Roma (NEV), 26 ottobre 2023 – Arriviamo in aeroporto che è ancora buio, ma sono già arrivate quasi tutte le persone. Incontro alcuni pazienti che abbiamo seguito in questi mesi, che oggi viaggeranno verso l’Italia, ci salutiamo con affetto e inizia un gioco di occhiolini e sorrisi con le figlie e i figli. Valigie grandi, piene zeppe, alcune nuove di zecca comprate apposta per l’occasione. Strumenti musicali, un trasportino per neonati, trolley di varie dimensioni. È tutto racchiuso lì, il bagaglio da cui ripartire. Una trentina di chili a testa a disposizione, per portarsi più “casa”, e storia e memoria possibile dietro.
In questi giorni ci siamo interrogate sul concetto di “essenziale” e “strettamente necessario”. Cosa dobbiamo mettere in quello zaino di emergenza nel caso in cui succedesse qualcosa di brutto? Continuo a non avere una risposta univoca, e credo che non esista. Cos’è strettamente necessario per ripartire da zero? Cosa prevede l’essenzialità del mio bagaglio? E di quello di un rifugiato?
I bambini e le bambine sono ancora mezzi addormentati, le sorelle vestite in coordinato, i fratelli pure, trecce e codini qua e là, qualcuno che sgranocchia una merendina tra il controllo bagagli e il controllo passaporti, chi si trascina con energia un trolley alto quanto loro, sicuramente pesante quanto loro. I bambini piangono spesso negli aeroporti, sentono la tensione, si dice, ma questi sono sul pezzo, a ognuno il proprio bagaglio e si aspetta con pazienza di completare tutte le procedure.
Sono sul volo di ritorno verso Roma, il primo corridoio umanitario da quando lavoro con Mediterranean Hope, che in un certo senso normalizza cose che non sono normali. Tipo andare via dal Libano in questo momento, accompagnando una cinquantina di persone in un viaggio importante, di sola andata, come quelli delle migliaia di persone che ho incontrato a Lampedusa. Dietro di me un bambino ripete “Bye bye Beirut”, ma mezz’ora fa non si ricordava neanche la destinazione del viaggio.
È forse il miglior modo di rientrare, tenuto conto che non avrei nemmeno voluto. Lo prendo come un modo per ritualizzare questo viaggio, che è un viaggio un po’ particolare rispetto al solito. Anche per me è un viaggio di sola andata al momento: non ho ancora il biglietto per il rientro a Beirut e questo mi lascia un po’ sospesa, in attesa. E capisco un centesimo della potenza di questa consapevolezza del non avere un ritorno – io, almeno per il momento.
Quella stessa attesa, quel senso di sospensione, di rimanere on hold ha scandito le ultime settimane, molto più del solito, e continua a caratterizzare questo periodo. Quella sospensione che non ci fa guardare, né pensare oltre le prossime 24-48 ore. Continuo a ripetermi e a ripetere “vediamo”, in lingue diverse, ma il concetto è sempre quello. Aspettiamo, vediamo, speriamo.
Non ho mai fatto esperienza della guerra, questa è forse la volta in cui mi trovo – o mi sento – più vicina in assoluto a una guerra, pur non vivendola direttamente. A Beirut siamo immersi in questa sensazione, nei discorsi, nelle riflessioni, nella comunicazione di ciò che succede aldilà del confine Sud. È un martellamento di immagini, notizie, updates, aggiornamenti, articoli, post, reels, contenuti, condivisioni, tweet, interviste, video, foto, opinioni, pensieri. La costante in tutto quello che vediamo è la forza, in ogni sua forma: di resistere, di mantenere lucidità, di continuare a raccontare, di operare sul pavimento pazienti senza anestesia, di cercare le persone sotto le macerie, di raccontare al mondo che cosa sta succedendo. Ma è anche forza violenta, disumana e disumanizzante, che annienta e annulla, forza bruta che non dovrebbe neanche appartenere al genere umano.
Una cosa ho capito da tutta questa situazione. Per un’italiana, direi anche per un’europea della mia età non è normale abituarsi a questa situazione, e invece tutte le persone intorno a me, anche persone più giovani di me, già conoscono questa sensazione, questo sentirsi sospesi, in attesa, andando comunque inesorabilmente avanti. Qui si è abituati a razzi che attraversano la frontiera sud, non è niente di extra-ordinario. Mi sono trovata diverse volte a chiedere ai miei colleghi, alle mie colleghe, alle persone con cui parlo quotidianamente, con cui trascorro la pausa pranzo o il sabato pomeriggio, come stiano vivendo questa situazione, proprio per capire anche io come posso entrare in quella stessa ottica. Per cercare gli strumenti per fare fronte a una condizione che di normale ha ben poco, ma se deve diventare la nuova normalità, bisogna attrezzarsi per viverla. Loro l’hanno già vissuto, questa storia l’hanno già vista, e molti di loro erano bambini, adolescenti o giovani genitori. Ma restiamo in attesa, vediamo cosa succede domani, speriamo.
Per me è il periodo del “che fatica”. Fatica a stare in questa indefinizione, ad essere spettatori inermi di un massacro senza tregua né umanità, ma anche di propaganda, misinformazione, informazioni parziali, talvolta false, talvolta affrettate, approssimate; altre volte fatica a doversi confrontare con la cruda realtà della violenza in ogni sua forma, con la consapevolezza che certe ferite non si chiudono e che intere generazioni le stanno vivendo sulla loro pelle e ci faranno i conti per il resto della loro vita. Chiunque provi ad informarsi appena decentemente su come va il mondo sa quanto tempo e quanta fatica, appunto, richieda.
Io ora sto andando via, torno in Italia, prendo le distanze quantomeno fisiche. Nel momento in cui ho ricevuto la conferma che sarei partita, in quel preciso istante, è iniziato un malessere nuovo, che mi faceva stare anche peggio di quella tensione che mi ha accompagnata nelle ultime settimane. L’ho riconosciuto come senso di colpa. E in una forma diversa mi ha ricordato ciò che ho vissuto e di cui ho scritto sulla mia brevissima esperienza in Siria, quando hanno bloccato alla frontiera con il Libano un collega solo perché siriano.
Andare via adesso l’ho vissuto un po’ come un tradimento, mio nei confronti di chi resta là, di quelle stesse persone con cui trascorro le mie giornate, che semplicemente non hanno la stessa possibilità di allontanarsi, partire, prendere le distanze, mettersi al sicuro. Faccio ancora una volta esperienza di quel diritto e quella libertà di cui troppe poche persone possono godere, e quindi di un privilegio. Privilegio di tornare a casa, di andare in Europa finché non si inquadra la situazione, finché le acque non si calmano. Ancora una volta, la possibilità di mettersi al sicuro, di poter prendere un aereo, di andare da un’altra parte per un po’, è una questione di geografia. Di passaporti e di visti, per estensione. Di chi ha più o meno legittimità a mettersi al sicuro, di chi è considerato sacrificabile in qualche modo, più di altri, di chi è vittima o effetto collaterale.
È a partire da questo privilegio enorme che abbiamo, e parlo da cittadina europea, che questa stessa Europa – intesa come collettività e società civile – dovrebbe agire, mossa da una rabbia e da un senso di giustizia che dobbiamo riconoscere, conoscere ma soprattutto coltivare. Soprattutto, non sarà rinunciando alle nostre libertà, ai nostri diritti, alle nostre possibilità che aiutiamo o facciamo la differenza. Io in Libano non farei alcuna differenza, quindi forse è giusto così, ha senso tornare. Restituire un po’ del nostro privilegio nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre strade, forse può gettare le fondamenta per nuove possibilità, anche e soprattutto per chi è nato dall’altra parte del mare, affinché non sia costretto a un viaggio di sola andata ma possa sognare anche un ritorno.