Roma (NEV), 2 agosto 2021 – di Peter Ciaccio –
La corsa dei 100 metri maschili è forse la gara più importante delle Olimpiadi nella disciplina regina dell’Atletica leggera. A distanza di 85 anni ancora ricordiamo Jesse Owens che vinse nella Berlino nazista. Atleti come Carl Lewis e Usain Bolt restano più di altri nell’immaginario di chi ha seguito le loro imprese olimpiche. E come dimenticare Ben Johnson, l’atleta che ci ha fatto conoscere l’espressione “steroidi anabolizzanti”, squalificato per doping alle Olimpiadi di Seul?
Ecco perché la vittoria di Marcell Jacobs alle Olimpiadi di Tokyo non è stata libera dalle polemiche legate all’agenda politica, complici involontari il colore della pelle e il nome inglese del campione italiano.
Il presidente del CONI Giovanni Malagò ha dichiarato: “È aberrante che non ci sia lo ius soli sportivo, a 18 anni e un minuto chi ha requisiti deve avere la cittadinanza”. Colpisce che questo c’entri poco con Marcell Jacobs, italiano per ius sanguinis, visto che la madre è italiana. Lo ius soli per lui non valga, a meno di non voler rivendicare El Paso, dove il campione è nato, come città italiana irredente. Colpisce anche che Malagò parli di “ius soli sportivo”, mentre i diritti dovrebbero essere riconosciuti al di là dell’utilità della persona cui vengano riconosciuti.
Sembra che in Italia l’opposizione maggiore al nazionalismo pseudo-ottocentesco che alza muri in terra e mare e che oppone il sangue alla terra sia quella che dice che gli stranieri “ci servono”. I diritti, però, non andrebbero giudicati sulla base dell’utilità e il fatto che siano sempre di più le persone non originarie dell’Italia che trovano nello sport occasione di integrazione non dovrebbe spingere a una deroga alla regola.
Tuttavia, se non è questo il caso di Jacobs, perché il presidente Malagò ha fatto questa dichiarazione? Voglio sperare che sia un colpo di genio comunicativo. Infatti, dopo mesi che non se ne parlava più, oggi siamo tornati a parlare di ius soli e di come considerare le persone italiane nella sostanza, ma non ancora nella forma, persone che non hanno un “paese loro” dove tornare, perché il paese loro è questo (o anche questo).
La politica e spesso anche l’informazione in Italia (e non solo) sono solite offrire una sorta di “menù del giorno”. Oggi parliamo di ius soli, domani parliamo di DdL Zan, dopodomani parliamo di Green Pass, come se si trattasse pasta e ceci, lasagne e pesce. Per chi è italiano o italiana nella sostanza, ma non ancora nella forma, si tratta invece di un problema quotidiano, che la società non può mettere da parte, con la scusa che oggi si parla d’altro.
Che sia un problema quotidiano lo si evince ancora di più oggi, dopo la grande vittoria di Jacobs. È bastata una sfumatura tendente al nero della pelle per scatenare su di lui un dibattito che non c’è stato su Jorge Luiz Frello Filho, più conosciuto come Jorginho, il centrocampista della nazionale di calcio. Sarà perché la sua pelle ha una sfumatura più chiara? Sembra che la sfumatura di colore della pelle determini l’asprezza del dibattito: basti pensare all’odio nei confronti del calciatore Mario Balotelli, dal nome italianissimo. Ecco perché è troppo semplice l’affermazione di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di oggi: “L’espressione “nero italiano” perderà presto significato, proprio come non avrebbe significato dire “bianco italiano”. È così importante il colore? Italiani: basta e avanza”.
Infatti, non “basta e avanza” dire che Jacobs è italiano. Nessuno e nessuna di noi è italiano “basta e avanza”, nessuna identità multipla può essere ridotta a una. Lo sappiamo bene noi protestanti italiani, che rivendichiamo tanto il nostro essere italiani quanto il nostro essere protestanti, e che non ci limitiamo a essere solo “protestanti italiani”.
La soluzione è porre fine all’assurda convinzione che si possa essere una cosa sola e non la sintesi possibile e vivente di identità plurime. La soluzione è accogliere l’altro e l’altra nella sua particolare diversità e non averne paura.
Il rifiuto e la rimozione della diversità, anche se “a fin di bene” (com’è nelle ovvie intenzioni di Cazzullo), è la violenza: il razzismo negli stadi e nelle strade, la “pulizia” etnica, l’arbitraria privazione di diritti, la discriminazione, la richiesta alle persone di non essere sé stesse, come è successo dove, ad esempio, c’è stata l’italianizzazione forzata dei cognomi.
Spesso, quando mi presento, ricevo questo commento: “Cioè Pietro”. “No, cioè Peter”, rispondo. È veramente così difficile?