Annalisa Camilli ricorda Michela Murgia al Sinodo valdese: “Il coraggio è contagioso”

Il discorso della giornalista di Internazionale alla serata pubblica del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi, lunedì 21 agosto, a Torre Pellice, in provincia di Torino.

Foto di @Pietro Romeo/Riforma. La pastora e teologa Daniela Di Carlo con la giornalista Annalisa Camilli, alla serata pubblica del Sinodo valdese e metodista

Torre Pellice (NEV), 22 agosto 2023 – Il discorso della giornalista di Internazionale Annalisa Camilli pronunciato il 21 agosto 2023 durante la serata pubblica del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi, nel tempio di Torre Pellice.

“La macabra sequenza di femminicidi e violenze contro le donne avvenuti in Italia nel mezzo dell’estate ci impone una domanda: come mai in un momento in cui le donne hanno raggiunto livelli inediti e consolidati di eguaglianza e di partecipazione allo spazio pubblico, si moltiplicano invece gli omicidi, le molestie e gli stupri? 

Sono settantacinque le donne che nel 2023 sono state uccise dai loro mariti, dai loro compagni e dai loro ex. 

Tre solo negli ultimi giorni. 

Vera Schiopu, 25 anni, moldava è stata assassinata dal suo compagno a Ramacca, in provincia di Catania: è stata trovata appesa a una corda in un casolare semidiroccato accanto a quello in cui viveva. 

Il compagno, insieme a un amico, ha tentato di simulare il suicidio della donna e ha addirittura chiamato l’ambulanza, quando non c’era più nulla da fare. 

Il 17 agosto a essere uccisa dal suo ex è stata Anna Scala, 56 anni, accoltellata dall’ex marito mentre usciva dal suo appartamento a Piano di Sorrento. 

Lui l’ha aspettata per un’ora, l’ha accoltellata alle spalle e poi l’ha rinchiusa nel bagagliaio della sua macchina. 

Poi ha confessato l’omicidio.

In passato le aveva già rotto i denti e l’aveva picchiata anche davanti ad altri, accusandola di averlo tradito, quindi le aveva distrutto le ruote dell’auto.

Anna Scala non era stata zitta, ma aveva provato a difendersi e aveva denunciato il suo ex, per ben due volte nell’ultimo mese, ma nonostante questo non è stato fatto nulla per tutelarla. 

Poi c’è Celine Frei Matzohl, uccisa a Silandro, alla vigilia del suo ventunesimo compleanno, una settimana fa. L’ex compagno l’ha ammazzata a coltellate, quando è tornata a casa a prendere le sue cose dopo che l’aveva lasciato. Anche Celine Frei Matzohl aveva denunciato il suo ex per aggressioni e minacce aggravate, lo scorso giugno. Ma anche in questo caso non è servito a nulla, non è stato fatto niente per aiutarla. 

Vera Schiopu, Anna Scala, Celine Frei Matzohl.

Hanno età diverse, provengono e vivono in luoghi diversi, appartengono a classi sociali diverse, ma hanno due cose in comune: non sono state sostenute, anche se hanno chiesto aiuto. Secondo: sono state uccise da uomini che hanno chiamato e da cui sono state chiamate: “Amore”.

Questo significa che l’idea dell’amore nel nostro mondo può essere ancora legata alla violenza. 

Già la scrittrice e femminista Lea Melandri nel suo Amore e violenza, il fattore molesto della civiltà (Bollati Boringhieri 2011) sottolineava: “Ci sono parentele insospettabili che molti non riconoscono o che preferiscono ignorare. La più antica e la più duratura è quella che lega l’amore all’odio, la tenerezza alla rabbia, la vita alla morte”. 

Si distrugge per conservare, si uccide per quello che siamo state educate a chiamare “amore”, ma che amore non è, perché prevede delle forme di controllo e sopraffazione per le donne, che non possono disporre di sé o scegliere di cambiare. “Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più familiare, ma non per questo più conosciuto. A uccidere, violentare, sottomettere, sono prevalentemente mariti, figli, padri, amanti incapaci di tollerare pareti domestiche troppo o troppo poco protettive, abbracci assillanti o abbandoni che lasciano scoperte fragilità maschili insospettate”, scrive sempre Melandri. 

La violenza efferata è soltanto la punta dell’iceberg, lo sappiamo. 

Affonda le sue radici in una cultura profondamente sessista, che è ancora dominante. Basti pensare alle affermazioni del presidente del senato Ignazio La Russa, che qualche mese fa difendendo il figlio Leonardo accusato di stupro, ha accusato la vittima ventenne di avere assunto cocaina, liquidando le accuse. 

C’è sempre quello sguardo che mette le donne sotto esame alla ricerca di un pretesto per dire: “Te la sei cercata”. I centri antiviolenza di tutto il mondo raccolgono ogni giorno i racconti di donne che hanno denunciato di essere state stuprate e non sono state credute, perché erano truccate o vestite bene, perché non piangevano o per qualche altro motivo non erano considerate credibili. 

La pandemia ha perfino aggravato questo processo. 

“Ne usciremo migliori?”, ci chiedevamo nei primi giorni della pandemia di covid-19 nel marzo del 2020, c’era una speranza diffusa e mal risposta che la catastrofe fosse una specie di rivoluzione, come se la natura potesse fare delle battaglie per noi e cioè potesse distruggere i rapporti di forza tra oppressori e oppressi, lasciando spazio a modelli di vita più giusti. Ma ovviamente non è andata così. Anzi come spesso è accaduto nella storia la catastrofe è stata una porta da cui si è affacciato il passato ed è venuto a fare i conti con il presente, facendo cadere le conquiste più recenti e riportando alla luce vecchi modelli ancora più disuguali.

In quello spazio sospeso del confinamento sono infatti saltati di nuovo i limiti tra pubblico e privato e molte conquiste che sembravano assodate nella relazione tra i sessi, sono state rimesse in discussione. 

Le donne sono state ricacciate nelle case come in una specie di macchina del tempo e richiamate ai lavori di cura, così sono gradualmente scomparse come soggetti dal dibattito pubblico. Per tornarci solo da vittime di abusi e violenze.

Anche se da qualche decennio le donne – singolarmente e tutte insieme – questo sistema di dominio lo hanno messo in discussione con parole e più efficacemente con gesti, sottraendosi a relazioni, modelli familiari e lavorativi che non corrispondono più ai loro desideri. Questa rivoluzione non è ancora compiuta. Mentre la legge del padre entra in crisi, la violenza diventa più feroce. È probabilmente il tentativo di ristabilire quell’ordine, che invece è in declino. 

Che fare dunque? Due dei livelli su cui dovremmo provare ad agire per intervenire su quest’ondata di violenze contro le donne e questo backlash implicano l’ascolto e l’abbandono di un’attitudine solo passiva. 

Qualche tempo fa le femministe della Casa delle donne di Ravenna mi hanno raccontato che sempre più spesso uomini e ragazzi bussano alla loro porta, perché vorrebbero imparare l’autocoscienza come tecnica usata per decenni dalle donne. Per usarla nella decostruzione dei modelli maschili a cui sono educati e con cui non si sentono più in sintonia, perché mentre il mondo vecchio è al tramonto faticano a trovare nuovi paradigmi a cui ispirarsi. A questi ragazzi e a questi uomini bisognerebbe dare più ascolto e più spazio.
Poi c’è una pratica collettiva del coraggio che dovremmo ricominciare a praticare: se tutte e tutti insieme fossimo più disposti a reagire ai soprusi che riguardano gli altri, gli eventi più estremi non si verificherebbero. Penso spesso all’omicidio di Alika Ogorchukwu, l’ambulante nigeriano ucciso a Civitanova Marche nell’estate del 2022, lungo la strada principale della cittadina di mare, davanti agli occhi sbigottiti, dei passanti, che non intervennero, ma al massimo filmarono per denunciare l’aggressore.

Anche su questo sembra che la pandemia abbia avuto un effetto: ci viene più naturale denunciare, che intervenire, osservare che provare a fermare. Probabilmente anche per la paura di finire invischiati e di perdere qualcosa.

Dovremmo provare a essere più coraggiosi, più reattivi, più fiduciosi. 

La scrittrice Michela Murgia una volta ha raccontato: 

“Bisogna fare nomi e cognomi, e quando succedono casi di sessismo bisogna avere il coraggio di alzarsi e dire quello a cui sto assistendo non solo non mi rappresenta ma mi offende. A me è successo quando ho ritirato il premio Campiello (era il 2010 e il libro era Accabadora) e mi è capitato di assistere a una scena vergognosamente sessista in cui Bruno Vespa chiese alla regia della serata che andava su Rai Uno di inquadrare la scollatura di Silvia Avallone che stava ricevendo il premio per il Campiello Giovani, con l’esordio di Acciaio. Ecco quando rilasciai l’intervista subito dopo dissi che avevo trovato quella cosa scandalosa e ritenevo che fosse un gesto di potere e di abuso. Nessuno si alzò a difendermi. Anzi molti dissero Michela Murgia è gelosa perché non è stato inquadrato il suo di décolleté. E questa è una delle cose che possono succedere quando ti esponi. Allo stesso tempo posso dire che quel gesto di libertà, anche se in quel momento non ha ricevuto la solidarietà che io forse mi sarei aspettata, si è rivelato nella mia storia assolutamente fondante perché da quel momento io non sono più stata zitta su queste questioni e ogni volta che ho aperto bocca ho trovato un’altra voce di donna che si era aggiunta alla mia nel frattempo, perché magari aveva trovato il coraggio. Perché è così, il coraggio è contagioso”.


QUI il video integrale dell’evento, a cura di RBE Radio Beckwith:

QUI il resoconto dell’incontro a cura di Gian Mario Gillio, da Riforma.it: https://riforma.it/it/articolo/2023/08/22/donne-alberi-didee-e-di-diritti