Erica Sfredda lavora nella Divisione Finanze del Comune di Torino ed è membro attivo della Chiesa valdese, dove ricopre il ruolo di predicatrice locale. A lei abbiamo rivolto alcune domande.
È la prima volta che la presidenza del SAE viene assunta da una protestante. Cosa rappresenta a suo avviso questo dato?
L’associazione ha da sempre all’interno del Comitato membri protestanti, perché l’interconfessionalità anche gestionale è sempre stata una priorità. Il/la presidente è soprattutto la persona che rappresenta pubblicamente l’associazione, visto che le decisioni sono comunque sempre collegiali e fanno capo a tutto il Comitato esecutivo, che ascolta anche i responsabili dei gruppi locali. Aver scelto una presidente protestante significa avere la maturità di credere fino in fondo che l’associazione è interconfessionale e che anche in un Paese a maggioranza cattolica, l’interlocuzione possa essere totalmente alla pari con il mondo ortodosso e con quello cattolico romano.
Quando è nato il suo interesse per il dialogo ecumenico? E che posto occupa nel suo cammino di fede?
Il mio papà era metodista e la mia mamma valdese, quindi in un certo senso sono nata in una famiglia che aveva fatto dell’ecumenismo una delle colonne portanti. I miei genitori hanno vissuto con grande intensità anche l’ecumenismo con le altre confessioni cristiane sin dai tempi del Concilio Vaticano II, e di conseguenza ho sempre respirato un’aria di apertura, di ascolto, di attenzione all’altro e all’altra. A 16 anni sono approdata per la prima volta al SAE, che allora faceva le sue sessioni al Passo della Mendola, ed è stata un’esperienza che mi ha segnata per sempre. Anno dopo anno, sono cresciuta nella fede e nella mia identità di valdese, attraverso il dialogo con tanti pastori (allora io vivevo in diaspora e quindi per me le Sessioni erano una occasione preziosa anche per conoscere meglio la mia chiesa), ma anche con religiosi delle altre confessioni e soprattutto con i giovani e le giovani che come me cercavano la propria fede e la propria collocazione in un mondo in continuo fermento e cambiamento. Oggi, con una identità divenuta chiara e profonda, non posso che affermare che la mia fede è stata forgiata e si è sviluppata all’interno del mio percorso ecumenico, alla luce di quei passi biblici che ci impongono con assoluta chiarezza di lavorare insieme alla ricerca dell’unico Signore, per non essere di scandalo al mondo, per essere degni della vocazione che ci è stata rivolta.
Alla 57a sessione di formazione ecumenica del SAE che si è tenuta lo scorso luglio, si è registrato un numero crescente di partecipanti giovani: un rinnovato interesse per il dialogo ecumenico?
Vorrei poter rispondere di sì, ma starei bluffando. Il numero di giovani era in assoluto quello solito, ma in percentuale maggiore perché molti degli anziani non hanno partecipato a causa del Covid. Quella di quest’anno è stata una sessione particolarmente bella ed intensa e loro hanno avuto una presenza in effetti significativa. La speranza del nuovo Comitato esecutivo è di rendere i giovani maggiormente protagonisti e quindi di aumentarne il numero e l’importanza: essi non sono il futuro dell’associazione e dell’ecumenismo in Italia, ma sono già oggi la Chiesa; abbiamo bisogno della loro voce fresca, critica, vivace, curiosa per continuare tutti, giovani e meno giovani, a crescere. È una scommessa sul futuro, più che una realtà già oggi.
Quali sono i futuri progetti del SAE?
Il SAE vuole continuare ad essere sale e lievito nella terra. Quindi cercheremo di lavorare con le persone e con le comunità avendo presente il concetto di differenziazione: non siamo tutti e tutte uguali e quello che attira qualcuno può non essere compreso o adatto a qualcun altro. Il nostro tentativo sarà quello di differenziare le nostre proposte: accanto alla Sessione estiva, momento fondamentale di crescita e formazione per tutti e tutte coloro che ne sentono la necessità, e al Convegno di Primavera, nel quale l’associazione riflette anche su se stessa, vorremmo poter sviluppare alcuni filoni specifici per esempio sulla salvaguardia del creato o la questione del genere.
A partire dal bagaglio di esperienze personali, lavorative e comunitarie, quale sarà il suo contributo specifico al lavoro del Sae?
Sono una donna molto impegnata perché sono moglie e madre, lavoro nella Divisione Finanze del Comune di Torino e sono un membro attivo della Chiesa Valdese, dove ricopro il ruolo di predicatrice locale: diciamo che questa della presidenza del SAE è una scommessa che alcuni soci hanno voluto fare puntando su di me e “rivolgendomi vocazione” come si dice nelle nostre chiese. So che non sarò sola, ho al mio fianco una bella squadra, Simone Morandini, Donatella Saroglia, Livia Gavarini e Francesca Del Corso, e conto sul lavoro anche dei tanti e tante soci che si sono messi a disposizione per portare avanti quest’opera visionaria iniziata 60 anni fa da Maria Vingiani. Il contributo sarà quindi non solo mio, ma di molti e molte: insieme cercheremo di lavorare alla luce di quella sola speranza che è il nostro unico Signore. Essere ecumenici non è un di più, un fiore all’occhiello che alcuni vogliono e a cui altri possono rinunciare. Essere ecumenici fa parte dell’essenza stessa dell’essere cristiani: in primo luogo perché è il Signore stesso che ci chiama ad unità. Tutto ciò a partire dalla mia individualità di donna europea e valdese, cresciuta in una comunità multiculturale che ha vissuto il processo di «Essere chiesa insieme», dove ho imparato che la contaminazione è una grazia, perché la diversità e la differenza sono una ricchezza inestimabile, un dono prezioso che ci arricchisce spiritualmente, ma anche esistenzialmente.
intervista a cura di Marta D’Auria
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