Roma (NEV), 16 aprile 2024 – “Lavoro e stili di vita” è il titolo della relazione che il teologo Hanz Gutierrez, dell’Istituto Avventista di Firenze, ha tenuto lo scorso 9 aprile. L’occasione è stata quella del convegno “Lavoro ed etica del lavoro nel tempo della decrescita: storia, cambiamenti, diritti”, tenutosi a Fisciano (Salerno). Il convegno è stato organizzato dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) in collaborazione con l’Università degli Studi di Salerno e l’Istituto di Studi sul Mediterraneo (ISMed-CNR). Gli abbiamo posto alcune domande.
Professor Gutierrez, nel suo intervento lei ha parlato di una “terza via” tra crescita e decrescita. Qual è questa via?
La “terza via” tra crescita e decrescita rappresenta una sfida complessa, poiché implica la ricerca di alternative qualitative e non solo quantitative, senza cadere nei monolitismi. In realtà, a mio avviso, la scelta fra crescita e decrescita rappresenta una falsa alternativa. L’occidente propone lo stesso paradigma, quello di un “lavoro-centrismo”. La società del lavoro non è consapevole dei propri presupposti e succede che, in quel tempo libero che si pensa di aver conquistato, non si rinasce, ma si riposa per lavorare ancora di più dopo. Il concetto di “lavoro” è cambiato nel corso della storia, passando dall’essere un’attività legata all’intera vita a un’occupazione limitata contrattualmente. La società del lavoro, con la tecnologia, ci ha liberato, in parte, dalla fatica del lavoro, ma non dalla mentalità del lavoro, cioè dalla fatica psicologica. Questo si traduce in individui stressati e ansiosi, privi dell’Eros vitale, ma per come è strutturata la società del lavoro oggi essa non è né unica né definitiva.
Le pressioni della società contemporanea stanno quindi portando a un declino nelle relazioni e nella creatività. Dove sono le alternative?
Il mondo “moderno” (o post-moderno, o tardo-moderno) ha invaso tutta la vita del lavoro e questo fenomeno produce soggetti stanchi e compulsivi, penso al cosiddetto burnout, ma non solo. Il segno più tipico di questo disagio è l’Agonia dell’eros, per citare il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han. Le società del lavoro, oggi, tendono a essere anerotiche, o dis-erotiche. Se le alternative fossero convalidate non sarebbero alternative. Esse devono essere parzialmente incerte, cosa che non può avvenire in una società della prestazione. Più che di alternative preferisco parlare di soggetti nuovi di dialogo. Per due motivi. Innanzitutto, la parola “alternativa” sa di concessione senza un pieno riconoscimento. Inoltre, è una parola legata al mondo delle idee. Dovremmo parlare invece di soggetti nuovi che incarnano il cambiamento. Chi sono? Giovani, donne e gli altri popoli.
Il monoculturalismo raffinato d’occidente deve cedere il passo a un policentrismo culturale, che contempli culture dell’equilibrio e della qualità della vita, non (solo) della crescita, come ci ha ben illustrato l’antropologo Francesco Remotti. O, per dirla con Dipesh Chakrabarty, si tratta anche di “Provincializzare l’Europa”.
Qual è il rischio delle società del lavoro e in che modo possiamo salvarci?
La società moderna, incentrata sul lavoro e sulla prestazione, tende a sacrificare l’eros e il desiderio spontaneo, creando così una mancanza di passionalità e vitalità. Il desiderio, fondamentale per l’innovazione e la creatività, è spesso represso da una programmazione rigida e da una mancanza di spazi per la spontaneità. La presenza dell’altro è essenziale per risvegliare il desiderio, ma nelle società occidentali moderne l’altro è spesso ridotto a un contratto o a una presenza formale, mancando quindi di autenticità e passionalità. È necessario trovare un equilibrio tra l’efficienza che porta a una maggiore produttività, e la preservazione del desiderio e dell’eros, che rischiano di essere soppressi da una programmazione eccessiva. Oggi è la cicala che potrebbe salvare la formica.
Disembedding. Cos’è e perché è importante averne consapevolezza?
Il Disembedding è un concetto sociologico che si riferisce allo scollegamento, alla frammentazione delle istituzioni sociali, delle comunità, anche a livello religioso e familiare. È il processo per il quale la modernizzazione e la globalizzazione scollegano le persone e i comportamenti, in nome di una autonomia individuale sempre maggiore. Portata alle sue estreme conseguenze, questa idea di bene “totale” si sostituisce all’idea di bene “comune” rischiando di danneggiare tutti. Per fare un esempio, è come moltiplicare per zero una qualsiasi cifra. Il risultato non sarà più una moltiplicazione di qualcosa di buono per tutti, ma sarà sempre zero.
A chiusura del suo intervento lei ha citato il Salmo 1. Perché?
Salmo 1
Beato l’uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi, che non si ferma nella via dei peccatori; né si siede in compagnia degli schernitori; ma il cui diletto è nella legge del Signore, e su quella legge medita giorno e notte. Egli sarà come un albero piantato vicino a ruscelli, il quale dà il suo frutto nella sua stagione, e il cui fogliame non appassisce; e tutto quello che fa, prospererà. Non così gli empi, anzi sono come pula che il vento disperde. Perciò gli empi non reggeranno davanti al giudizio, né i peccatori nell’assemblea dei giusti. Poiché il Signore conosce la via dei giusti, ma la via degli empi conduce alla rovina.
Il Salmo 1 rappresenta la sfida di realizzare se stessi, contemporaneamente senza isolarsi dal contesto e senza negare il desiderio che ci spinge a crescere e a innovare insieme. Nei versetti del Salmo vediamo due vie, quella del beato e quella del perverso.
Un’altra lettura potrebbe evidenziare due modelli antropologici. I beati che non si fermano, secondo una logica di prestazione. Dall’altra, una metafora vegetale: l’albero che porta frutto. Potrebbe sembrare la vita inutile di uno “stato vegetativo”, invece l’albero è innovativo perché è metafora di una produzione stando fermi. Più sei fermo, più produci. Puoi produrre diversamente, accade quella che la Bibbia chiama fioritura, che produce una bellezza che salva. È un paradigma importante, perché il frutto della pianta viene offerto. Il meglio di me non è per me, ma per il passante. È il perfetto modello relazionale e, in più, è un modello anonimo, sobrio, che si contrappone al protagonismo egoistico e alla competizione.
In questa lettura c’è anche un invito alla trascendenza, come collegamento con il cosmo e con l’ecosistema, in modo più profondo, non cioè come ri-formulazioni economiche. Ricordiamoci infatti che, oltre una certa soglia di accumulo e di ricchezza, non assumiamo gioia, ma logoramento. L’invito del Salmo 1 è a essere come un albero, che produce senza sforzo e fiorisce nella sua staticità. Questo modello sottolinea l’importanza della bellezza e della relazionalità che porta fiori e frutti stando ferma. In conclusione, possiamo riconsiderare la nostra visione del lavoro e dello stile di vita, abbracciando la diversità culturale e cercando modelli che valorizzino l’essere piuttosto che il fare.
Qual è la sua valutazione, in generale, sul convegno?
È stato un momento molto positivo di riflessione comune, sia per la varietà dei contenuti trattati che per il dibattito interdisciplinare. Sono state messe a confronto diverse prospettive e diverse generazioni. Inoltre, diverse istituzioni religiose, con rappresentanze evangeliche protestanti, valdesi, pentecostali, hanno contribuito a un dialogo costruttivo tra le varie realtà ecclesiastiche. Questo ha arricchito la discussione, sebbene non tutte le domande abbiano ottenuto risposte definitive. Sarebbe auspicabile un seguito per approfondire ulteriormente i temi trattati.