembra la panacea per ridare stabilità ai paesi ed alle imprese dopo l’ondata drammatica del Covid. Il focus del WTO è di sola natura economica-commerciale e non offre spazio a riflessioni sul rispetto e garanzia dei diritti umani dei paesi che ne fanno parte e di quelli che non facendone parte sono soffocati da tale supremazia, come il caso della privatizzazione dei brevetti dei vaccini ed il finanziamento alla ricerca privata.
La globalizzazione che ci ha portato a Genova ieri e oggi nelle piazze a fianco dei “FFF Fridays For Future” è un processo che produce ricchezza solo per l’1% della popolazione globale. Nel complesso ha favorito la concorrenza sleale con un danno probabilmente irreversibile all’ambiente e alle società più deboli. Ha favorito il nuovo colonialismo per l’accaparramento delle poche ultime risorse che questa terra può dare e inevitabilmente un imperialismo combattuto non solo con mezzi economici ma anche militari, incrementando i conflitti mondiali. Ha generato occupazioni finte dove il diritto al lavoro è stato calpestato dalla precarietà del lavoro stesso, stretto nella morsa del costo a ribasso che colpisce i prodotti e ferisce i lavoratori rendendoli invalidi verso un progetto di vita. In ultimo ma solo per rimanere nei confini del commercio, il fenomeno della logistica che ruba ai singoli comuni fette di territorio su cui stallano parchi sterminati di autovetture e containers, che ha reso i porti commerciali bacini maleodoranti, inquinati e non sostenibili per l’ambiente e la salute delle persone, nonché ancora una volta per la sicurezza dei lavoratori, sempre costretti a turni pressanti, a poca prevenzione e minacciati da una sinistrosità mortale incalzante per quella logica della concorrenza che vuole l’immediatezza degli scambi.
Questo è il mondo dopo Genova e questi siamo ancora noi.