Lampedusa (NEV), 12 agosto 2021 – Il cielo e l’acqua si confondono. L’orizzonte è inghiottito da un blu profondo che sembra non finire mai. Il mare è calmo per ora, immenso. Si inizia a intravedere una piccola isola. È tutta bianca, forse è lei, ha una forma triangolare, un po’ allungata, non sembra molto grande.
Si è proprio lei, vedo la Porta d’Europa. Più in là, in mare aperto, la Guardia Costiera e un’imbarcazione di fortuna… o sfortuna, chissà.
La steppa, il deserto, le palme, non sembra di essere in Italia. Gli alberi sono veramente pochi e il caldo di agosto toglie il respiro, insieme all’invasione dei turisti che affollano l’isola. Tre aerei sempre in moto nell’unico aeroporto che a stento si distingue dal resto.
Sono proprio fortunata, io arrivo con l’aereo. No, non iniziamo con gli occhi lucidi, non ho il diritto di farlo. Penso alle storie di chi arriva diversamente con le ustioni di un sole cocente che non perdona (nel ‘migliore’ dei casi), al timore di essere divorati dalle onde spinte dall’imprevedibilità del vento e a tutte le tragedie che segnano i volti. Quel tempo che scorre lento, lasciando dietro di sé un passato traumatico ma anche i propri affetti, i ricordi. Non oso immaginare quello che si prova per riuscire a trovare il coraggio di affrontare questa traversata tra morte e vita. Quante speranze e quante paure per una scelta condizionata da ragioni difficilmente comprensibili da uno sguardo di parte, abituato alla comodità di un trasporto sicuro, a un’accoglienza degna e a una libertà senza limiti.
Le ragioni sono diverse, così come le esigenze di ogni essere umano che emigra ma la questione non è questa. Come ci si può paragonare, anche solo per un instante di un commento fuori luogo, a delle persone per cui l’assenza di diritti e di mobilità è stata normalizzata, giustificandola con le origini radicate nel ‘Paese sbagliato’, da cui non si può partire se non per vie ‘illegali’, rischiando la propria vita?
Cosa rimane poi della ‘legalità’, se essa stessa non garantisce la dignità umana, la salvezza, l’alternativa di un nuovo inizio? Tutto sembra così strano e ingiusto quando si chiudono gli occhi di fronte a così tante persone costrette ad arrivare in questo modo barbaro, indegno, insicuro.
Il primo sbarco a cui assisto è gestito sugli scogli di un ‘non-molo’, di notte. Uno sbarco autonomo a quanto pare. Solitamente, gli sbarchi sono sul molo commerciale, sul molo Favaloro e raramente su qualche caletta. Paradossale dover usare questa parola per raccontare una situazione così assurda, estenuante, disumana. In che modo possiamo compararci al punto da sentirci minacciati dall’arrivo di altre culture che nei secoli hanno disegnato il nostro territorio, le nostre risorse, il nostro sostentamento e i nostri volti? Le migrazioni fanno parte della storia di ognuno di noi, disegnano il mondo. Perché continuiamo a pretendere di ridurne le sfumature?
Eppure, eccola lì, una barca di legno, in condizioni pericolosissime, avvistata in prossimità della costa. Deve essere condotta su terra dalla Guardia Costiera o dalla Guardia di Finanza, facendo molta attenzione all’attracco ma soprattutto al fatto che non si rovesci, visto che è molto piccola per contenere tutte le persone che la occupano.
Si attende l’arrivo delle autorità per iniziare. Il personale medico del Ministero della Sanità si costituisce di una o due persone, Medici Senza Frontiere è qui, così come l’unica ambulanza dell’isola. I ‘controllori della frontiera’ di Frontex riempiono di domande i nuovi arrivati che devono ancora smaltire il viaggio, se così si può chiamare. Gli operatori di UNHCR sono presenti, per la tutela, la mediazione e le esigenze di ogni sorta.
L’improvvisazione dello sbarco sulla scogliera ci coglie di sorpresa, così decidiamo di iniziare ad accompagnare le due famiglie in uno spazio un po’ più illuminato, dalle luci di una troupe televisiva e quelle della Finanza.
Una delle ragazze ha paura di essere allontanata da suo padre, la situazione è caotica ma la rassicuriamo, prima le donne e i bambini. Mi prende per il braccio e guardandomi negli occhi cerca una risposta. Il suo papà la raggiunge qualche minuto dopo.
Il personale di Save the Children chiede subito se ci sono minori non accompagnati, aiuta nelle indicazioni e nella strutturazione delle file per prendere i pulmini che conducono all’hot-spot, arrivati dopo un’attesa non indifferente con gli operatori. Ci sono due o tre vetture che fanno avanti e indietro, spesso con passeggeri uno sopra l’altro, anche nel portabagagli.
Insieme a loro e al personale di UNHCR li portiamo due alla volta al bagno, in condizioni igieniche pessime. Suor Franca e Suor Paola sono con noi per distribuire l’acqua e apportare quel briciolo di umanità che nella gestione istituzionale degli sbarchi può spesso mancare, una chiacchiera, un sorriso. Qualche succo per i minori, i peluches per i piccolini (se ci sono), le coperte termiche ma soprattutto un’attività di monitoraggio e accoglienza non indifferente, che smorza – speriamo – un pochino i modi talvolta aggressivi di alcuni membri dei Baschi Verdi e la presenza di altre forze di polizia che gridano di restare seduti.
La scena che si svolge davanti a me è sconvolgente. Il gruppo di uomini appena arrivato dalla Tunisia si stringe in un quadrato tra le fila delle forze dell’ordine, accucciati l’uno vicino all’altro, in piedi in un angolo una figura inquietante di cui distinguo solamente il manganello, in bella vista. Eppure, lo hanno già fatto per diverse ore o giorni, senza acqua né cibo e con i pochissimi oggetti che li accompagnano, a volte rimasti sulle imbarcazioni.
Passa un aereo sopra le loro teste, tutti insieme lo seguono con uno sguardo colmo di emozioni contrastanti, continuando ad aspettare. Una stella cadente dietro le loro teste sfugge all’attenzione, forse una luce di speranza.
L’aereo e la barchetta
La rubrica “Lo sguardo dalle frontiere” è a cura degli operatori e delle operatrici di Mediterranean Hope (MH), il progetto sulle migrazioni della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Questa settimana “Lo sguardo” proviene da Lampedusa ed è stato scritto dalla volontaria Miriam Bovi