Lampedusa (NEV), 6 settembre 2021 – Volevam veder le stelle, ci siamo. Riceviamo una chiamata per uno sbarco autonomo a Cala Pulcino (una delle calette di Lampedusa, vicina alla Spiaggia dei conigli, ndr). Il sole è andato via e a stento si intravede la strada. Scendiamo dalla macchina, prendendo le bottiglie d’acqua, i bicchieri, i succhi, le merendine, i sacchi della spazzatura e le coperte termiche.
Che si fa? Ci confrontiamo, è rischioso scendere giù fino alla caletta, il percorso è lungo. Per percorrerlo, si impiegano tra i 25 e i 60 minuti. Ci sono sassi scivolosi ovunque, radici, rocce, senza considerare il rischio della caduta massi segnalato da cartelli sparsi qua e là. E se qualcuno si fa male?
Eppure, riceviamo una chiamata da parte di un operatore di UNHCR, ci sono dei bimbi lì sotto, le donne sono sconvolte, gli uomini non sanno bene che fare. Quattro di loro decidono di salire, arrivano per primi. Gli altri restano sulla spiaggia di sassi, qualche bambino dorme, stremato.
Gli scogli dividono la terra dall’acqua, difficilmente visibili in una notte come questa. Non so come hanno fatto a toccare terra, tutti vivi. Una donna ha il piede che sanguina. La luna non si vede e sopra di noi c’è un manto di stelle che prova a indicarci la strada.
Prendiamo la macchina per arrivare al punto più vicino, segnalato da una sbarra che segna l’inizio di un labirinto di pietre e terra. Ci dividiamo, due di noi scendono, insieme all’altro operatore di UNHCR, un medico di Medici senza frontiere (MSF) e un carabiniere. Prendiamo una busta e ci mettiamo qualche bene di prima necessità, come due bottiglie d’acqua, qualche bicchiere, succhi e coperte dorate. Non possiamo sapere cosa troveremo, considerando la pericolosità dell’approdo in un posto così ostile per quanto bello.
È buio, molto buio. Le luci dei telefoni, insieme alle altre da montagna, distribuite dal medico di MSF, ci aiutano a seguire il cammino tortuoso. È la prima volta che lo faccio, non ho la minima idea di cosa ci possa essere in fondo, di quanto duri. Sembra lunghissimo e, per tenerci su, cantiamo, diciamo qualche cavolata e camminiamo in fila, il più velocemente possibile. La nostra apparente tranquillità nasconde una preoccupazione incalzante.
Una volta arrivati giù, incrociamo una fila di persone, ognuna con in braccio un bimbo. Li prendiamo con noi, perché la stanchezza si fa sentire dopo una traversata così difficile e lunga, dalla Tunisia fino a quelle coste rocciose. Qualche bimbo continua a dormire, accoccolato alla persona che lo tiene in braccio, il piccolino ogni tanto piange. Alcuni di loro si sono fatti cacca e pipì addosso.
Provo a prendere in braccio questa bambina, la mamma è frastornata, stanca, bagnata. Lei si dimena e piange, così decidiamo di tranquillizzarla. La metto giù, in fondo sono un’estranea, con mascherina e guanti in lattice. La cosa più importante per lei è non perdere la mamma, ha bisogno di starle vicino. Saliamo insieme, con una manina mantiene il contatto materno e con l’altra mi stringe forte. Ogni tanto mi guarda i guanti o si volta indietro nei passaggi più difficoltosi, per assicurarsi che sua madre ci segua.
I più veloci avanzano per il percorso in salita. Rimango un po’ indietro e mi ritrovo a capo della fila, per illuminare una strada che non conosco ma che in quel momento appare nitida di fronte a noi. Dietro di me, uno di noi tiene un bimbo piccolissimo e poi c’è il carabiniere con una bambina che forse avrà avuto più di 10 anni. Lei dorme, “Non mi lascia più”, mi dirà lui con dolcezza, una volta in cima.
Quando la luce schiarisce la terra e i sassi che ci precedono, mi rendo conto che stiamo seguendo delle tracce di sangue, appartengono al piede nudo della ragazza che ha camminato fin lassù senza fare un fiato. Quanta tenacia in queste donne. Le stimo tanto. Che strada, è orribile. Sembra interminabile.
Facciamo due soste per offrire un bicchiere d’acqua e dei succhi. Gli sguardi delle donne che sono con noi, insieme agli occhioni profondi di quella bimba, sembrano chiederci quanta distanza ancora dovremo percorrere. Si cerca di rassicurarle. Penso a una canzone ma ho come la testa vuota, non me ne viene in mente neanche una.
Dietre di me, il mio collega intona una ninnananna e cerca di tranquillizzare il bimbo che ogni tanto cerca il suo petto, forse pensando alla sua mamma, ha fame e vuole serenità. Diciamo a tutti di resistere, non so più in che lingua. Fino all’ultimo siamo tutti col fiato sospeso, facendo attenzione a non cadere, a mettere da parte tutto per concentrarsi sul percorso e su parole di conforto (o sconforto).
Le donne sono stremate, incredule, il cammino sembra infinito. Quando intravediamo le scale di legno, la donna più anziana ci sorprende e accelera. In cima, una moglie disperata cerca suo marito. Ci chiedono se sono saliti tutti e noi siamo gli ultimi. Lo ritroveranno più tardi, insieme a un altro uomo, all’inizio dell’Isola dei Conigli. Probabilmente, nella notte, la confusione li ha condotti su un cammino ancora più lungo e complicato.
Tante luci, i dottori, le forze dell’ordine, i militari in riga di fronte a noi. Si continua con la distribuzione dell’acqua, dei succhi e le coperte termiche. La bimba che avevo per mano ha camminato da sola senza mai parlare, anche l’acqua ha rifiutato, era arrabbiata. Quando arriva su, rivedendo il resto della sua famiglia, beve un succo. La aiuto ad aprirlo e lei mi guarda fisso. Un uomo, forse suo padre, le dice di ringraziare ‘tatà’. Le accarezzo il pancino. Inaspettatamente, mi cerca dal pulmino, mi saluta con la manina. Mi rasserena che lei abbia capito che non volevo farle del male.
Tutto è andato per il meglio, stanno tutti fisicamente bene, anche se scossi da quella notte stellata che non dimenticheremo mai. Anche la caletta mantiene le tracce di quell’episodio. A oltre venti giorni di distanza da quella nottata, tra il 12 e il 13 agosto, i giubbotti di salvataggio sono ancora lì, ammassati fra taniche di benzina, un paio di ciabatte, delle scarpe, bottiglie di plastica e altri rifiuti che marcano il passaggio di questo incubo, accanto alle tende e gli ombrelloni di un turismo sfrenato.
Quella notte lì, le stelle hanno guidato la speranza e la tenacia di diciotto persone, di cui otto bambini che ci hanno insegnato la tenerezza e l’importanza della vita. La forza che scaturisce dalla motivazione non ha frontiere né limiti.