Roma (NEV), 21 luglio 2022 – La prima sera a San Ferdinando termina con la vista di uno dei tanti, troppi, campi che disegnano la Piana di Gioia Tauro. Le strade che lo circondando sono buie, i lampioni non funzionano. Siamo vicinissimi al Porto di Gioia Tauro. Una colata di cemento, circoscritta da barriere e cancelli. File e file di containers di colori diversi.
Un ponte, si susseguono delle strutture dall’apparenza di palazzi. Sono la sede della polizia di stato, dei vigili del fuoco e dei carabinieri. Sulla riva, delle gru utilizzate per sollevare i containers, riporli sulle navi o scaricarli a terra. Con un amico e collega diciamo che somigliano a giraffe, così come le navi che appaiono e scompaiono lontane, grandi, scure e arrotondate che ci ricordano le astronavi, chissà dove sono dirette. Proseguiamo con la macchina, il porto continua.
Di fronte un cimitero, mi colpisce una croce luminosa di colore bianco. Ai lati dei marciapiedi sacchi della spazzatura sparsi. Casette miste a lamiera e ruggine costeggiano il lungomare. Un signore ammira il tramonto da una sedia. Una madonna con il bambinello al centro della piazza. Altri e altre passeggiano, molte coppie anziane, di amiche e amici, sono sedute sulle panchine in muratura. Signore con vestiti semi-lunghi che arrivano alle ginocchia, molto semplici, a tinta unita, spesso neri o scuri, pudici e lisci. Famiglie che si fotografano, bambini che giocano sui muretti o sulla spiaggia.
Forse è proprio questa l’immagine che portiamo nel cuore. I tramonti ci lasciano senza fiato, con colori accesi tra arancio e rosso di un sole che viene inghiottito dal mare. Le barchette colorate sulla spiaggia danno un tocco ‘da favola’. Chissà che posto bello era questo, prima che lo rovinassimo. La spiaggia bianca, l’acqua pulita e profonda, fresca che, toccando le pietre, lascia carpire un fruscìo che rasserena.
Sulla strada, ogni giorno, vediamo un susseguirsi di incendi che marcano il cammino di un odore acre e di cenere, tutto diventa nero, anche il cielo si offusca, fa caldissimo. Passiamo davanti a una distesa d’erba, confinata da un supermercato somigliante a un grande container, grigio. Una ex tendopoli ‘bonificata’ di cui rimangono le tracce nei pochi rifiuti che restano sul prato. Poi un’altra ancora, la zona sgomberata dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini il 6 marzo del 2019, una scelta che sarebbe costata diverse centinaia di migliaia di euro alla fiscalità collettiva, secondo alcune associazioni locali.
Eccoci. Un piazzale in cemento, una vettura dei vigili del fuoco e una della polizia. Containers che circoscrivono il perimetro con uno presidio costante. Una rete delimita la baraccopoli. Vedo tende, containers/bagni e baracche ricoperte di plastica. Un filo con i panni stesi spunta fra due tendoni. Biciclette qua e là, un cane abbandonato. Pelo di pecora sparso, il ricordo di alcune ricorrenze musulmane come la fine del ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca, le feste dell’Eid. Mi sorprende la plastica sopra i tetti, per proteggerli dalle intemperie certo, ma che alimenta il caldo. Tutto è completamente esposto al sole. Nello spiazzo terroso che osservo davanti a me, un cumulo di vestiti buttati a terra, quelli che non si possono lavare ma che forse verranno spediti con dei containers in Mali, mi spiegano. Un frigorifero rotto attende di essere rimosso. Non si può entrare, ogni contatto con gli abitanti di questo luogo sembra temuto. Quando entriamo nella casetta di legno della Hospitality School la polizia si avvicina e ci vuole identificare. Quella scuola così carina, prima del covid, veniva usata per i corsi d’italiano, i presidi sindacali e gli interventi medici. Ora è sempre chiusa.
Ancora un altro campo, sempre ben nascosto tra le campagne. Ci sono 11 containers in cui dormono molte persone, anche se nella stagione estiva si svuotano, visto che il lavoro agricolo si sposta in altri territori. Una rete li chiude. Altri due containers più in là, in un altro piazzale, che durante la pandemia segnava la zona dei test e dell’isolamento dei malati, separati da una barriera orizzontale in cemento. Ai lati dei marciapiedi ci sono roulottes, macchine e pulmini, alcuni funzionanti e altri no. Tutti servono per aumentare i ‘posti-letto’. Parliamo con un signore, per ore, di geopolitica post-coloniale.
Poi c’è il ghetto di Taurianova – o Contrada Russo – nascosto fra le campagne e un benzinaio, lo stesso da cui hanno provato ad avvicinare l’acqua al campo. Gesto smorzato dalla minaccia di chiudere il rifornimento. Proprio mentre in tutto il mondo imperversava la richiesta di lavare spesso le mani.
Vedo resti di edifici ricoperti di plastica e colonne pericolanti in mattonato. Roulottes e lamiera. Motorini rotti, tante bici. La metà del ghetto è ricoperta da spazzatura. Un cane vi rovista. Un uomo si lava seduto su un secchio arrugginito, l’acqua che ha preso sta in un recipiente di plastica per detersivi. Altri passano e ci salutano dalle bici.
Qui incontro una decina di persone, quando inizia la stagione arrivano a diverse centinaia. Sono tutti uomini e lavoratori braccianti, provenienti dai Paesi dell’Africa dell’ovest, come nelle altre baraccopoli. Le lingue più parlate sono il bambara e il mandingo. Ci porgono le sedie. Siamo tutti attorno a due letti posti sotto l’albero che fa un’ombra piacevole. Mentre prendiamo il tè, capisco che molti di loro sono passati dal deserto, la Libia, Lampedusa, altri anche da Calais o Parigi. Ce ne andiamo lasciando delle lenzuola, tutti si accerchiano per sceglierle. Qui arriva solo la polizia a controllare i permessi di soggiorno. A volte MEDU, Emergency e il sindacato.
Li invitiamo ai nostri allenamenti di kick boxing ma la strada fra il ghetto e l’ostello è tanta in bici, magari col tempo li faremo anche qui. A pochi metri, il cartello di un nuovo ‘progetto abitativo emergenziale’, un intervento di housing sociale su un terreno confiscato alle mafie, si stima – così c’è scritto sul cartello del cantiere – una spesa di 380 mila euro. Sarà un altro ghetto isolato e temporaneo? Quanta dignità, interazione o coinvolgimento per le idee e i pensieri di chi dovrà abitarci? L’alternativa o comunque una possibile opzione più equa e partecipativa secondo noi c’è ed è ecosostenibile, autonoma, in continuo fermento e incentrata sul dialogo, la collaborazione e lo scambio, si chiama Dambe So.