Roma (NEV), 4 aprile 2024 – di Giovanni D’Ambrosio – Tra il 2022 e il 2023 sono quasi 6000, secondo le stime dell’Osservatorio sulle migrazioni di Lampedusa di Mediterranean Hope, le bambine e i bambini tra gli 0 e i 10 anni che sono approdati a Lampedusa dopo quel viaggio lungo e pericoloso che attraversa da una parte all’altra il Mediterraneo Centrale.
No Border Books. Stories for children on the move è un progetto nato dalle pratiche di solidarietà che da anni Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, la biblioteca Ibby di Lampedusa e il Forum Lampedusa Solidale mettono in atto proprio in quel minuscolo lembo di terra che è Lampedusa.
Si tratta di un libro senza parole, un silent book, in bianco e nero da colorare, ideato e realizzato grazie alla disponibilità e alla professionalità di Felicita Sala, illustratrice. Mostra un bambino e una bambina che giocano, mangiano, corrono, e mentre fanno tutto ciò scoprono il mondo che li circonda: gli alberi, i frutti, il cibo, i paesaggi di tante parti del mondo. Insieme ad alcuni pastelli colorati sarà consegnato a bambini e bambine proprio nei momenti successivi all’approdo sull’isola.
Il libro sarà presentato in anteprima il 9 aprile alla Bologna Children’s Book Fair.
“Un libro può servire a tante cose. A divertirsi, prima di tutto, ma anche a rilassarsi, o a isolarsi dal resto del mondo attorno che, specialmente nei momenti subito successivi all’arrivo, può essere caotico, faticoso e spesso anche doloroso o traumatico. Un libro può servire anche ai genitori o tutori per prendersi qualche minuto di pausa per sé, per smetterla di preoccuparsi dopo ore infinite in viaggio, mentre i bambini e le bambine finalmente leggono, colorano o giocano”, spiegano promotori e promotrici dell’iniziativa.
No Border Books, i libri senza confini, hanno avuto la fortuna di incontrare nel loro percorso anche le storie, le capacità e l’entusiasmo di un collettivo di donne che provengono da tantissimi paesi diversi: Tunisia, Costa d’Avorio, Guinea Conakry e così via. Il collettivo si chiama Free Femmes – Artigiane per la libertà di movimento, ed è composte da donne che si trovano in Tunisia e in Italia. Alcune di queste hanno alle proprie spalle un percorso migratorio, altre sono ancora all’interno di questo percorso. Hanno deciso di riunirsi per cucire insieme dei prodotti artigianali come astucci e borse.
Bintou Touré, tra le fondatrici di questo collettivo, racconta che “Il lavoro collettivo è stato un modo per ribellarci al nostro dolore e condividerne il peso con altre donne come noi”.
No Border Books sostiene in piccola parte questo progetto di autonomia e riscatto utilizzando degli zainetti prodotti appositamente da Bintou e dalle altre sue compagne nei laboratori che si trovano da una parte all’altra del confine, in Tunisia e in Italia.
“Speriamo che questo (primo) libro che se ne infischia dei confini che attraversa possa viaggiare da una parte all’altra del mondo stretto tra le mani di chi lo porta, lo legge, lo colora, lo scambia, ed essere una scusa per un incontro e un sorriso tra chi lo porge e chi se lo prende”, concludono promotrici e promotori.
Per approfondire:
Libri e tessuti senza confini. Intervista a Bintou Touré, tra le fondatrici di FreeFemmes – artigiane per la libertà di movimento
FreeFemmes – Artigiane per la libertà di movimento, si potrebbe definire un laboratorio di sartoria terapeutica e sociale che nasce a Medenine, una città del sud-est della Tunisia, nel 2022. Il progetto si sviluppa dalla collaborazione tra un gruppo di donne migranti, già attive sul territorio in pratiche di mutuo aiuto e piccoli lavori di sartoria, e un’associazione tunisina: l’Association pour l’Education des Adultes. Da questo incontro nasce l’idea di costruire uno spazio sicuro dove poter condividere il dolore, raccontarsi e immaginare il proprio futuro. Alcune di queste donne, come vedremo, hanno attraversato il mar Mediterraneo e ora si trovano in Italia. FreeFemmes è così diventato un laboratorio di sartoria transnazionale, adeguandosi alle traiettorie mobili delle persone che lo animano. Recentemente, FreeFemmes ha incontrato l’Osservatorio sulle migrazioni di Mediterranean Hope e la biblioteca Ibby di Lampedusa proprio mentre queste due realtà stavano elaborando un progetto dedicato ai bambini e alle bambine migranti che raggiungono l’isola attraversando il mare. Bambini e bambine che partono soprattutto da quelle coste tunisine dove molte tra le donne di FreeFemmes vivono e lavorano.
Il progetto si chiama No Border Books. Stories for children on the move. Storie per bambini e bambine in movimento. L’idea di per sé è semplice. Un silent book, cioè un libro illustrato senza parole, e una manciata di pastelli colorati. Il libro è stato realizzato grazie al lavoro di Silvia Vecchini e Felicita Sala che hanno offerto la loro professionalità per questo progetto ideando e illustrando le 34 tavole che formano questo libro. Il tutto inserito in uno zainetto cucito dalle artigiane di FreeFemmes nel tradizionale tessuto wax africano. Lo zainetto poi è consegnato da Mediterranean Hope e dai volontari e le volontarie del Forum Lampedusa Solidale ai bambini e alle bambine che sopravvivono al mare e mettono piede a Lampedusa.
Bintou Touré è una delle fondatrici del collettivo FreeFemmes. Ora si trova a Genova e ha accettato di raccontarmi la sua storia perché, spiega: “Dopo tutto quello che è successo e quello che abbiamo sofferto, voglio che FreeFemmes sia conosciuta ovunque, che le nostre storie siano conosciute ovunque”.
Mi puoi raccontare com’è iniziato il tuo viaggio e come mai hai deciso di venire in Europa?
“Mi chiamo Bintu. Sono una cittadina ivoriana. Nel mio paese lavoravo come ostetrica. Poi sono iniziati i problemi, mio marito è stato ucciso e io sono dovuta fuggire. Sono stata prima in Mali, un paese pericolosissimo, e anche da lì sono dovuta andare via. Ho raggiunto quindi l’Algeria, dove ho vissuto per sei mesi. Poi, il 25 novembre del 2016 la polizia algerina mi ha catturato e mi ha deportato in Libia. Ci hanno lasciato in mezzo al deserto senza nulla. Con noi c’erano donne incinte, bambini. Ho visto morire moltissima gente di fame, sete. Io sono sopravvissuta grazie ad alcuni abitanti del deserto che mi hanno portata via insieme ai pochi altri ancora vivi. Non sapevo che ci avrebbero venduto ai nostri carcerieri. La prima volta che sono andata in prigione in Libia siamo entrati che dovevamo essere una cinquantina. Sei mesi dopo, quando sono riuscita a scappare, eravamo rimaste in dodici. Chiedevano un riscatto di 1500 euro, chi non poteva farseli inviare dalla famiglia moriva. Se avessi avuto quei soldi mi sarei fatta una vita con i miei figli da qualche altra parte. Gli uomini erano torturati e picchiati, le donne prostituite. Quando sono fuggita, grazie a un amico ho raggiunto Tripoli. Ignoravo che quella non sarebbe stata l’unica volta che avrei visto le sbarre di una prigione. Da quando sono entrata in Libia a quando ne sono uscita 4 anni dopo sono sopravvissuta a cinque diverse prigioni, al bombardamento di una di queste e a due naufragi.
Puoi raccontarci di più sul bombardamento della prigione in cui ti trovavi e sui naufragi?
Era la terza volta che finivo in prigione. Mi avevano catturato per strada, ero uscita per comprare delle cose e mi hanno chiesto i documenti. In quel periodo, era giugno se non sbaglio, c’era la guerra tra il governo di Tripoli e quello di Benghazi. Una notte hanno bombardato la prigione di Tajoura dove mi trovavo. Ci sono stati tantissimi morti. Io mi sono salvata con solo un piede rotto. Io non sarei mai voluta partire per attraversare il mare, mi faceva troppa paura. Sapevo che tantissime persone erano morte e non riuscivo ad accettare che fosse la mia unica possibilità. Mi continuavo a dire: “se devo morire va bene ovunque sia, ma non voglio morire nel mare degli arabi”. Avevo fatto richiesta anche per essere “deportata” [il rimpatrio volontario assistito, ndr] da OIM. Ma non potevo tornare in Costa d’Avorio e avevo chiesto di essere deportata in Senegal, ma alla fine hanno rifiutato la mia richiesta. Allora mi sono decisa e sono partita. Era estate. La barca su cui viaggiavamo in oltre un centinaio di persone è naufragata. Io ero con Aisha, mia figlia, che era praticamente appena nata. La guardia costiera libica ci ha raggiunto e, di tutti quelli che eravamo tra cui anche una decina di bambini, ci siamo salvati solo in 14. Mia figlia aveva bevuto tantissima acqua. Ho iniziato a massaggiarla, cercando di farle sputare l’acqua nei polmoni. La mia esperienza di ostetrica mi ha aiutato e a un certo punto ha iniziato a vomitare. Quando l’ho vista vomitare ero sconvolta dalla felicità. Ci hanno riportati a Tripoli e, nonostante fossimo appena sopravvissuti a un naufragio, ci hanno riportato in prigione. Io ho detto al mio carceriere “non ho più nulla, ho perso tutto e nessuno può aiutarmi. Lasciami morire in questa prigione insieme a mia figlia, non m’importa”. Devo averlo impietosito perché ci ha lasciato andare. Ormai ero convinta a ritentare, non potevo restare in Libia un solo giorno in più. Il 29 luglio del 2020 abbiamo lasciato le coste libiche e il primo agosto siamo stati intercettati dalla guardia costiera tunisina. Io sono stata malissimo dopo perché la marina tunisina non ha condotto un buon salvataggio e la nostra barca si è rovesciata. Io sono caduta in mare, ma poi ci hanno salvato e portato in Tunisia.
E com’è andata poi in Tunisia?
E’ vero che non eravamo in prigione come in Libia, ma non avevamo comunque la libertà. Le discriminazione che subivamo erano continue. Anche lì ho provato a farmi deportare in Senegal, ma nulla, l’OIM dopo sei mesi che aspettavo mi ha rifiutato la domanda. Ma io non mi sono mai data per vinta. Ci siamo organizzate, andavamo di fronte alla sede dell’OIM a Medenine tutti i giorni a chiedere e a fare pressioni per farci dare delle risposte. Se dovevamo aiutarci tra noi lo facevamo sempre. Sono sempre stata un persone con un forte senso di solidarietà. Non avevamo neanche il diritto di curarci in ospedale, ma se qualcuna di noi stava male allora andavo in ospedale e rimanevo lì a costo di gridare e creare un caos totale fino a quando non curavano la persona che stava male. Poi, insieme ad altre persone, è nata l’idea di creare un progetto di sartoria collettivo che unisse noi, donne migranti in Tunisia, e anche le donne tunisine dell’associazione Association pour l’education des Adultes.
Com’è nata l’idea di creare FreeFemmes?
E’ stata una necessità. Non c’era nessuno psicologo in Tunisia che potesse aiutarci nell’elaborare i nostri traumi e il lavoro collettivo è stato un modo per ribellarci al nostro dolore e condividerne il peso con altre donne come noi. Abbiamo conosciuto delle donne tunisine meravigliose. In un paese non possono essere tutti razzisti, e noi siamo riuscite a costruire uno spazio dove divertirci e lavorare insieme, e anche elaborare i nostri passati spesso molto difficili. E’ stato davvero terapeutico. E poi c’era la questione di aiutarci a vicenda. Siamo state unite e solidali nonostante ci trovassimo nel peggiore momento delle nostre vite. Eppure appena una di noi aveva bisogno ci attivavamo per aiutarla, raccogliere i soldi che servivano o qualsiasi altra cosa. Così è nata FreeFemmes, perché ne avevamo bisogno.
Poi hai deciso di venire in Italia. Come mai?
Nel febbraio del 2023, il presidente tunisino Saied ha fatto un discorso alla nazione in cui ci accusava di essere un pericolo per l’identità tunisina. Le cose sono cambiate in fretta. Io stessa sono stata attaccata per strada da un gruppo di tunisini che mi hanno picchiato alla testa senza motivo. Allo stesso tempo avevo paura perché poco tempo prima una nostra compagna di FreeFemmes che aveva deciso di attraversare il mare era morta insieme alla sua bambina in un naufragio lungo la rotta. Ma non ce la facevo più a restare. Un giorno, forse proprio dopo quell’aggressione mi sono detta “basta, e ora che me ne vada”. E così sono partita insieme ad Aisha. Era il 25 aprile, una mattina all’alba abbiamo lasciato una spiaggia nei dintorni di Mahdia. Dopo ore e ore di viaggio ci è venuta incontro la Guardia Costiera Italiana. Non so se hanno deciso di aiutarci perché avevano visto che non ce l’avremmo fatta da soli. Tra noi c’era anche una donna con un bambino piccolo. Purtroppo lui non è sopravvissuto ed è morto qualche giorno dopo che eravamo arrivati.
Quali sono i tuoi progetti adesso?
Vorrei che il progetto di FreeFemmes si ingrandisse, che venisse conosciuto sempre di più e che diventasse una sartoria vera e propria. Ero esaltata, proprio felicissima quando ci avete contattati per proporci di produrre gli zainetti per il progetto di No Border Books da offrire ai bambini e alle bambine che arrivano a Lampedusa, perché è così che deve essere. FreeFemmes deve andare un po’ dappertutto e far parlare di sé. Tramite quegli zaini, i vestiti, le borse e il resto delle cose che facciamo, raccontiamo le nostre storie, e penso sia importante che quelle storie siano ascoltate”.